«Il 28 Settembre è nato a Nuoro un bambino di sesso femminile». Così è presentata al mondo Grazia Deledda futuro Premio Nobel delle lettere italiane nel 1927 per il 1926. Unica donna tra i sei Nobel scrittori italiani, dopo Giosuè Carducci e prima di Pirandello, Quasimodo, Montale e Dario Fo. Inizia così il terzo volume della Collana “Italiane”, edita da Pacini Fazzi di Lucca, che io dirigo. A scrivere la biografia di Deledda Neria De Giovanni, sicuramente la più prolifica studiosa della scrittrice sarda che raccontò la sua terra come mai nessuno aveva fatto prima. «Nuoro non l’ha mai amata – scrive De Giovanni-, la gente sarda non poteva perdonarle di vivere al di fuori dei canoni della divisione dei ruoli rigorosamente sessisti della cultura barbaricina: Grazia, infatti, non si dedicava, soltanto, ai lavori donneschi, non ambiva al matrimonio e poi scriveva storie di amore e di vendetta, con passioni a tinte troppo forti per una signorina perbene…Parte per Roma con sollievo, certa di andare verso il suo destino di gloria letteraria, portandosi la Sardegna nel cuore ma consapevole che era il mistero dell’animo umano ad interessare la sua penna. Le fotografie più famose la presentano sempre con i capelli grigi, spesso dietro una scrivania con bamboline vestite in costume sardo; oppure con il volto più giovane ma imbronciato e severo». Grazia Deledda è una delle poche letterate a cui le antologie delle scuole dedicato qualche rigo. Qualche volta un paragrafo ma s’intende, niente di più. Non l’è valso un Nobel per meritare l’accesso al mondo della scuola. Stesso destino condiviso con le tante scrittrici che nei libri in uso nelle nostre scuole restano ai margini, confinate nei riquadri della letteratura minore. «Sebbene – si legge nella biografia a lei dedicata da De Giovanni – proprio le donne, le zie, fossero tra le prime a criticarla negativamente, non v’è dubbio che il personaggio femminile sia sempre centrale nei romanzi di Grazia Deledda. Non a caso nel 1916 Eleonora Duse imporrà alla produzione il romanzo deleddiano Cenere (1904) per interpretare l’unico film col personaggio drammatico e stupendo di Olì, la madre che sceglie di morire per non disonorare il figlio. Ma la donna deleddiana porta anche la morte, come Annesa ne L’edera (1906) che soffoca il vecchio zio asmatico perché possa lasciare l’eredità al suo amante; la donna deleddianna segue l’eros che scardina le regole sociali: così Marianna Sirca (1915) nel romanzo omonimo, impone al suo amante, il bandito Simone Sole, di consegnarsi alla Giustizia, contravvenendo così ad un tabù della legge atavica barbaricina; Agnese, l’amante del prete don Paulo in La madre (1920), chiede al suo uomo di lasciare l’abito per coronare il loro amore davanti a tutti; Maria Maddalena, amante del cognato Elias Portolu, lo supplica di lasciare il seminario e pubblicamente sposarla dopo che lei è diventata vedova, e via di questo passo». Tenace, osteggiata, amata, Deledda segnò un’epoca e ancora a fatica la critica se ne fa carico. «La vita e l’opera della Deledda testimoniano una grande forza di volontà, una visione chiara e inequivocabile del suo destino di donna, segnato dalla scrittura. Grazia Deledda, prima voce registrata dalla radio nazionale dopo il premio Nobel, così dichiarò: «Sono nata in Sardegna. La mia famiglia era composta di gente savia, ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva anche biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere, a tredici anni, fui contrariata dai miei». Neria De Giovanni racconta che Grazia, per raggiungere il suo obiettivo, seppe lottare con forza contro gli stereotipi e i pregiudizi che pesavano sulla sua persona, in una società maschilista e chiusa come era quella barbaricina di Nuoro. Allora come ora, forse. «Molti – scriveva Deledda a 23 anni a Giovanni De Nava, un suo ammiratore- mi credono una creatura fantastica, strana e aristocratica, altri invece mi prendono per una maestrina in una scuola comunale di montagna. Non sono nulla di tutto questo. Sono semplicemente una signorina qualunque piena di buon senso comune, una piccola signorina bruna, con begli occhi neri, così piccola e sottile e lieta da sembrare una bambina. Appartengo ad una famiglia di quei principali sardi che io metto spesso nei miei racconti, gente bizzarra, tra il patriarcale e il selvaggio che non appartiene né alla borghesia né al popolo né alla nobiltà…Io studio e sempre molto: aspiro alla celebrità, non lo nascondo, e spero di riuscirvi». Dopo il Nobel Mussolini volle incontrarla, «manda una macchina a prenderla per condurla a Palazzo Venezia, nella sala del Mappamondo. Dopo averle donato una sua foto con cornice d’argento e dedica: “A Grazia Deledda con profonda ammirazione – Benito Mussolini”, le domanda cosa può fare per lei. Grazia risponde decisa che non vuole niente per sé ma chiede clemenza per il proprietario della sua casa natale di Nuoro, Elias Sanna, che era al confino benché lei garantisca essere persona onesta sotto tutti i punti di vista. L’indomani Elias Sanna si reca dalla scrittrice prima di ripartire per la Sardegna, meravigliato di essere stato liberato dal confino senza alcuna motivazione. Seppe soltanto molto più tardi, e non dalla Deledda, a chi doveva la sua liberazione. Appena congedata da Mussolini, un funzionario di partito le chiede che cosa volesse fare per il fascismo vista la benevolenza del Duce, e lei risponde asciutta: “L’arte non conosce politica”. Come ritorsione ci fu un “consiglio” ai librai di non esporre i libri della neo-Premio Nobel. I diritti d’autore sulla vendita dei libri, quell’anno, furono molto più scarsi del previsto per questa motivazione che lo stesso editore Treves svela in una lettera di risposta alla Deledda, seccata per il poco guadagno». Un tumore al seno, che per anni l’aveva angustiata, la portò alla morte nel 1936, quasi dieci anni dopo la vittoria del premio. Aveva pubblicato 36 romanzi, 250 racconti, due drammi teatrali, alcuni versi, un libretto d’opera, la sceneggiatura di un film tratto dal suo romanzo Cenere, una raccolta di tradizioni popolari sarde. Restava inedito il suo ultimo lavoro, Cosima. «In una Roma spopolata per il ferragosto, morì con la forza e la fierezza con cui era vissuta. Aveva pregato la sorella Peppina e la nipote Mirella di restare al mare a Cervia perché non era giusto che per lei sacrificassero gli ultimi giorni di vacanza. A Roma, solo il marito Palmiro Madesani. Poiché il suo confessore era fuori città, volendo ricevere l’estrema unzione, la Deledda mandò a chiamare il sostituto del parroco, un giovane sacerdote che non conosceva la scrittrice. Grazia aprì personalmente la porta perché “il Signore bisogna riceverlo in piedi”, e quando il prete chiese dove fosse la moribonda, lei con tutta calma rispose: eccola!». Aveva sessantacinque anni.
L’Italia, a Grazia Deledda, non ha ancora riconosciuto quanto le spetta. Non è mai troppo tardi per rimediare.
Neria DE GIOVANNI, Grazia Deledda, Collana Italiane, Lucca, Pacini Fazzi Editore, 2016; euro 8
Recensione di Nadia Verdile
Nadia Verdile è nata a Napoli, vive a Caserta, le sue origini sono molisane. Scrittrice e giornalista, collabora con il quotidiano «Il Mattino». Ha diciannove libri all’attivo, molti suoi saggi sono stati pubblicati in riviste nazionali ed internazionali. Relatrice in convegni e seminari di studio, come storica, da anni, dedica le sue ricerche alla riscrittura della Storia delle Donne. È direttrice della Collana editoriale “Italiane” di Pacini Fazzi Editore.
cara Nadia grazie per aver ricordato la “nostra” Deledda . Segnalerò questa bella testata con il tuo articolo sul portaleletterario.net nella mia Rubrica su Grazia Deledda. GRAZIE a tutte, ovviamente anche a Francesca Fazzi
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