In questi giorni in cui Milano, o meglio il suo sindaco, ha citato la Calabria in modo alquanto infelice, mi piacerebbe parlare di quei calabresi arrivati circa 170 anni fa in Lombardia, non come migranti ma come patrioti. Furono circa duecento e sapevano sia pensare che combattere, la loro presenza fu molto importante, ma pochi ricordano il loro apporto al Risorgimento nel Lombardo-Veneto.
Mi piacerebbe parlare anche di quel cappello “alla calabrese” foriero di un terrore tale per l’occupante austriaco che, il 15 febbraio del 1848 con un decreto poliziesco, ne proibì l’uso. Un decreto che neanche le fucilate austriache riuscirono a far rispettare. Quel cappello che nel 1844 gli insorti calabresi scelsero come proprio simbolo di resistenza contro l’oppressione e che diventerà segno distintivo in cui si riconosceranno tutti i rivoluzionari italiani dal sud al nord, uomini e donne. Lo indosserà Cristina di Belgiojoso (foto di copertina), ma lo indosseranno anche le donne del popolo, così come i ragazzi che faranno le barricate in quella Milano che tra il 18 e il 22 marzo del 1848 sconfisse le guarnigioni del feldmaresciallo Radetzky cacciando gli austriaci.
Giuseppe Verdi quel cappello lo farà indossare ad Ernani, l’eroe-bandito che combatte tirannide e ingiustizia e la sua opera, presentata a Venezia proprio nel 1844, anno dei moti calabresi, diventerà un’esortazione a battersi per la libertà dall’oppressore e, pur essendo ambientata nella Spagna del 1500, i veneziani ci vedranno l’esortazione a battersi contro l’oppressore asburgico. Il leon di Castiglia sarà il leone di san Marco, l’Iberia sarà l’Italia e la musica dell’Ernani sarà parte di una simbolica colonna sonora che farà da sfondo alle lotte risorgimentali.
È lo stesso cappello che Hayez, il pittore romantico del Risorgimento, dipinge nel suo quadro più famoso (quello comunemente conosciuto come Il bacio) lanciando un chiaro messaggio politico in quell’abbraccio sensuale e struggente che lascia intendere l’andare a combattere e forse a morire per la libertà.

Sì, mi piacerebbe parlare di tutto ciò che fu insieme simbolo e azione collettiva visto nel suo aspetto sociale prima ancora che politico, ma proprio in omaggio alla forza e al sacrificio di quelle e quei combattenti e alla straordinaria esperienza che li vide tutti, ricchi e poveri, bambini e vecchi, donne e uomini, intellettuali e analfabeti, cittadini e contadini, preti e laici lottare insieme per la libertà, cercherò di ripercorrere i fatti basandomi sulle esperienze documentate di chi quei fatti li visse e li raccontò, senza dimenticare nel proprio resoconto le figure eroiche impossibilitate a scriverne, vuoi perché stroncate dal fuoco nemico, vuoi perché capaci di combattere ma non use a scrivere.
In questi giorni per la verità ricorre l’anniversario non delle Cinque giornate di Milano, conclusesi il 22 marzo, ma di quella vergognosa e dolorosa capitolazione voluta dal re sabaudo e firmata il 5 agosto dal tenente-maresciallo austriaco Hess, dal luogotenente e capo di stato maggiore sabaudo Salasco e dal podestà di Milano Paolo Bassi, firma, quest’ultima, che pur essendo indotta dal re Carlo Alberto, permise all’infido monarca di dire che erano stati i milanesi a volere la resa, nonostante il podestà venisse preso a fucilate per quella resa che umiliò, inserendola in una cornice luttuosa, una delle pagine più luminose e ricche della storia d’Italia.

«La storia terrà conto di così sublime protesta contro il tradimento di Carlo Alberto e contro il giogo straniero…» così commentava l’esodo di circa 120.000 milanesi (il 75% dell’intera popolazione) il Comitato di difesa nel lungo documento in cui vengono riassunti gli Ultimi tristissimi fatti di Milano narrati dai rappresentanti del Comitato stesso avv. Francesco Restelli e dr. Pietro Maestri.
Non fuggivano quei 120.000 milanesi, la fuga era una prerogativa di Carlo Alberto e di altri illustri personaggi, come vedremo, non fuggivano ma rispondevano così al rientro degli austriaci, cacciati dal popolo e fatti rientrare dal re sabaudo erroneamente invitato a sostenere la lotta per l’indipendenza ed arrivato quando ormai Milano aveva vinto.
Realmente la storia ne avrebbe tenuto conto, come auspicavano Restelli e Maestri? La risposta, tenendo conto di alcune realtà, porta a dubitarne. Conoscere anche solo un po’ di quel che avvenne tra il 18 e il 22 marzo 1848 porta infatti a chiedersi quanta profonda ignoranza, o quale disgustosa ingiuria verso i martiri delle Cinque giornate, può aver indotto alcuni anni fa Roberto Maroni, già Ministro degli Interni nonché Presidente del Consiglio regionale della Lombardia, a firmare l’ignobile petizione lanciata da un oste milanese in omaggio al feldmaresciallo Radetzky di cui parleremo in seguito. La stessa ignoranza, o la stessa ingiuria, che proprio in pieno corso Garibaldi e a pochi metri da vie che portano altri nomi di chi combatté per quella Milano gloriosa e tradita, quell’ingiuria si mostra attraverso le vetrine del “Radetzky cafe” aperto da circa trent’anni.
Forse, in certi luoghi e presso alcuni individui, la Storia viene respinta o si auto-respinge per pudore e il suo posto viene occupato da altro, così può capitare che l’oste milanese del ristorante “Al matarel” noto per la sua rudezza e le sue sgarbate battute, lanci una petizione per cambiare il nome di via Laura Mantegazza, eroina del Risorgimento e molto altro, con quello del feldmaresciallo Radetzky – il boemo a servizio dell’impero asburgico famoso in tutta Europa per la sua abilità militare e per la violenza delle sue repressioni – definendolo come l’uomo che aveva fatto davvero il bene di Milano e al quale andava quindi resa giustizia. E così capita che un personaggio detto “onorevole” per prassi istituzionale, come l’onorevole Maroni, firmi quella petizione.

Allora, tornando alle parole dei patrioti Restelli e Maestri, convinti che la storia avrebbe tenuto conto di quegli accadimenti, proviamo a ripassarci su senza dimenticare che il 1848 fu un anno straordinario in quasi tutta l’Europa e che in Italia partì dalla Sicilia. Quel periodo venne chiamato “la primavera dei popoli” proprio perché si diffuse ovunque un impeto libertario capace di scuotere quei regimi convinti che il Congresso di Vienna di trent’anni prima li avesse resi intoccabili, imbalsamandoli nel loro assolutismo.
Ma la Storia è dinamica e quel che il 1815 voleva imbalsamare avrebbe fatto i conti, già cinque anni dopo il Congresso, con i primi moti del 1820-21 partiti dalla Spagna e in cui l’allora principe Carlo Alberto di Savoia aveva già dato prova di una certa doppiezza. Quei moti, sebbene globalmente repressi, avevano rappresentato un saggio della precarietà di quanto stabilito come immutabile nel Congresso di Vienna. Dopo dieci anni, stavolta a partire dalla Francia, si ripeterono altri moti insurrezionali contro i regimi assolutisti. Alcuni vennero stroncati nel sangue, ma altri ebbero successo.
Ma la Storia è comunque dinamica e non c’è repressione, come non c’è potere, che non sia mutabile e temporaneo. L’Italia, quella pura «espressione geografica», come ebbe a definirla sprezzantemente il cancelliere austriaco Metternich, entrò a pieno titolo in questa dinamica, e il desiderio di farsi realmente nazione, dapprima appartenuto all’aristocrazia più progressista, quindi alla borghesia, divenne aspirazione anche delle classi popolari. Era arrivato il 1848.
L’impero austriaco dominava il regno Lombardo-Veneto, figlio irrequieto del Congresso di Vienna e qui, in particolare nel suo capoluogo, ma anche a Venezia, a Pavia, a Como e in altre città, la dominazione austriaca si faceva sempre più intollerabile. Il feldmaresciallo Radetzky, governatore militare del regno, sconfessando ampiamente chiunque pensasse che superata una certa età fosse necessario ritirarsi, conservò, e a ragione, la fama di grande repressore fino a pochi giorni prima di morire, all’età di 92 anni, a causa di una caduta. Ne aveva 82 quando “la sua spada”, figura retorica da lui usata per ricordare fieramente la sua fama di repressore, calò su Milano e i milanesi, pur conoscendola, osarono sfidarla.
A Milano, alloggiati al Castello sforzesco, Radetzky aveva circa 20.000 soldati compresi i temibili ulani, la cavalleria che a colpi di sciabola reprimeva brutalmente ogni dissenso.
L’anno che avrebbe segnato “la primavera dei popoli” a Milano iniziò con una forma di protesta pacifica consistente nel boicottaggio del fumo e del gioco del lotto che fornivano grosse entrate a Vienna. Lo sciopero del fumo doveva essere l’inizio della lotta per l’indipendenza e fu brutalmente represso il 3 gennaio, quando Radetzky sguinzagliò migliaia di soldati ai quali erano stati forniti ben 30.000 sigari e denaro per ubriacarsi in modo tale da provocare facili tafferugli. Ci furono diversi morti tra i civili inermi compreso un bimbo di quattro anni, oltre 60 feriti da baionette e sciabolate e centinaia di arresti. Poi tornò la calma. Radetzky scrisse a sua figlia che la calma era tornata dopo che i suoi soldati avevano dato «opportuna prova di bravura con il tintinnare delle loro sciabole».
Chissà se nel “Radetzky cafe” di Milano qualcuno ha conoscenza di questi fatti!
Ma tornando al gennaio del 1848, la calma era apparente e il segnale lanciato da Milano era arrivato anche a Pavia, dove gli universitari avevano imitato lo sciopero del fumo. Anche là ci furono morti innocenti. E poi la calma.
Così Vienna – scambiando per agitazioni spontaneistiche quelli che ormai erano programmi insurrezionali – seguitò a credere che la repressione avrebbe bloccato ogni dissenso. Vennero arrestati molti patrioti e venne istituita la censura in tutto il Lombardo-Veneto, ma i milanesi proseguirono le loro forme di boicottaggio cessando di andare a teatro o ovunque si tenesse una manifestazione culturale con artisti austriaci.
Intanto c’erano stati i moti in Sicilia, poi a Napoli, quindi a Parigi e infine proprio a Vienna dove gli studenti avevano assediato il palazzo reale e un buon numero di soldati si era rifiutato di aprire il fuoco contro di loro. A quel punto l’imperatore Ferdinando I d’Austria si era reso conto che andava cambiata strategia: abolì la censura e convocò un’assemblea che avrebbe dovuto tenersi il 3 luglio. Ma sbagliò i tempi, ormai era tardi. Il “dio” del Congresso di Vienna, il cancelliere Metternich, fu costretto ad abbandonare il suo incarico e fuggì in Inghilterra. Vienna ribolliva, la crisi economica era stata, forse, il detonatore, ma alla fame si era aggiunta la rivendicazione politica contro l’assolutismo.
Era il 17 marzo, la popolazione milanese capì che quello era il momento buono per insorgere e cacciare gli austriaci.
Il giorno successivo sarebbe iniziata la rivolta. Come abbiamo già detto le Cinque giornate avranno qualcosa che andrà oltre la ribellione, per quanto organizzata e studiata. Qualcosa che andrà oltre le rivolte che avevano visto generalmente attive alcune classi sociali ed escluse o indifferenti le altre.
A Milano succede invece il miracolo. È davvero l’intera città, preti e laici, uomini e donne, bambini, adulti e vecchi, poveri e ricchi a fare “popolo”.
Un popolo incredibilmente coeso, che sembra aver dimenticato ogni differenza di status. Le barricate ne sono un esempio.

Le barricate sono la necessaria difesa di questi combattenti senz’armi di fronte a quasi ventimila armati fino ai denti. Inizialmente hanno solo trecento fucili i milanesi, oltre a zappe, coltelli e vanghe, più le armi prese nei musei e nelle armerie private dell’aristocrazia che, com’è ovvio, non potevano essere il massimo dell’efficienza. Gli ulani a cavallo avrebbero fatto strage di tutto il popolo se non fossero stati fermati dalle barricate e allora tutti sacrificano quel che hanno. Tutti. Nelle barricate ci saranno letti, sedie, stracci, pentole, armadi, ma anche poltrone, specchi, carrozze e mobili pregiati lanciati da case patrizie, tutto.
Le barricate saranno il simbolo del popolo che in quel momento ha superato ogni differenza di status ed è unito sotto la stessa parola d’ordine: la libertà dal giogo asburgico.

Il 18 marzo viene convocata una manifestazione sotto il municipio per convincere il podestà Gabrio Casati a chiedere che il governo della città passi alla municipalità. Casati è un moderato, più precisamente è al suo posto su nomina imperiale, comunque si consulta col vice-governatore O’Donnel (visto che il governatore Spaur è fuggito nottetempo come si addice ai coraggiosi e come successivamente farà Carlo Alberto) per stabilire l’opportunità o meno di far intervenire Radetzky. Ma la folla ormai è enorme, e forte del suo numero invade il palazzo del governo e costringe O’Donnel a firmare tre decreti nei quali si autorizza la formazione di una guardia civica, il passaggio del governo cittadino alla municipalità e la restituzione delle armi alla municipalità stessa.
Radetzky interviene, dichiara nulli i decreti e proclama lo stato d’assedio. Iniziano gli arresti a centinaia. I cecchini tirolesi vengono fatti salire sulle guglie del Duomo e da lì sparano sulla folla. Radetzky minaccia di usare tutti i suoi duecento cannoni e radere al suolo Milano. Ma i milanesi ormai sono insorti. Tutti hanno un ruolo nell’insurrezione. I bambini dell’orfanotrofio – i Martinitt – hanno il compito di correre di chiesa in chiesa e far suonare le campane a martello, poi avranno quello di portare dispacci da barricata a barricata. Saranno circa duecento le barricate, messe su in poche ore. Praticamente l’interno di case ricche e case povere, di negozi e cantine, tutto finirà in strada e tutto sarà per tutti.
Le campane suonano a stormo in tutta Milano chiamando al combattimento. I milanesi sembrano armati della forza che ha chi può solo vincere o morire e anche le loro parole d’ordine, i loro slogan di sostegno comune e di incitamento ne sono prova. Nelle strade si grida “viva i morti” senza separare i già martiri dai futuri martiri. Il sangue scorrerà a fiumi, ma incredibilmente sarà anche tanto sangue austriaco (sarebbe più giusto dire boemo, croato, ecc. perché i militari dell’impero sono solo in minoranza di nazionalità austriaca) e alla fine delle Cinque giornate il feldmaresciallo, costretto a ritirarsi, conterà ben quattromila morti.
Il 19 marzo si costituisce il Comitato di guerra presieduto da Carlo Cattaneo, l’intellettuale rivoluzionario e repubblicano famoso per la sua dirittura morale pari alla sua determinazione e alla sua umanità.
Sarà lui a calmare la folla facendo rispettare i prigionieri austriaci, sarà lui a salvare la vita all’infame commissario Bolza, uno dei peggiori repressori filo-austriaci odiato da decenni per il suo spionaggio e le sue responsabilità contro i patrioti finiti allo Spielberg. Non lo salverà per qualche merito, visto che meriti il conte Bolza non ne aveva, ma semplicemente dicendo agli insorti che ucciderlo sarebbe cosa giusta, ma non ucciderlo sarebbe cosa santa. Ciò che muoveva Cattaneo, e che si può leggere nei suoi scritti precedenti e successivi alla rivolta, era l’idea di libertà e di giustizia sempre accompagnata da profonda umanità, sebbene l’uso della violenza fosse necessario per fermare la violenza dell’oppressore austriaco.

Cattaneo, interpretando il volere degli insorti oltre che del Comitato, risponderà con un deciso no. L’allora podestà, Gabrio Casati, avrebbe accettato, ma sarebbe stato sconfessato dalla folla, tanto più che proprio in quel momento arrivava la notizia di una strage di civili nella chiesa di San Bartolomeo. Il maresciallo austriaco riproverà con un altro esponente dell’ala moderata, il conte Vitaliano Borromeo, anche lui notevolmente opportunista, come attesta la sua biografia, e per convincerlo dirà che in caso di rifiuto Radetzky avrebbe raso al suolo Milano a colpi di cannone. Ma il conte Borromeo, benché moderato, risponderà che ormai i milanesi sono pronti a seppellirsi sotto le rovine delle proprie case piuttosto che cedere al ricatto.
La risposta di Carlo Cattaneo non lasciava dubbi, tuttavia, al suo secco no aggiunse anche che il problema si sarebbe risolto semplicemente con l’uscita dell’esercito occupante dalla città. Cosa che avvenne il giorno 23.
Ma lo stesso giorno in cui i milanesi festeggiavano la cacciata degli austriaci e onoravano i loro morti, germogliava la pianta velenosa del tradimento dei martiri, sacrificati al disegno monarchico sabaudo. Gli insorti ancora non lo sapevano. Ancora risuonava per ogni dove l’eco delle azioni compiute dagli eroi che avevano cacciato gli austriaci.

Molte vie di Milano oggi portano i nomi di quegli eroi. Nomi che ai più sono ormai sconosciuti. Via Augusto Anfossi, chi era costui? Sicuramente un folle, direbbe qualcuno oggi, se scoprisse che si batté praticamente disarmato. La sua azione fu vincente, anche grazie a Pasquale Sottocorno, altro eroe, altra via, ma Anfossi venne ucciso. Era la quarta giornata della grande rivolta. E via Luigi Torelli? Magari di Torelli si sa qualcosa di più perché ebbe incarichi politici nei successivi decenni. Ma chi ricorda che il 20 marzo, terza giornata, Torelli scalò le guglie sotto il fuoco dei cecchini per issare il tricolore? La forza dei simboli può essere pari a quella di una battaglia vinta e per questo per essa si può rischiare la vita. E chi sa che via Luisa Battistotti Sassi è dedicata a una donna del popolo capace di disarmare un militare austriaco e di tenerne cinque sotto tiro, salvando la vita ad altri insorti proprio il primo giorno della rivolta?

E chi furono e cosa fecero Costanza Arconati o Maria Falcò d’Adda, nomi scritti sulle tabelle stradali, o le circa cento donne uccise in quelle Cinque giornate che ne fecero, al tempo stesso, martiri dell’occupazione ed eroine della sconfitta austriaca?

Forse i fautori milanesi di omaggi a Radetzky non solo cambierebbero, come già tentato con Laura Mantegazza, il nome di quelle vie, ma cambierebbero anche il nome a Porta Vittoria restituendole quello medievale di Porta Tosa, con tutto il peso sessista e punitivo che si porta dietro, se potessero farlo. Porta Tosa divenne Porta Vittoria proprio a seguito della sconfitta delle guarnigioni asburgiche dopo una durissima battaglia. Il giovane Manara, che aveva sostituito il valoroso Anfossi ucciso nella presa del Palazzo del Genio, riuscì ad incendiare la porta permettendo l’ingresso dei contadini i quali, grazie alla creatività degli insorti, erano stati avvertiti e chiamati alla lotta tramite volantini portati oltre le mura da decine e decine di piccole mongolfiere.
Era la quinta giornata. A mezzanotte gli austriaci avrebbero lasciato la città passando per quella porta ormai diventata Porta Vittoria. All’alba del 23 marzo la città era libera. Nello stesso giorno il re sabaudo dichiarò guerra all’Austria. Iniziava la Prima guerra d’indipendenza.
A Milano inizialmente fu festa, una guerra di popolo aveva scacciato gli usurpatori. Ma ad agosto si capì che una guerra dinastica, ovvero il tradimento del re Carlo Alberto, avrebbe annullato i risultati della guerra di popolo e avrebbe fatto rientrare gli austriaci, svendendo il Lombardo-Veneto per salvare il suo regno, il regno di Sardegna.
Carlo Alberto era stato invitato a sostenere l’insurrezione durante lo svolgersi delle Cinque giornate. La richiesta era partita dalla parte moderata, formata da funzionari come Casati, esponenti della nobiltà e timorosi che gli ideali repubblicani impersonati da Cattaneo potessero vincere. Il 21 marzo, mentre la battaglia infuriava, il conte Martini, incaricato dell’ambasceria, era tornato riferendo l’assenso del re sabaudo ma ad una condizione: il Comitato di guerra doveva essere sciolto e sostituito da un Governo provvisorio. La proposta, dopo molte incertezze, venne accettata, il conte Casati fu nominato presidente e al suo posto, come podestà, venne nominato Paolo Bassi. Ma al Governo provvisorio si affiancarono vari comitati tra cui il Comitato di Difesa, composto dal generale Fanti e da Restelli e Maestri, gli stessi che successivamente avrebbero stilato il lungo documento in cui veniva spiegato il tradimento del re e in cui si auspicava che di ciò la storia avrebbe tenuto conto. La richiesta del re era stata comunque accolta e il 23 marzo, a città liberata, Carlo Alberto aveva dichiarato guerra all’Austria.
Oggi negli studi storici ci si chiede perché Carlo Alberto fece tanti errori lasciando grande vantaggio a Radetzky, suo nemico. Tra battaglie vinte e perse si arrivò alla battaglia di Milano. Era il 4 agosto. La popolazione milanese aveva notato fin dal mattino il disimpegno dell’esercito sabaudo. L’impressione si trasformò in certezza quando la Congregazione municipale venne convocata a palazzo Greppi per ricevere la temuta notizia: il re rinunciava alla difesa di Milano. Una grande folla si radunò sotto il palazzo gridando al tradimento. Qualcuno del Governo provvisorio indusse il re a parlare alla folla ma appena si affacciò al balcone partì una fucilata. Questo segnale inequivocabile non fece cambiare idea a Carlo Alberto circa la resa, ma semplicemente lo fece ritrarre dal balcone.
Una delegazione sabauda cui partecipavano anche i consoli inglese e francese aveva raggiunto Radetzky nel suo quartier generale fuori Milano ed era rientrata con la proposta di cancellare quanto conquistato dagli insorti nelle giornate di marzo e ripristinare i precedenti confini. In cambio il feldmaresciallo avrebbe consentito (probabilmente “auspicato”) l’esodo dalla città di quanti/e volessero uscirne. Successivamente un’altra delegazione, comprendente il nuovo podestà, Paolo Bassi, fu inviata da Radetzky per chiedere alcune ore in più per l’evacuazione della città e per avere la garanzia che a Milano sarebbe stato risparmiato il saccheggio, benché da saccheggiare ci fosse ormai ben poco, ma questo punto diede a Carlo Alberto la copertura necessaria per affermare che aveva fatto il possibile per salvare Milano e che quindi era giusto firmare l’armistizio, firma che però non pose personalmente ma che fece apporre dal suo Capo di Stato Maggiore, Salasco, il quale ne portò il peso al pari del podestà.
Secondo quanto racconta Cristina di Belgiojoso, una deputazione della guardia nazionale salì a palazzo Greppi, interrogò il re sul perché della capitolazione e lo costrinse a parlare alla folla. Carlo Alberto, nonostante qualche fucilata in aria, disse che alla vista di tanto coraggio e di tanta determinazione da parte dei milanesi non poteva che promettere «solennemente di battersi alla loro testa fino all’ultimo sangue». Qualcuno gridò allora di lacerare la capitolazione e qui il re sabaudo fece un magistrale colpo di scena: estrasse un foglio dalla tasca e, così racconta Belgiojoso, «lo tenne in alto affinché il popolo lo vedesse, e poi lo fece a pezzi. Per tutta la città in un baleno si sparse la voce che il re aveva fatto a pezzi la capitolazione e che restava ormai con il suo esercito a difendere Milano.»
Il popolo milanese si attivò immediatamente per organizzare nuovamente la difesa come già fatto nelle gloriose giornate di marzo e il re fece arrivare il suo incoraggiamento a incendiare le case prospicienti alle porte cittadine cosicché anche i più poveri sacrificarono i loro pochi beni per quello che credevano essere il bene comune.
Poi arrivò la notte, e col favore delle tenebre e quello del colonnello La Marmora che lo coprì con i suoi soldati, il re fuggì da quella città alla quale, solo poche ore prima, aveva promesso di battersi fino all’ultimo sangue, fingendo di stracciare il documento che ne segnava la capitolazione. Raggiunse Vigevano, allora parte del Regno di Sardegna, e poche ore dopo ricevette una delegazione della città di Milano, non certo inviata dagli insorti, che offriva le scuse per l’aggressione subita a palazzo Greppi riconoscendo che l’armistizio era stato accettato al solo fine di evitare la distruzione di Milano e nuove stragi.
Ovviamente si trattava di una delegazione che col popolo delle Cinque giornate ormai non aveva nulla da spartire, ma che si preparava, in caso di futura vittoria del Regno di Sardegna, a garantirsi i favori di quella dinastia che per i giochi del destino sarebbe divenuta Regno d’Italia, segnando altre pagine buie nel secolo successivo.
A proposito di delegazione che porgeva le scuse a Carlo Alberto, prendiamo le parole di Cattaneo per farci un’idea più chiara di alcuni personaggi che ebbero un ruolo significativo nell’inchino al re fuggiasco. Il conte Gabrio Casati fu «irrequieto e avido di titoli e decorazioni, non si vergognava di farne incetta. Erasi meritato dall’Austria l’ordine della corona ferrea, e la reiterata nomina di podestà. Ma quando gli parve intravedere che la casa Savoia potrebbe avere occasione d’allargarsi in Italia, egli, per tenersi presto ad ogni evento, erasi procacciato anche l’ordine savoiardo di S. Maurizio. Equilibratosi così fra i due governi, attestava ad ambedue la sua devozione… Il conte Vitaliano Borromeo seguitava, alquanto più signorilmente, li esempli del podestà; mendicava alla corte austriaca il toson d’oro, scudo inviolabile contro li arresti; costringeva un figlio a entrare nella prelatura romana ai più tristi giorni di Gregorio XVI; e un altro figlio a vestire l’uniforme austriaco. S’ingegnava così d’essere ad un tempo cesareo e pontificio, guelfo e ghibellino. Codesti ciambellani… non potevano uscire dal cerchio magico delle idee d’anticamera; né aspirare a maggior cosa che a mutar padrone».

Il 6 agosto gli Austriaci rientreranno da Porta Romana in una Milano semi-deserta, accolti da nessuno e in un grande silenzio. Lo stesso avverrà in altre città lombarde. Decine e decine di migliaia di persone democratiche e di combattenti disgustati dalla capitolazione erano andati in volontario esilio. Gli altri, a parte i pochi opportunisti pronti a nuovi inchini e nuove onorificenze, erano feriti dal tradimento del re sabaudo firmato dal podestà di Milano e la loro ostilità agli occupanti la mostravano col silenzio.
Il 31 agosto il vecchio feldmaresciallo tornò a Vienna, dove fu accolto da fantastici festeggiamenti e dalla musica composta appositamente per lui da Johann Strauss in omaggio alle valorose repressioni di quella “primavera dei popoli” che anche in Italia aveva avuto la sua espressione. Il militare fu ricevuto quindi con La marcia di Radetzky che, incredibile a dirsi, fa parte dei repertori bandistici anche dei corpi militari dell’Italia che, se esiste come tale, è anche perché l’Austria fu infine sconfitta. Una petizione, lanciata nel 2014 per togliere quella marcia dai repertori bandistici italiani, non ha avuto successo. Il tema non appassiona!
Ma forse, per qualche oste e qualche barista, ma anche per l’ex Presidente della Lombardia che, incurante del ridicolo, si fregia del titolo di Cavaliere onorario dell’Ordine di san Giorgio della casa Asburgo-Lorena, l’Italia è solo “un’espressione geografica” e per questo possono saltellare con leggerezza al suono della Marcia di Radetzky e restare del tutto indifferenti davanti al tradimento dei martiri delle Cinque giornate.
Articolo di Patrizia Cecconi
Nata a Roma. Laureata prima in sociologia, poi in erboristeria. Si accorge che i meccanismi di inclusione ed esclusione applicati al mondo umano, il mondo umano li applica anche alla natura, così scrive qualche libro in cui tratta sia di piante che di diritti umani. Dopo 25 anni di appassionato lavoro all’interno delle scuole, lascia l’insegnamento si dedica alla scrittura e alla causa che ormai sente sua: la Palestina.