La storia del jazz è costellata di grandi solisti, grandi arrangiatori, compositori e band leader.
Ma geni veri e propri ce ne sono state solo alcune decine, in circa cento anni: uno di questi era italiano. Assolutamente “imbranato”, con le dita sapeva solo suonare il saxofono; assolutamente fragile, al punto da autodistruggersi a soli trentasei anni; difficile convivere col suo carattere ribelle, a volte nichilista. Io gli sono stato amico, abbiamo condiviso molto insieme, non solo musica: lui sapeva che, quando ne avesse avuto bisogno, a Milano avrebbe avuto sempre a disposizione un luogo accogliente: mia madre lo rifocillava, rivestiva (una volta arrivò in pieno inverno in sandali e maglietta), gli donava qualche briciola di saggezza contadina.
Ma nessuno, neanche io, è stato capace di aiutarlo e, a un certo punto, era il 1979, le nostre strade si sono definitivamente separate e non ci siamo più incontrati di persona. Solo una volta ci siamo salutati a distanza: era la fine degli anni Ottanta, non ricordo quale anno di preciso. La Rai (Radio Tre, se ricordo bene) trasmetteva concerti in diretta con due formazioni che suonavano in città diverse, ma che potevano sentirsi reciprocamente; così Massimo, saputo che ero presente, mi salutò calorosamente, attraverso l’etere, infischiandosene come sempre di regole e convenzioni.
Per darvi un’idea di cosa facesse Massimo col suo strumento (ma per saperlo veramente dovete procurarvi i suoi dischi – sul sito ‘Mujic.org’ trovate la discografia completa -, o almeno cercare i pochi video presenti in rete), riporto un ricordo del vibrafonista romano Puccio Sboto, citato nel bellissimo volume di Carola De Scipio Vita, morte, musica di Massimo Urbani, edito da Arcana nel 2014:
«Ci fu un concerto organizzato da Tommaso Vittorini […]. Io stavo da solo, seduto al pianoforte a provare. Era un pezzo di Gillespie che si chiama Woody’n you, piuttosto difficile perché c’è una progressione di accordi che scende sempre. Il pianoforte era messo su una pedana di legno piuttosto alta. A un certo punto, dietro di me, ho sentito Charlie Parker in persona che improvvisava su Woody’n you, sugli accordi che stavo facendo io. Non mi raccapezzavo perché era Parker spaccato, allora dico: “Ma qui c’è il fantasma di Charlie Parker! […] Forse sta venendo per buttarmi all’inferno perché sto suonando Woody’n you nel modo più increscioso”. […] Volto la testa in basso e vedo un ragazzino cicciottello, accovacciato sotto la pedana, in basso, che suonava questo contralto come un demonio. A quel punto mi sono fermato: “Senti un po’, sei tu che suoni? Chi sei?”. “Sono Massimo Urbani”. “Chi ti ha insegnato a suonare bebop?”. “Non sto suonando bebop, sto suonando Charlie Parker”».
8 maggio 1957
Massimo Urbani nasce a Roma. La famiglia vive nelle case popolari di Via Dati, vicino a Piazza Nostra Signora di Guadalupe, in quartiere Monte Mario.
1968
Comincia a studiare il clarinetto, passa successivamente al sax contralto.
gennaio 1973
Il sassofonista napoletano Mario Schiano, trapiantato a Roma, registra con varie formazioni comprendenti alcuni giovanissimi uno dei suoi lavori più noti: Sud.
Tra i musicisti presenti, Tommaso Vittorini, Maurizio Giammarco, Eugenio Colombo e Roberto Della Grotta, che faranno la storia del jazz italiano negli anni a venire. E un talentuoso quindicenne, Massimo.
marzo 1973
Di Massimo si è accorto anche il pianista e compositore Giorgio Gaslini, che lo conosce perché il giovane frequenta, come uditore, il suo corso al conservatorio Santa Cecilia di Roma. Lo invita a Milano per registrare Message, un importante progetto che vede coinvolti musicisti già famosi come Enrico Rava e Paul Rutherford e giovani leoni milanesi (Filippo Monico, Guido Mazzon) e romani (Danilo Terenzi, Nicola Raffone, Patrizia Scascitelli – una leonessa! – oltre a Vittorini, Giammarco e Della Grotta).
3 aprile 1973
Primo concerto del Trio Idea, (Gaetano Liguori, Filippo Monico e il bassista che scrive, allora molto giovane) al Jazz Power di Milano. Una serata condivisa con un ensemble di giovani musicisti romani, tutti uditori dei corsi di Gaslini, denominato Gruppo 2000. Tra loro quel quindicenne che suona il sax alto «come un demonio». In quel periodo io andavo spesso a Roma, e non solo per suonare. In genere mi ospitava Tommaso Vittorini (nipote di Elio, il grande scrittore). Frequentavo con lui il Folkstudio, cementando la conoscenza e l’amicizia con altri giovani jazzisti romani.
Con il Trio Idea partecipo al Festival di Monte Mario. Quel gruppo, allora sconosciuto, faceva pochissimi concerti. Poi ad Arrigo Polillo – direttore della rivista “Musica Jazz” e critico molto quotato, che era venuto ad ascoltarci e aveva apprezzato il nostro lavoro – viene l’idea di farci suonare in quartetto con Massimo e, di fatto, ci impone agli organizzatori del Festival Jazz di Verona.
17 luglio 1973, Verona, Teatro Romano
In cartellone il gruppo di Miles Davis, che il giorno prima ha suonato al Festival di Pescara e che poi tornerà in Francia per suonare il 20 a quello di Juan le Pins.
Noi (Liguori, Urbani, Monico e io) suoniamo in realtà il 18 luglio, perché Davis, che come sempre ha preteso di suonare per primo, si è presentato sul palco con quasi due ore di ritardo.
Massimo è accompagnato dal padre, Ugo. C’è anche suo fratello minore, Maurizio, all’epoca dodicenne.
Il padre, che ha fatto diversi mestieri, tra i quali l’infermiere, mi presta i primi soccorsi quando mi faccio male sul palco, tagliandomi con una corda del mio basso che si è rotta nel momento meno opportuno, portandomi al pronto soccorso di presidio al concerto, dove mi ricuciono la mano destra. Faccio in tempo a tornare sul palco e a prendermi gli applausi.
Miles Davis, che ha già indispettito il pubblico col suo enorme ritardo, si esibisce in uno dei concerti peggiori della sua lunga e gloriosa carriera. Noi ragazzini ci mettiamo l’anima e veniamo presi a benvolere da pubblico e stampa: così i nostri concerti passano improvvisamente da dieci a cento in un anno.
Più o meno nello stesso periodo, il critico Giacomo Pellicciotti e il fotografo Roberto Masotti, grandi conoscitori e appassionati di jazz, creano la Musicom (Musica compagni), un’orchestra in forma cooperativistica che riunisce musicisti romani e milanesi; l’orchestra partecipa a un paio di festival e ad alcuni concerti, poi l’iniziativa non regge dal punto di vista economico. Solo pranzi e cene, con un nutrito gruppo di lupacchiotti affamati – Massimo e i romani in primo piano -, costano uno sproposito.
settembre 1973
Massimo entra a far parte per breve tempo degli Area, subentrando a Eddy Busnello. Resta nel gruppo durante il cambio di bassista a seguito dello “scippo” effettuato dalla Pfm che coopta Patrick Djivas, cui per un mese circa subentro io, presentato dallo stesso Massimo, in attesa dell’arrivo del sostituto già previsto, Ares Tavolazzi.
Degli Area con Massimo Urbani non esistono registrazioni ufficiali.
12 novembre 1974
Ai Titania Studios di Roma Massimo registra il primo disco a suo nome, prodotto da Aldo Sinesio per la Horo Records. Con lui sono il contrabbassista americano Calvin Hill e il batterista argentino Nestor Astarita.
febbraio 1976
Gaetano Liguori riunisce una sorta di supergruppo per la registrazione di Collective Orchestra: oltre a Massimo sono convocati il trombettista Guido Mazzon, il trombonista Danilo Terenzi, i sassofonisti Edoardo Ricci, Giancarlo Maurino e Sandro Cesaroni, i bassisti Roberto Bellatalla e lo scrivente Roberto Del Piano, i batteristi Pasquale Liguori e Filippo Monico.
Lo stesso anno, non potendo gestire un organico così ampio per tenere concerti, Gaetano costituisce la prima edizione del quintetto, che poi sarà rifondato nel 1979. Con questo quintetto viene fatto un lungo tour come gruppo di spalla a quello di Archie Shepp. Un tour con non pochi problemi, a causa della crescente inaffidabilità di Massimo, alle prese con i suoi fantasmi.
1976/1978
Sono gli anni bui di Massimo, sempre più schiavo della dipendenza dall’eroina, ma anche dall’alcool. All’inizio del 1979 cerca di uscirne e il padre chiede a Gaetano Liguori di riprenderlo nel suo gruppo per allontanarlo da Roma e da possibili “tentazioni”; lo accompagna a Milano il trombonista e amico di lunga data Danilo Terenzi.
marzo 1979
Dario Fo concede la Palazzina Liberty di Milano per una serie di quattro concerti, dal 20 al 23 marzo, del rinnovato quintetto di Gaetano Liguori.
Uno di questi concerti – quello del 20 – verrà anni dopo pubblicato parzialmente dalla Philology; di quello del 22 esiste in rete un “bootleg”, uscito originariamente negli Usa, con l’esibizione integrale.


Il tour del quintetto prosegue in Lombardia e in Veneto, finché a Bolzano non succede un guaio. Lì perdiamo di vista Massimo e lui trova da comprarsi la droga e ci ricade. Dobbiamo chiedere alla Rai, che registra il concerto, di cancellare tutto perché Massimo non è stato in grado di suonare in modo accettabile: non riesce neppure per lunghi tratti a imboccare il suo strumento. Poi nel ristorante dove andiamo dopo il concerto, Massimo ha una brutta crisi: comincia a lanciare i piatti nel locale perché gli hanno portato la pizza per ultimo.
Decidiamo, a malincuore, di lasciarlo a Bolzano e proseguire la tournée in quattro. È l’ultima volta che lo vedo.
20 giugno 1979 (e anni successivi)
Massimo registra allo Studio Barigozzi di Milano 360° Aeutopia, con tre musicisti statunitensi: il pianista Ron Burton, il bassista Cameron Brown e il batterista Beaver Harris. Con questo disco vince il Premio dell’Associazione Nazionale dei Critici Discografici nel 1980.

Per diversi anni la carriera di Massimo prosegue tra alti e bassi, condizionata dai suoi problemi personali; lavora con molti musicisti di valore che si dimostrano sinceri amici, ma anche con personaggi di dubbio valore artistico e, dal mio punto di vista, umano.
Tra il 1991 e il 1993 Paolo Colangeli realizza con lui una lunga video intervista, inframmezzata da alcuni brani musicali, intitolata Massimo Urbani. Nella fabbrica abbandonata.
È questa l’unica occasione per ascoltare Massimo parlare lungamente di sé, della sua musica, anche dei suoi problemi.
21-22 febbraio 1993
Massimo registra il suo ultimo disco in studio, The blessing. In due brani compare anche il fratello minore Maurizio al sax tenore.
16 giugno 1993
È la data posta all’interno di una dedica autografa sulle pareti dell’Alexanderplatz di Roma, scritta dai musicisti che si esibiscono nel locale quella sera; con Massimo c’è il trombettista Red Rodney (già al fianco di Charlie Parker).
È il suo ultimo concerto.
Massimo muore nella notte tra il 23 e il 24 giugno di quell’anno. Aspettava un figlio dalla sua nuova compagna, un figlio che non ha fatto in tempo neppure a vedere.
La notizia me la diede Mario Schiano. Ero al Festival di Noci col gruppo Padouk: una bella situazione, dove i musicisti invitati stavano tutti insieme per l’intera settimana dell’evento; non facevi solo il tuo concerto e poi te ne andavi, si cenava tutti insieme in una grande tavolata.
Durante una di queste cene, arrivò Mario, bianco come un lenzuolo, e ci disse, con le lacrime agli occhi, che Massimo non c’era più.

In copertina: Massimo nel 1973 con il sax soprano regalatogli da Giorgio Gaslini
Articolo di Roberto Del Piano
Bassista (elettrico) di estrazione jazz da sempre incapace di seguire le regole. Col passare degli anni questo tratto caratteriale tende progressivamente ad accentuarsi, chi vorrà avere a che fare con lui è bene sia avvertito.