Portella della Ginestra. 1° maggio 1947

“Fatto di delinquenza” privo di movente politico come dichiarò l’allora ministro dell’Interno Mario Scelba? Strage di Stato? Oppure “banditismo politico”, tesi sostenuta da Girolamo Li Causi, primo segretario regionale del Pci?
Sono ancora tanti gli interrogativi aperti e le ipotesi al vaglio di studiosi/e: la strage è stata una semplice reazione del mondo agrario all’avanzata del Blocco popolare oppure una strategia di più ampio respiro, volta a provocare una sollevazione popolare estremamente violenta che consentisse allo Stato italiano di cancellare definitivamente il Pci dalla scena politica, mettendolo fuori legge?
Tesi quest’ultima basata anche sul ritrovamento da parte dello studioso Giuseppe Carlo Marino di un appunto scritto da un compare di Salvatore Giuliano, Rosario Candela, che si riferiva alla strage come una provocazione per mettere fuori legge il Pci.
E ancora: Salvatore Giuliano era un bandito o “un uomo d’onore”, chi furono i mandanti della strage del 1° maggio? Quali le reali connessioni con la Chiesa, i Servizi Segreti, il “quarto potere”? E così via.
La storiografia sull’argomento è vastissima.
Pare comunque chiaro che lotta di classe e risvolti politici agirono in connessione nel decidere la strage; non solo le sinistre parlarono di mafia, di agrari e forze conservatrici ma anche gli organi di stampa.
La “Voce della Sicilia” titolò nell’edizione straordinaria successiva alla strage: «A Piana della Ginestra baroni e mafia contro il popolo. Sanguinoso eccidio contro cittadini inermi in festa. Sfida alla democrazia italiana e ai lavoratori di tutto il mondo».
E sul fatto che fossero cittadini inermi in festa nessuno ha mai avanzato alcun dubbio o ipotesi altre!

Gli antefatti
Il 1947 fu un anno di importanti scontri politici che portarono i consensi per la Dc al tracollo: in Sicilia era passata dal 33,6% del 2 giugno 1946, al 20,5% delle elezioni regionali del 20-21 aprile 1947.
Il terzo governo De Gasperi scontava così il duro colpo al prestigio nazionale legato alla firma del Trattato di Pace del mese febbraio che privava l’Italia di tutte le colonie, imponeva il pagamento di riparazioni per 360 milioni di dollari a Russia, Grecia, Jugoslavia, Albania ed Etiopia e, ancora, la perdita dell’Istria e di Trieste.
Pesavano sul governo, inoltre, l’inflazione aumentata negli ultimi sei mesi del 50%, i tentativi di escludere gli esponenti della sinistra dal governo, complice una sorta di ricatto delle gerarchie ecclesiastiche che minacciarono di abbandonare il partito democristiano qualora fosse riconfermata la loro presenza nel governo nazionale e la scelta di aderire al blocco occidentale guidato dagli Usa, manifestamente anticomunisti.
Nella seduta del Consiglio dei Ministri del 30 aprile 1947, De Gasperi aveva dichiarato che «Oltre ai nostri Partiti, vi è in Italia un quarto Partito, che può non avere molti elettori, ma che è capace di paralizzare e di rendere vano ogni nostro sforzo, organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga dei capitali, l’aumento dei prezzi o le campagne scandalistiche. L’esperienza mi ha convinto che non si governa oggi l’Italia senza attrarre nella nuova formazione di Governo, in una forma o nell’altra, i rappresentanti di questo quarto Partito, del partito di coloro che dispongono del denaro e della forza economica».
Ovvero aveva riconosciuto la assoluta prevalenza, anche sul risultato elettorale, di minoranze estremamente ricche e, quel che più contava, in possesso degli strumenti per paralizzare l’azione del governo se non avesse coinciso con i loro interessi, e le sinistre non appartenevano certo a quella minoranza.
Alle elezioni regionali del mese di aprile in Sicilia la Dc fu sorpassata dal Blocco del Popolo, formato da comunisti, socialisti e Partito d’Azione, che ottenne il 30,4% e 29 seggi, contro i 19 della Dc, mentre il Blocco liberale, separatista, monarchico, qualunquista ne guadagnò 31.
La campagna elettorale era stata caratterizzata da una lunga serie di minacce e dalla violenza delle cosche che aveva provocato diverse vittime. Il 4 gennaio 1947 era stato assassinato il dirigente comunista del movimento contadino Accursio Miraglia e il 17 gennaio era stato ucciso il militante comunista Pietro Macchiarella; lo stesso giorno i mafiosi avevano sparato all’interno del Cantiere navale di Palermo. Le minacce si erano fatte sempre più esplicite: alla fine di un comizio il capomafia di Piana, Salvatore Celeste, aveva gridato: «Voi mi conoscete! Chi voterà per il Blocco del popolo non avrà né padre né madre»; la  mattina del primo maggio a San Giuseppe Jato la moglie di un “qualunquista truffatore” aveva avvertito le donne che si apprestavano a partecipare al raduno di Portella: «Stamattina vi finirà male»; a Piana un mafioso aveva apostrofato minacciosamente i manifestanti: «Ah sì, festeggiate il 1° maggio, ma vedrete stasera che festa!». Era già tutto deciso?

1° maggio 1947, ore 10 circa
Circa duemila persone, tante donne, bambini e anziani, interi nuclei familiari erano giunti a piedi, col carretto o a dorso di mulo già di prima mattina, moltissimi lavoratori della zona di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, in prevalenza contadini, si erano riuniti in località Portella della Ginestra.
All’improvviso, quindici minuti di fuoco di mitragliatrice lasciarono a terra 11 morti e 27 feriti, secondo le fonti ufficiali, ma altri morirono successivamente per la gravità delle ferite riportate, mentre i feriti furono poi stimati in 65.
Dal racconto di Serafino Petta, 88 anni, sopravvissuto alla strage, intervistato durante la commemorazione del 1° maggio 2017: «Ci eravamo dati appuntamento per festeggiare il Primo maggio ma anche l’avanzata della sinistra all’ultima tornata elettorale e per manifestare contro il latifondismo. Non era neanche arrivato l’oratore quando sentimmo degli spari […] Avevo 16 anni, pensavo che fossero i petardi della festa, ma alla seconda raffica ho capito. Ho cominciato a cercare mio padre, non l’ho trovato. Quello che ho visto sono i corpi distesi per terra. I primi due erano di donne: la prima morta, sua figlia incinta ferita. Questa scena ce l’ho ancora oggi negli occhi, non la posso dimenticare».
Semmai vi fu una coincidenza fu che la strage avvenne proprio all’indomani del discorso del Presidente De Gasperi sopra ricordato. Se consideriamo anche gli avvertimenti, più o meno velati, dei giorni precedenti ecco manifestata la parola di quel «quarto partito» siciliano formato da agrari e mafiosi e di come il suo «voto», in netta opposizione al risultato elettorale delle regionali del 20 aprile, andasse nella stessa direzione annunciata da De Gasperi: estromettere le sinistre dal governo nazionale e impedire loro di entrare nel governo regionale.
Dopo l’eccidio vennero fermate immediatamente 74 persone e nei giorni successivi i fermati arrivarono a 120, tra cui i capimafia locali. In seguito furono arrestati come autori materiali della strage i capimafia Giuseppe Troia, Salvatore Romano, Elia Marino, Pietro Gricoli perché erano stati riconosciuti da alcuni giovani del posto. Ma evidentemente qualcosa non quadrava ancora poiché il giorno stesso della strage l’Ispettore Generale di Pubblica Sicurezza in Sicilia Ettore Messana aveva già indicato come responsabile la banda Giuliano. È da segnalare che Messana era una figura piuttosto discussa, inserito nell’elenco dei criminali di guerra in Francia, ritenuto dal Ministro Scelba come colui che stava eliminando il banditismo in Sicilia mentre per il segretario del Pci siciliano, Li Causi, era colui che dirigeva il banditismo nell’isola considerando pure i legami con esponenti pluriomicidi della malavita locale, che passavano per suoi confidenti.
Anche il “Giornale di Sicilia” confermò l’ipotesi di Messana con l’articolo del 22 giugno che titolava: «A Portella ha sparato Giuliano. Anche se Giuliano non è mai stato il bandito del mito che toglie ai poveri per dare ai ricchi, la strage di Portella e gli attentati successivi contro le sinistre sono un’inversione di rotta nella sua carriera di fuorilegge, ma ciò non significa un mutamento nelle alleanze contratte con l’arruolamento nelle file separatiste». Del resto Giuliano proprio un santo non era poiché nella sua “carriera” fu responsabile di circa 430 morti, fra carabinieri, poliziotti e civili.
L’inchiesta giudiziaria nel suo complesso fu caratterizzata da indagini frettolose e superficiali; purtroppo non erano infrequenti i casi in cui la magistratura a quei tempi “fraternizzava” con gli agrari e i mafiosi poiché spesso condividevano origini familiari e collocazione sociale. Non si procedette alle autopsie sui corpi delle vittime e nemmeno alle perizie balistiche per accertare il tipo di armi usate per sparare sulla folla.
Il 17 ottobre 1948 la sezione istruttoria della Corte d’Appello di Palermo rinviò a giudizio Salvatore Giuliano e gli altri componenti della banda e la Corte di Cassazione, per legittima suspicione, assegnò la competenza alla Corte d’Assise di Viterbo, dove il dibattimento iniziò il 12 giugno 1950 per concludersi il 3 maggio 1952 con la condanna all’ergastolo di 12 imputati. Ma Salvatore Giuliano era già stato assassinato il 5 luglio del 1950.
La complessità e gli innumerevoli risvolti che coinvolsero molteplici figure istituzionali erano tali che la verità non era stata chiarita in modo netto tanto che, sulla base di nuove acquisizioni documentali, nel dicembre 2004 i familiari delle vittime chiesero la riapertura dell’inchiesta.
Chi era realmente Salvatore Giuliano? E quali nuovi documenti sono emersi per poter riaprire il caso?
Per lo storico di Piana degli Albanesi, Francesco Petrotta, «Salvatore Giuliano non era semplicemente un bandito, ma un mafioso […] un uomo d’onore, che faceva parte dell’organizzazione criminale Cosa Nostra». La conferma si troverebbe nelle testimonianze dei pentiti e nei documenti americani dell’Office of Strategic Services, desecretati nel 2000.
Infatti il primo a rivelare al magistrato incaricato Pietro Scaglione (ucciso poi da Cosa Nostra nel 1971) che Giuliano non fosse solo un semplice bandito era stato proprio il suo luogotenente Gaspare Pisciotta, prima di essere avvelenato nel 1954 all’interno del carcere Ucciardone di Palermo. Tesi successivamente confermata, anni dopo, da Tommaso Buscetta e, nel 1989, anche da Francesco Marino Mannoia al giudice Giovanni Falcone.
Ma nonostante la desecretazione pare che questi ultimi documenti non siano di fatto consultabili e oggi, a 73 anni dall’eccidio, la verità non è ancora emersa in piena luce.

Per saperne di più
P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Torino, Einaudi, 1989
Umberto Santino, Portella della Ginestra, 60 anni dopo in www.centroimpastato.com
Umberto Santino, La strage di Portella, la democrazia bloccata e il doppio stato in www.centroimpastato.com
G. C. Marino, La Sicilia delle stragi, Newton Compton Editori, 2015

 

 

Articolo di Marina Antonelli

zjHdr1YM.jpegLaureata in Lettere, appassionata di ricerca storica, satira politica e tematiche di genere ma anche letteratura e questioni linguistiche e sociali, da anni si dedica al volontariato a favore di persone in difficoltà ed è profondamente convinta dell’utilità dell’associarsi per sostenere i propri ideali e cercare, per quanto possibile, di trasformarli in realtà. È autrice del volume Satira politica e Risorgimento. I giornali italiani 1848-1849.

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