C’è una foto bellissima che riprende, in un solo scatto, tre meravigliosi servitori dello Stato italiano: Giovanni Falcone, Ninni Cassarà e Rocco Chinnici. Il fotografo che l’ha realizzata ci ha lasciato un ricordo indimenticabile, legato indissolubilmente al giorno in cui fu giustiziato dalla mafia un altro martire della nostra Repubblica: Pio La Torre, insieme al suo amico fedele e guardia del corpo Rosario Di Salvo. Era il 30 aprile del 1982.

La storia della mafia, come dice il prof. Nando dalla Chiesa, fondatore della Facoltà di Sociologia della criminalità organizzata presso l’Università degli Studi di Milano, dovrebbe essere insegnata obbligatoriamente in tutte le scuole d’Italia ed entrare a far parte dei programmi ministeriali. Un bel modo di raccontarla alle generazioni di giovani, in quest’epoca di didattica a distanza, è vedere con loro, come in un cineforum, uno o due pomeriggi la settimana, le puntate della serie La mafia uccide solo d’estate di Pif. Questa modalità non solo le appassiona, ma le spinge ad approfondire la storia dei personaggi che vi sono rappresentati. Ma chi era Pio La Torre? Possiamo confinare la sua vita soltanto tra le moltissime vittime di mafia? No, Pio La Torre era molto di più, un uomo fondamentale per la consapevolezza collettiva della mafia come “questione nazionale” e per la svolta che fu data alla lotta alla criminalità organizzata nel nostro Paese. Ultimo di cinque fratelli, nato nel 1927, era figlio di un bracciante e di una casalinga analfabeta. Per frequentare la scuola di “Avviamento al lavoro” si faceva a piedi 10 km al giorno, da Altarello di Baida, dove abitava, in mezzo agli orti e agli animali, fino “ai Leoni”, nella piazza che si trova davanti al Parco della Favorita a Palermo; e per pagarsi le tasse dell’Istituto Tecnico Industriale lavorava come manovale. A diciotto anni era già iscritto a Ingegneria, poi abbandonata per Scienze politiche e aveva preso la tessera del Partito comunista italiano, nonostante la disapprovazione della sua famiglia. Aveva deciso che la sua vita sarebbe stata spesa a difendere gli ultimi, per averne sperimentato le condizioni di vita. Ecco come il siciliano combattente descrive la sua infanzia: «Fino a quando non ebbi otto anni, nel piccolo villaggio di Altarello di Baida non c’era la luce elettrica, si studiava a lume di candela o di petrolio, e l’acqua da bere dovevamo andare a prenderla a quasi un chilometro di distanza…Nella casa di una famiglia di braccianti di Corleone, avevano un secchio che non si sapeva bene se era un secchio o una pentola perché serviva per cucinarci la pasta e per lavarsi i pedi. C’era la capra che girava liberamente per la casa come un animale sacro, in quanto solo grazie al suo latte si alimentavano i bambini che altrimenti sarebbero morti di tubercolosi».

Pio La Torre era un uomo dagli occhi vivaci, di un nero profondo. Parlava gesticolando, con grande fervore e aveva la capacità di persuadere le persone delle proprie ragioni, con semplicità, non disdegnando espressioni in dialetto, convinto che il cambiamento dovesse sempre partire dal basso. La sua gestualità, come ricorda Tornatore, nella prefazione al libro Pio La Torre. Ecco chi sei scritto dai figli Filippo e Franco, faceva pensare più a un mimo, a un attore di teatro: «”spingeva” le parole, le aiutava a farle penetrare nella testa della gente».

Chi lo conobbe da vicino ce lo descrive come una persona attentissima nelle riunioni, molto portata all’ascolto di tutti gli interventi, su cui prendeva rigorosamente appunti. «Un soldato che deve capire, attrezzarsi e prepararsi a qualsiasi evenienza. Convinto che tutto quanto gli accada intorno possa essergli utile a comprendere le cose» (ibidem). Era costantemente sintonizzato con la folla, la leggeva, ne interpretava gli umori. E incontrava magistrati, rappresentanti delle associazioni, giornalisti, cercando di capire la loro interpretazione della realtà siciliana e italiana. Un politico investigatore, fuori dai salotti ma immerso tra la gente, una persona che «voleva uno Stato giusto, che non schiacciasse i deboli e non fosse debole con i forti, una società senza sfruttamento e in cui le istituzioni non fossero dalla parte degli sfruttatori» (ibidem). Cominciai a conoscerlo nella mia gioventù, attraverso le sue apparizioni televisive. Fui particolarmente colpita dalla passione con la quale abbracciò, nel 1981, non senza qualche critica del Partito a cui apparteneva, la battaglia contro l’insediamento della base militare Nato di Comiso, che prevedeva l’invio di 112 missili a testata nucleare. Si trovò a protestare contro il Governo Spadolini accanto a buddisti, cattolici, personaggi della Democrazia cristiana, pacifisti. Era una persona che oggi definiremmo “diversamente giovane”, mi piacque subito e solo molto tempo dopo, mentre preparavo l’esame di procuratore legale, e poi più tardi quando frequentai l’associazione Libera, scoprii le tante vite del siciliano di Albarello. Nel 1947 il giovane militante del Pci era entrato nella Lega dei braccianti, nella Federterra, nella Cgil. Erano gli anni dei decreti Gullo, che deliberavano la concessione delle terre incolte e malcoltivate ai contadini e la modifica dei contratti agrari, una promessa di liberazione per i braccianti. Pio La Torre non solo si mise a capo della protesta per chiederne l’attuazione, ma fu al fianco degli oppressi insieme alla moglie Giuseppina, compagna di vita e di battaglie. Di lì a poco ci sarebbe stata la prima strage di Stato, Portella della Ginestra, il primo maggio del 1947, in cui vennero sterminate dalla banda di Salvatore Giuliano 11 persone e ne furono ferite 27, uomini e donne che avevano la sola colpa di avere votato per il Blocco Socialcomunista e di voler celebrare la Festa del Lavoro. In quel periodo sarebbero caduti uno dopo l’altro i segretari della Camera del lavoro del Palermitano: Epifanio Li Puma a Petralia Soprana, Calogero Cangelosi a Camporeale, Giuseppe Casarrubea a Partinico. La mafia e la banda di Salvatore Giuliano, con la complicità dei latifondisti conservatori, tra il 1944 e il 1948, uccisero 50 tra braccianti e sindacalisti. Tra questi fu torturato, ucciso e fatto precipitare in una foiba, su mandato di Luciano Liggio, il segretario della Camera del lavoro di Corleone, Placido Rizzotto, sul cui omicidio avrebbe indagato un giovane maresciallo dei carabinieri, Carlo Alberto dalla Chiesa. Il 10 marzo del 1950 Pio La Torre guidò un corteo di seimila persone alla conquista di duemila ettari del feudo di Santa Maria del Bosco del barone Inglese. Di sera, di ritorno a casa, i braccianti vennero circondati da tre colonne di poliziotti e carabinieri e Pio La Torre finì in carcere, all’Ucciardone, dove rimase, in attesa di giudizio, insieme a personaggi di Cosa Nostra, molti dei quali liberati prima di lui, per un anno e mezzo, in solitudine e abbandonato dal quel Partito comunista distrutto fin da allora da lotte intestine. Dei mesi in carcere Pio La Torre non si dimenticò mai e vi acquisì un’abitudine che non perse più, quella di camminare nervosamente avanti e indietro, come un leone in gabbia, nei congressi di partito, nelle riunioni sindacali, ovunque. Riuscì a vedere il suo primo nato, Filippo, solo infagottato nelle braccia di un agente di polizia penitenziaria e dopo sessanta giorni di cella di isolamento poté ottenere il primo colloquio con la moglie Giuseppina. Quell’invasato che parlava di mafia in anni in cui i rappresentanti delle istituzioni dichiaravano in Tv che la mafia non esisteva, aveva anche il coraggio di combatterla al fianco del popolo oppresso. La sua vita all’interno del Partito comunista fu segnata da molte sconfitte, spesso le sue idee e le sue linee non furono seguite, era un sognatore coi piedi saldamente fissati per terra, pragmatico, a volte considerato “di destra”, meno utopista di un Ingrao e che mai avrebbe scelto di intitolare la sua autobiografia Volevo la luna, come invece Ingrao aveva fatto. Uscito dal carcere, Pio La Torre si impegnò nel Consiglio comunale del capoluogo siciliano, proprio negli anni del “Sacco di Palermo”, dei Salvo Lima e dei Vito Ciancimino, che concessero in quattro anni 4205 licenze edilizie e trasformarono la città in un agglomerato di costruzioni, sorte abbandonando il mare e spostandosi sulla montagna, senza alcun rispetto per i vincoli paesaggistici. Intere zone agricole diventarono ammassi di palazzi, mappe catastali falsificate e documenti contraffatti erano all’ordine del giorno. La Conca d’oro, ricca di agrumeti, fu trasformata in «una selva ben ordinata di tondini di ferro, calcestruzzo e asfalto». Come ricorda Attilio Bolzoni in Uomini soli: «A Palermo si costruiva dappertutto. Fra le principesche residenze di tufo giallo, a San Lorenzo. Dentro i parchi. In via Libertà e in via Notarbartolo di notte, con la dinamite, fanno saltare le ville Liberty e la mattina dopo aprono i cantieri. Buttano giù con le ruspe anche Villa Deliella, in piazza Croci, un capolavoro architettonico progettato da Ernesto Basile…». C’era una società che si accaparrava tutti gli appalti pubblici. Si chiamava Va.li.gio, le iniziali di tre personaggi noti a Palermo: Lima, Vassallo e il ministro Gioia. In questa Palermo combatté la sua lotta il sognatore pragmatico, consigliere comunale di minoranza e deputato al parlamento siciliano, a Palazzo dei Normanni. Erano anni terribili per chi faceva opposizione in Sicilia. E Pio La Torre non si rassegnò, lottò contro le colate di cemento degli anni Sessanta, ma invano, perché tutti erano d’accordo con la politica della Democrazia cristiana dell’andreottiano Lima e di Ciancimino: poliziotti, avvocati, carabinieri, giornalisti, preti. Dal 1952 al 1972 Palermo era ricchissima, «sfrenatamente ricca» come scrisse Attilio Bolzoni. Mentre in Italia nello stesso periodo gli Istituti di credito popolare crescevano dell’85 per cento, in Sicilia del 586 per cento, le spa del 30 per cento in Italia e a Palermo del 102 per cento, le casse rurali del 12 per cento in Italia e del 25 per cento a Palermo. Negli anni in cui non si poteva parlare di mafia Pio La Torre fu considerato un ossessionato, che vedeva mafia dappertutto. Un uomo solo, che riusciva a confrontarsi con pochi, con quel giudice Terranova che non aveva paura di condurre inchieste e processi contro i mafiosi corleonesi, con la collaborazione del capitano piemontese dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa; un uomo solo cui piaceva chiacchierare con un maestro elementare di Racalmuto, quel Leonardo Sciascia che scriveva di mafia nei suoi romanzi ma che non avrebbe esitato in futuro a definire spregiativamente «professionista dell’antimafia» il giudice Paolo Borsellino in un articolo pieno di veleno pubblicato dal “Corriere della sera”. Nel 1963 l’appassionato politico antimafia diventò Segretario regionale del Pci ma, alle elezioni successive, nel 1967, la sconfitta del partito fu fatta ricadere tutta su di lui. Qui cominciò però una fase tutta nuova che sarebbe stata particolarmente feconda: la carriera di parlamentare a Roma. Sarebbe stato deputato per tre legislature, nel ’72, nel ’76 e nel ‘79 e sarebbe riuscito, con grandi difficoltà, interpretando al meglio il suo ruolo di civil servant, a condurre una battaglia importantissima per la storia italiana. Inizialmente non creduto e vilipeso, avrebbe finalmente fatto comprendere che la mafia è una questione nazionale. Sarebbe stato il promotore, con grande tenacia e caparbietà, della prima Commissione parlamentare antimafia della storia e avrebbe presentato una proposta di legge che prevedeva il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Aveva capito prima di tutti che per colpire i mafiosi bisogna confiscargli i beni, “la roba” di verghiana memoria, i patrimoni, i piccioli, perché ogni altra via perseguita in passato non aveva mai portato alla loro condanna, spesso evitata con la formula ipocrita dell’insufficienza di prove. Il suo progetto si sarebbe perso all’interno del Parlamento e, solo dopo la sua morte, sarebbe diventato legge e avrebbe fornito allo Stato un’arma potente nella lotta alla mafia. Se oggi possiamo comprare i vini, la pasta, la salsa, i mieli, le marmellate e tanti altri prodotti delle terre confiscate alla mafia lo dobbiamo all’idea di questo figlio di braccianti laureato in Scienze politiche. Da quella legge presero spunto coloro che proposero la legge sull’uso sociale dei beni confiscati alla criminalità organizzata, un altro passo importante in direzione del risarcimento verso la società civile da parte di chi tanto male ha fatto a lei e al territorio. Gli ultimi anni della sua vita Pio La Torre li passò a Palermo, dove era temuto proprio per la sua proposta di legge, più pericolosa di un mandato di cattura, con la sua idea di far diventare la mafia un reato. Se oggi per noi questo è un dato scontato, una convinzione ormai radicata, all’epoca in cui La Torre fece la sua battaglia non lo era affatto. Ritornò a Palermo quando era in atto la mattanza su due fronti, quello della guerra intestina di mafia per l’acquisizione del potere da parte dei corleonesi e quello contro lo Stato e le istituzioni. In quei mesi l’attenzione del politico investigatore non era solo sulla base missilistica di Comiso, ma sugli appalti siciliani, sul risanamento del lungomare di Palermo, sui moltissimi affari e i tanti piccioli che vi ruotavano attorno, ma anche sullo sbarco dei Cavalieri Catanesi a Palermo, denunciato dal giornalista Pippo Fava. Pio La Torre nel 1982 avrebbe incontrato anche due giovani giudici istruttori, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e si sarebbe intrattenuto con Rocco Chinnici, che era succeduto al giudice Terranova, trucidato da Cosa Nostra nel 1979. Avrebbero parlato di mafia, dei mezzi per combatterla, della guerra tra Palermitani e Corleonesi e delle misure legislative che sarebbero servite a sgominarla. La Torre si era fatto convincere a dotarsi di una Smith & Wesson, che aveva lasciato nel cassetto, a Roma, insieme alla sua proposta di legge, perché sapeva bene che stava dando fastidio a molti, non solo agli uomini di Cosa Nostra. Il 30 aprile del 1982 i colpi esplosi dalla pistola del coraggioso amico Rosario Lo Salvo furono cinque, ma andarono tutti a vuoto e le pallottole rimbalzarono su un muro. I sicari invece erano quattro, due su un’auto e due su una moto: Salvatore Cocuzza, Giuseppe Lucchese detto U Lucchiseddu, Nino Madonia e Pino Greco detto Scarpuzzedda. Pio La Torre, nato alla vigilia di Natale del 1927, sarebbe morto alla vigilia della festa a lui più cara, quel Primo Maggio, che dovrebbe essere la ricorrenza più importante in una Repubblica Fondata sul Lavoro.

Il 3 settembre dello stesso anno avrebbe fatto la stessa fine, insieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro, anche il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, mandato a svolgere le funzioni di Prefetto di Palermo su suggerimento dello stesso La Torre, ma senza i poteri e i mezzi richiesti, un altro uomo lasciato solo dallo Stato. Quando gli restavano pochi mesi di vita, prima della strage di via Carini, a Carlo Alberto dalla Chiesa fu chiesto perché Pio La Torre fosse stato ucciso. Rispose «per tutta la sua vita». Abbiamo il dovere di ricordare per raccontare e a me piace condividere quello che i figli Filippo e Franco scrivono del loro padre, pragmatico combattente. Li portava spesso a passeggiare, strappava dell’erba e se la passava tra le mani per sentirne il profumo, prendeva un pugno di terra e ne saggiava la consistenza. Non aveva paura di sporcarsi, di sognare una nuova Conca d’oro (nome oggi dato a un ipermercato del quartiere Zen) e una Sicilia senza la mafia, con i siciliani che prendono in mano il loro destino e combattono insieme contro chi li sta opprimendo da troppo tempo. Non era credente, ma aveva grande fiducia «nell’umanità, nelle donne, nelle masse, nelle magnifiche sorti e progressive.» Il nutrimento, la forza, la possibilità di farcela– raccontano i figli –tutto questo, per l’appassionato politico “insistente”, veniva dal basso. «Bisogna organizzare il lavoro per tempo, fare tutti i passaggi necessari, sapere che costerà fatica, riunire le forze dei piccoli, che da soli sembrano non valere nulla, ma quando si mettono insieme il loro impegno può dare frutto. Insieme, perché la solitudine ammazza».
In copertina: Folla ai funerali di La Torre e Di Salvo
Articolo di Sara Marsico
Abilitata all’esercizio della professione forense dal 1990, è docente di discipline giuridiche ed economiche. Si è perfezionata per l’insegnamento delle relazioni e del diritto internazionale in modalità CLIL. È stata Presidente del Comitato Pertini per la difesa della Costituzione e dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano. I suoi interessi sono la Costituzione, la storia delle mafie, il linguaggio sessuato, i diritti delle donne. È appassionata di corsa e montagna.
Documentatissimo e appassionato questo testo di Sara Marsico, da sempre impegnata contro ogni tipo di mafia. Sarebbe davvero interessante la sua proposta di coinvolgere le nuove generazioni, in questo periodo di forzata lontananza dai banchi di scuola, nell’approfondimento della conoscenza della mafia anche attraverso programmi televisivi che, con la volontà ancora non del tutto condivisa da tanti politici, potrebbero davvero entrare nella didattica. In effetti, quanti giovani e meno giovani, conoscono veramente le variegate forme di mafia che ancora oggi sono presenti in tutto il tessuto sociale della nostra Nazione? Cominciare dalle nuove generazioni è un passo importante anche per non dimenticare tutti coloro che hanno dato la vita per il loro impegno politico e sociale.
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