L’invisibile parzialità. Il sessismo nella lingua italiana. Trent’anni dopo Alma Sabatini

La nozione di ‘sessismo linguistico’ è abbastanza recente: se la lotta per l’emancipazione femminile ha una storia secolare, solo nella seconda metà del ‘900 nacque un dibattito sulle implicazioni linguistiche della differenziazione storica dei ruoli tra maschio e femmina. Presa coscienza dell’invisibilità linguistica delle donne, si avviò un processo di rivendicazione di una lingua non discriminatoria. La regola grammaticale ci parve allora così limpida, da non poter suscitare dubbi o incertezze: se si parla o si scrive di un essere umano di sesso femminile si usa il genere femminile; il parallelo accade per il maschile. Non ritenemmo più ovvio che uno dei due generi, in funzione di non si sa quale privilegio di nascita, fosse inteso come paradigma dell’intera umanità e usato come ‘universale’ o ‘inclusivo’ o ‘generico’, o avesse ‘funzione bivalente’. Avevamo imparato che nel passaggio dal latino al volgare si era perso il neutro. Cominciammo ad attribuire a mera ignoranza le distorsioni che leggevamo o ascoltavamo (anche se poi io stessa entrando in una classe mista dicevo automaticamente ogni mattina – lo confesso – “Buongiorno a tutti”, mentre già i presentatori ben educati aprivano le trasmissioni con “Signori e signore buonasera”). Nel mio caso mi scontrai con una realtà diversa quando cominciai a lavorare per i giornali e poi all’università. Anche i colleghi più colti dicevano e scrivevano senza imbarazzo ‘ministro’, ‘avvocato’, ‘magistrato’ per designare una donna. Si comportavano così anche i più progressisti, i più sensibili ai mutamenti sociali; perfino coloro che insegnavano – secondo la nota ipotesi Sapir-Whorf – che la lingua quotidiana, il mezzo più immediato e più pervasivo per trasmettere una visione del mondo e per instaurare e coltivare relazioni, struttura la percezione e il pensiero, condizionandoli; che cambia la realtà e ne è cambiata; che classifica e distingue, dunque può privilegiare le presenze e sorvolare sulle assenze. Mi accorsi che ogni disapprovazione per una lingua che definivo sessista suscitava scettiche irrisioni, ironie a buon mercato, accuse di incompetenza o – nei casi migliori – diagnosi di irrilevanza. Quando la linguista Alma Sabatini pubblicò per la Presidenza del Consiglio dei ministri Il sessismo nella lingua italiana tirammo un sospiro di sollievo: era il 1987 (per collocarlo nel contesto, l’anno in cui gli italiani e le italiane cominciavano a collegarsi a internet). Finalmente una fonte autorevole rimarcava la necessità che la lingua non privilegiasse più, come fa da secoli, il genere maschile, ma diventasse rispettosa di entrambi i generi. Nelle Raccomandazioni l’autrice elencava con cura e dettaglio le declinazioni corrette, introducendo così«In questo particolare momento in cui gli enormi cambiamenti sociali che sono avvenuti e stanno avvenendo nei ruoli dei due sessi premono per avere un riconoscimento linguistico, è importante favorirlo e aiutarlo, dando indicazioni per una liberazione da stereotipi banalizzanti e mutilanti e da segnali linguistici che rivelano e rinforzano il predominio maschile.» Ci aspettavamo un cambiamento significativo, o almeno una presa di coscienza: non successe niente, nemmeno tra chi faceva della comunicazione un mestiere, nemmeno nei documenti di quelle pubbliche amministrazioni che avrebbero dovuto essere le destinatarie prime del lavoro della linguista e che sono tenute dalla legge ad osservare regole paritarie. Eppure i Manuali di stile e i Codici di stile redatti da insigni linguisti, le Direttive ministeriali e le Guide pubblicate successivamente davano indicazioni molto chiare. Nel 1994 il dizionario Zingarelli, con un ribaltamento storico, inserì la declinazione al femminile di 800 parole prima riportate solo al maschile, suscitando il ribrezzo di non poche studiose e studiosi. Ben poco si mosse (e si muove) anche nella scuola, che per moltissimi/e cittadini/e è l’unico luogo di apprendimento di una lingua corretta. Le Raccomandazioni non sono mai state inserite nei piani di studio.  Eppure esistono molti gruppi di docenti, molte associazioni in rete e sul territorio, che lavorano con entusiasmo a una didattica paritaria ed elaborano materiali aggiornati. Qualcosa lentamente si muove nei mass media, soprattutto su spinta di associazioni di giornaliste tra cui è importante il ruolo di Gi.U.Li.A. Trent’anni dopo Alma Sabatini è l’eloquente sottotitolo di un prezioso volume uscito lo scorso maggio per i tipi di Blonk, che coglie i frutti di un convegno tenuto nel 2017 presso l’Università di Modena e Reggio Emilia con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna: titolato anch’esso Il sessismo nella lingua italiana, riporta contributi di studiosi/e di diverse discipline ed è curato da due giovani ricercatori, Anna Lisa Somma e Gabriele Maestri. La prima parte del libro è focalizzata sugli aspetti linguistici; la seconda si concentra sulla sfera pubblica e sugli aspetti giuridico-politici; la terza e ultima riporta pratiche virtuose e casi-studio. Le riflessioni ampie e accurate che presenta, le proposte che introduce sono l’occasione di un salto di qualità. Risulta chiaro che le ricadute di questa pacifica rivoluzione possibile non sono solo linguistiche, ma culturali e sociali. È questo che fa paura. Pur registrando gli indubbi, lenti progressi introdotti in questi ultimi anni; pur citando le nette prese di posizione degli organismi competenti, dall’Accademia della Crusca alla Treccani, si parte da una domanda: perché molti e molte continuano a riservare a questo tema finalmente emerso tanta supponente irritazione? Per scarsa consapevolezza, per insensibilità, per inerzia? Per pigrizia mentale o per chiusura conservatrice?  Perché l’introduzione di una lingua sessuata nelle abitudini diffuse suscita una così accanita resistenza? Perché in fondo tutto ciò che sa di femminismo viene rifiutato come pretesa o liquidato come quisquilia? Scriveva il linguista Giulio Lepschy nel 1989: «Mentre gli uomini sentono che la lingua manifesta nello stesso tempo sia la loro condizione di esseri umani sia la loro condizione di maschi, le donne trovano che la stessa lingua non corrisponde ugualmente alla loro condizione specifica di donne e che perciò è inficiata anche la sua presunta universalità umana.» Non è difficile ribattere alle obiezioni. Se, come si sente ripetere spesso, “si tratta di una questione irrilevante”, perché dà tanto fastidio? Se è vero che ci sono nodi più gravi e più urgenti, perché non sciogliere intanto questo – che non costa niente? È vero che “alla gente comune non interessa”? Provate a chiamare ‘impiegata’ un impiegato, ‘operaia’ un operaio, e sentirete gli strilli. “Ministra, assessora, ingegnera suonano male”: dunque suonano male ‘maestra’, ‘signora’, ‘infermiera’? Si tratta del suono o delle vostre orecchie? “Non ci siamo abituati”, ed è vero: ma quante altre abitudini avete rapidamente cambiato, nel frattempo, voi che cliccate e taggate e twittate con naturalezza? “Indica la funzione e non la persona”: come quando scrivete ‘il ministro è incinta’? “Il maschile include i due sessi”: e allora perché perdere tempo a distinguere cameriere e cameriera, contadino e contadina? “Perché allora non dire ‘pediatro’ per un uomo”? Perché è un sostantivo epiceno, basta un vocabolario per saperlo. I paradossi si sciolgono, i motivi profondi delle resistenze emergono quando si prende atto che la questione non è linguistica ma politico-sociale: il re/patriarcato è nudo, si nasconde e si difende dietro argomentazioni fasulle. Non ha il coraggio di ammettere che ogni rifiuto nella sostanza implica che una ministra (o una sindaca) è un’eccezione, che una chirurga o un’architetta ispirano minor fiducia, che si guarda con sospetto all’equilibrio di giudizio di una magistrata. È gerarchia sociale, non espressione “naturale”, come dimostra la sua origine. La consuetudine è stata infatti codificata in Francia a metà del ‘600 da Dominique Bouhours, grammatico gesuita, che la giustificava affermando che “quando due generi si incontrano, bisogna che il più nobile prevalga”. Era superfluo indicare quale fosse “il più nobile”. Ogni lingua storico-naturale reca in sé la sedimentazione dei significati collettivi attribuiti alle parole nel corso del tempo, come deposito di tutti gli elementi (giudizi di valore, rappresentazioni, fantasie, emozioni, affetti, paure, desideri, idee e comportamenti) cui veniamo socializzati fin dalla nascita. Cultura su cultura. Storie su storie. Le bambine ci crescono dentro e i bambini pure, con quello che comporta. Marginale, inferiore, svalutata, dipendente, discriminata, o esclusa, assente, invisibile è stata per millenni la metà dell’umanità. Così ce l’hanno restituita la storia, le leggi, le religioni, le tradizioni, i costumi e quindi la lingua; così si esprimono ancora i luoghi comuni e gli stereotipi nati in epoche lontane, che i figli e le figlie del nuovo millennio assorbono per osmosi. Volete aiutarli a ragionare o li volete allevati per inerzia, come polli in batteria?

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Da: A. L. Somma – G. Maestri (a cura di), Il sessismo nella lingua italiana. Trent’anni dopo Alma Sabatini, Blonk, Milano 2020

 

Recensione di Graziella Priulla

RfjZEjI7Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.

 

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