L’istruzione rappresentava un tassello di primaria importanza nel difficile processo di costruzione della nazione all’indomani dell’unificazione politica e le classi dirigenti del nuovo Stato nazionale, anche attraverso le riforme del sistema scolastico, miravano all’obiettivo di “nazionalizzare le masse”. Non solo imparare a leggere, scrivere e parlare in italiano, lingua sconosciuta ai più in un Paese dialettofono come l’Italia post unitaria, ma anche conoscere ed amare la patria attraverso l’apprendimento di nozioni di geografia e storia, delle istituzioni dello Stato, delle guerre e delle biografie degli eroi che le avevano combattute cercando di generare consenso intorno ai nuovi simboli: la bandiera, l’inno nazionale, le cerimonie commemorative, i monumenti.
Si trattava di “fare gli Italiani” per dirla alla Massimo d’Azeglio.
La legge pubblicata il 4 agosto 1904 sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia voleva rappresentare evidentemente un ulteriore passo in quella direzione poiché aveva prolungato l’obbligo scolastico fino al dodicesimo anno d’età, rispetto ai 9 anni stabiliti dalla precedente Legge Coppino del 1877.
Citando le parole dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione Vittorio Emanuele Orlando, il fine della legge era quello di: «diminuire quella vergogna d’Italia che è la piaga dell’analfabetismo» senza stravolgere l’impianto legislativo precedente ma con piccole riforme volte da un lato a ridurre lo «stock spaventoso di analfabeti» presenti in Italia e, dall’altro, a migliorare la condizione economica degli/delle insegnanti.

Sulla carta tutto sembrava funzionare poiché l’innalzamento dell’età dell’obbligo scolastico ben si accordava con la legge Carcano del 1902 che aveva vietato l’ingresso nel mondo del lavoro ai minori di 12 anni.
Inoltre, il possesso della licenza elementare costituiva un requisito indispensabile per esercitare il diritto di voto introdotto dalla legge elettorale del 1882, limitatamente alla sola popolazione maschile.
C’era ancora un altro motivo che rendeva sempre più necessario un livello, benché minimo, di istruzione ed era l’azione del movimento restrizionista statunitense che già dall’ultimo decennio del XIX secolo si stava battendo per l’adozione del Literacy test. Gli Usa erano già da tempo terra di immigrazione per quei lavoratori per lo più non qualificati provenienti dalle aree più povere dell’Italia (ma non solo dell’Italia), e gli americani, per «evitare la degradazione della classe lavoratrice e della società americane» e ridurre la portata di un fenomeno in continua crescita, avevano intrapreso la strada di una politica discriminatoria che entrerà poi in vigore nel 1917.
La legge Orlando dunque aveva esteso l’obbligo dell’istruzione elementare fino alla classe quarta. Successivamente gli alunni e le alunne avrebbero potuto accedere alle classi quinta e sesta, quest’ultima istituita dalla legge stessa.
La quinta e la sesta costituivano un livello superiore di insegnamento cui si accedeva dopo un esame di maturità e, pur essendo diventato obbligatorio per lo meno nei Comuni con più di 4000 abitanti, in realtà fu accessibile nei soli capoluoghi di provincia poiché l’edilizia scolastica non era in quel momento assolutamente adeguata a rendere esecutivo il dettato della legge.
Inoltre, al corso superiore si poteva accedere previo pagamento di una tassa di L. 15 dalla quale erano esentati le/i ragazze/i più meritevoli che avessero ottenuto una media di almeno otto decimi e appartenenti a famiglie prive di mezzi.
Il legislatore aveva previsto che in questo ulteriore corso, anche detto “corso popolare”, i/le giovani avrebbero ricevuto non solo nozioni teoriche ma anche svolto una sorta di avviamento professionale che avrebbe abbreviato il percorso di apprendistato obbligatorio previsto all’inizio dell’attività lavorativa in fabbrica, nelle botteghe artigiane, nei negozi senza alcuna retribuzione.
Per agevolare le famiglie indigenti i Comuni avevano ricevuto dalla legge Orlando la facoltà di iscrivere a bilancio le somme necessarie al funzionamento delle scuole qualora anche i fondi erogati dagli Enti pubblici di beneficenza non fossero stati sufficienti. Lo Stato dunque iniziò ad impegnarsi finanziariamente aumentando i sussidi ai Comuni affinché potessero garantire il servizio di refezione e fornire il materiale didattico a chi non poteva sostenerne i costi, oltre ad assumersi l’onere degli aumenti salariali previsti per gli/le insegnanti.
La riforma aveva poi previsto l’istituzione di scuole serali e festive nei Comuni con più elevate percentuali di analfabetismo, alle quali potevano accedere le persone adulte prive di un livello minimo di istruzione. Ne furono aperte 3000 circa.

Inoltre, erano state confermate le sanzioni per chi si sottraeva all’obbligo scolastico già indicate nella normativa precedente; erano stati subordinati al possesso della licenza elementare il rilascio del porto d’armi, l’assunzione in qualità di salariati nella Pubblica Amministrazione e in Enti morali e la concessione di licenza per le attività commerciali.
Appariva evidente la volontà di condurre quante/i più bambine/i possibile nelle aule scolastiche nel duplice tentativo di aumentare la percentuale degli scolarizzati e di ridurre nel contempo il divario esistente tra il nord e il sud d’Italia, dove si registravano le percentuali di analfabetismo più alte del Regno.
Ma la battaglia contro un tasso nazionale di analfabetismo del 60% circa, come emerso dal Censimento del 1901, non era cosa facile soprattutto perché si scontrava con le esigenze imprescindibili dell’economia di gran parte delle famiglie italiane per le quali era indispensabile l’apporto di tutti i membri, dai più piccoli ai più anziani, per garantire la sussistenza del nucleo tanto nei contesti rurali quanto nelle città, sia pure in misura minore.
Spesso era l’eccessiva lontananza della scuola che non consentiva a molte/i bambine/i di raggiungerla, così come i cicli di lavoro stagionali nelle campagne li tenevano impegnati per diversi mesi l’anno a scapito della frequenza scolastica.
Il dato è sconfortante: al Censimento del 1901 la percentuale di iscrizioni a scuola in età compresa tra i 5 e i 19 anni era del 28%.
Accanto agli ostacoli legati all’economia familiare, una falla proprio nella legge stessa, all’art. 17, lasciava un certo margine ai Comuni per aggirare gli obblighi a loro carico. In pratica alle amministrazioni- la cui carenza di fondi avesse impedito di istituire i corsi elementari superiori previsti- si riconosceva la possibilità di ottenere la sospensione dall’obbligo previa richiesta motivata al Ministero della Pubblica Istruzione.
In definitiva l’obbligo scolastico restò limitato al corso elementare inferiore in quei Comuni dove non erano già attive le classi superiori. Inoltre il grosso divario esistente tra le scuole del nord e quelle del sud non fu superato con l’entrata in vigore della legge Orlando poiché la distribuzione dei fondi statali non fu riequilibrata in modo efficace, così come rimasero pressoché inalterate le differenze tra zone rurali e urbane.
Ne derivò che solo nelle aree urbane dell’Italia settentrionale i bilanci comunali sarebbero stati in grado di assolvere gli impegni finanziari previsti dalla legge.
La funzione sociale che nell’intento del legislatore avrebbe dovuto svolgere l’istruzione popolare nel colmare il divario sul territorio nazionale, nel fornire alla gioventù l’opportunità di essere avviata al lavoro potendo godere di tutti i diritti statutari, si perdeva di fronte alla già cronica carenza di mezzi.

Del resto lo stesso Ministro Orlando, nella discussione parlamentare del 2 dicembre 1903, aveva dichiarato apertamente che «i Comuni meridionali non potrebbero sopportare al di là l’onere di tutte le scuole che si dovrebbero aprire se tutti gli obbligati a frequentarle si presentassero» ammettendo praticamente l’inefficacia del provvedimento legislativo da lui stesso promosso di fronte alla realtà della carenza di edifici e di insegnanti.
Insegnanti a cui venne riconosciuto un modesto aumento di stipendio, anch’esso legato alla zona geografica di lavoro e, naturalmente, con la consueta differenza di genere.
Per saperne di più
Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia, Anno 1904, 4 agosto, n. 182
http://www.istat.it, L’Italia in cifre
Atti Parlamentari, camera dei Deputati, Tornata di venerdì 11 dicembre 1903
Atti Parlamentari, camera dei Deputati, Tornata di sabato 12 dicembre 1903
Atti Parlamentari, camera dei Deputati, Tornata di lunedì 14 dicembre 1903
P. Macry, La società contemporanea, 1992
E. Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla Seconda guerra mondiale, 1979
Articolo di Marina Antonelli
Laureata in Lettere, appassionata di ricerca storica, satira politica e tematiche di genere ma anche letteratura e questioni linguistiche e sociali, da anni si dedica al volontariato a favore di persone in difficoltà ed è profondamente convinta dell’utilità dell’associarsi per sostenere i propri ideali e cercare, per quanto possibile, di trasformarli in realtà. È autrice del volume Satira politica e Risorgimento. I giornali italiani 1848-1849.