Marinella era il mio migliore amico. Avevamo in comune i gusti, i modi e pure i giocattoli: i miei, perché a lei regalavano sempre cose da femmina. Sbuffava e alzava gli occhi al cielo quando Babbo Natale le portava l’ennesima bambola che apriva e chiudeva gli occhi, il ferretto da stiro rosa, la cucinina con le pentoline, il servizietto di plastica a fiori per prendere il tè con le signore, e guardava con doloroso desiderio il fucile, la stella da sceriffo, la scatola di costruzioni che estraevo estasiato dai miei pacchi natalizi dopo averne stracciato impaziente la carta. Perché Marinella era maschio.
Sua madre, amica d’infanzia della mia, considerava la prole un’inevitabile appendice della vita adulta, da tollerare cercando di evitarne i fastidi nell’attesa che crescesse e si levasse di torno, quindi aveva adottato per Marinella un abbigliamento compromissorio onde non cozzare contro la conformità sociale né provocare rabbiose contestazioni (che il padre, la sera, avrebbe sanzionato a sculacciate), salvando le apparenze quanto possibile senza alimentare il conflitto con quella figlia che era palesemente un figlio. Marinella era felice dei sui capelli corti, escogitati dalla mamma in quanto “pratici” e “moderni” (tentava di rassomigliarla a una piccola Audrey Hepburn mentre Marinella ci si vedeva più come un giovane John Wayne), e non subiva candidi abitini estivi né scarpine di vernice, che avrebbe inzaccherato e deformato a pallonate in cinque minuti. Certo le gonne, nell’Italia dei gloriosi anni Sessanta del Novecento, erano inevitabili anche per Marinella, ma si limitavano a quelle scozzesi a piegone, che noi immaginavamo kilt di sanguinari guerrieri appartenenti a clan barbari e feroci, così lei ci si sentiva bene dentro. D’altro canto, all’epoca, anche i maschi portavano pantaloni corti, estate e inverno, fino al giorno della prima barba, a esibire ginocchia sbucciate e calzettoni perennemente calati alle caviglie, quindi i nostri abbigliamenti non differivano poi tanto.
Marinella, insomma, era un maschiaccio. Le nostre madri ci sgridavano quando per strada non potevamo esimerci dal fare a gara a chi arrivava prima, ci urlavano per tutto l’inverno di abbottonarci i cappotti, di non sudare perché si fa presto a pigliarsi una pleurite, di non fare a botte, ma la mamma di Marinella, oltre che furiosa come tutte le mamme, era anche amareggiata. La mia, ho l’impressione, reprimeva un senso di orgoglio nello sgridare tanta maschia energia, mentre l’altra sembrava soccombere sotto il peso di quell’anomalia filiale. Perché le femmine non ruzzano, non si sporcano, non si menano, non si sgangherano di quel riso incontinente e immotivato che, a noi maschi, ci faceva diventare paonazzi. Per noi le femmine erano un mistero, e nemmeno eccitante come gli extraterrestri, anzi piuttosto fastidioso perché al primo spintone andavano subito a sporgere la loro querula denuncia alla maestra.
La mascolinità di Marinella, da ragazzini, non mi pareva strana. Non avevo nozioni di anatomia sufficienti a comprendere se vi fosse differenza fisica fra femmine e maschi – niente sorelline al cui bagnetto potessi assistere né altre fonti di approccio scientifico all’argomento – e quindi le uniche diversità che coglievo erano solo quelle, per così dire, sociali e sovrastrutturali. Probabilmente in un passato assai remoto, nella prima infanzia, qualche tentativo di investigazione ci deve essere stato: ricordo molto vagamente di aver giocato con Marinella “al dottore”, ma soprattutto che il gioco fu interrotto dall’incursione delle nostre madri arrabbiate e che non capimmo il motivo di tanta veemenza. Però ho anche una vaga immagine di mia madre a cui veniva da ridere e che rise anche mio padre quando, la sera, lei glielo raccontò, mentre Marinella fu oggetto di una repressione violenta, con urla, insulti e sculaccioni, e per un po’ non ci fu permesso di giocare insieme. Nessuna spiegazione. Ma si vede che l’episodio ci fece passare la voglia di indagare sui nostri corpi e che convogliò il nostro rapporto fisico verso la sola lotta libera. I rari diverbi, da allora, furono tutti risolti virilmente a botte.
Non ci fu mai chiaro il motivo per cui noi due, coetanei, vicini di casa, figli di amiche sororali, andassimo in scuole diverse. Io fui piazzato alla scuola elementare pubblica XXIV Maggio MCMXV, in onore della quale, in quelle aule troppo piccole e puzzolenti di varechina, la maestra ci imponeva di cantare a squarciagola La canzone del Piave all’approssimarsi di qualunque solennità patriottica, mentre Marinella, che avrebbe voluto venire con me, fu invece collocata d’ufficio in un elegante e costoso istituto di suore francesi, dove le toccava ululare canti liturgici e di cui mi raccontava quasi tutti i giorni l’agghiacciante mostruosità. Non solo le toccava alzarsi all’alba per essere raccolta dal pullman privato che girava un’ora a raccattare altre infelici prima di arrivare a destinazione, ma doveva anche: mettere una divisa (piuttosto sobria, ma comunque femminile) e poi un grembiule e un fiocco bianchissimi, il cui candore ci si aspettava lei avrebbe tutelato anche a costo della vita; salutare le suore “Bongiurmamèr” (pronunciare Bonjour Ma Mère le dava il voltastomaco) e fare la riverenza; giocare in giardino con le altre femmine alle belle statuine e a saltare la corda, e quando tentava di usarla per strangolarle c’era sempre un’aguzzina in velo e tonaca che l’acchiappava e la riportava in classe a finire la ricreazione da sola; andare a messa in continuazione, bersaglio di reprimende continue per la sua insofferenza allo stare inginocchiata più di cinque secondi (benché non manifestasse tendenze particolarmente atee). E mentre io, a una certa età, feci la prima comunione in un completo giacca e pantaloni (corti) fumo-di-Londra con tanto di cravatta, lei fu costretta a sfilare in processione in abito da monaca, la destra sul petto a sentir palpitare il cuore saturo di odio, incanalata e guardata a vista con le altre senza nemmeno poter dar loro fuoco con la candela accesa che teneva nella sinistra.
Io sono figlio unico. Per tutta la mia infanzia ho chiesto a mia madre di farmi un fratellino (mi sarebbe andata bene perfino una sorellina) ma mi ha sempre risposto che se l’avessi trovato già confezionato l’avremmo potuto tenere, ma quanto a farlo lei potevo pure scordarmelo. (A quanto pare, l’esperienza del parto le è stata traumatica; lo capisco benissimo, anche se trovo che il racconto della mia nascita avrebbe pure potuto addolcirlo un po’, così non mi sarei sentito per tutta l’infanzia un massacratore). La richiesta è durata fino a quando mi ha detto: «A questo punto un bambino puoi anche fartelo da te»: ho seguito il consiglio, ma continuo a pensare che, nella vita, fratelli e figli siano cose diverse.
Non credo che il motivo per cui chiedevo un fratellino/sorellina fosse solo la mia solitudine di figlio unico. Doveva esserci qualcos’altro. Io da solo stavo benissimo, amavo giocare con le costruzioni e inventavo storie complicate con pupazzetti e soldatini che disponevo sul pavimento senza alcuna distinzione morfologica: gli indiani e i marines che trovavo nella scatola del detersivo Tide combattevano insieme a un marzianino di plastica trasparente arancione e perfino a un portauovo a forma di gnomo. Il tavolino in cui facevo i compiti e disegnavo era troppo piccolo per i miei immensi campi di battaglia, quindi mia madre mi aveva messo per terra, a mo’ di tappeto, una pelle di pecora su cui mi sdraiavo, così non pigliavo la famosa pleurite.
Marinella e io giocavamo moltissimo con i miei pupazzetti, i miei camion e i miei carri armati, e filavamo quasi sempre d’amore e d’accordo. Ma non ci legava solo la passione per il gioco, per così dire, fisico e sensoriale: eravamo accomunati anche dall’attitudine alla riflessione speculativa e progettuale. Il gioco che amavamo di più, infatti, era escogitare il modo perfetto per assassinare sua sorella Laura, detta Lauretta.
Era costei il negativo perfetto di Marinella: più giovane di circa tre anni, era femmina fin dalla nascita. Si vedeva subito. Lauretta era esile e proporzionata, sfoggiava occhi azzurri e morbidi riccioli che, dicevano le mamme, gareggiavano in splendore con gli orecchini d’oro regalatile dalla nonna, amava farsi decorare con fiocchi e nastrini, prendeva il tè con le bambole e le curava se malate, aveva i quaderni più ordinati e meglio calligrafati a memoria di suora, cantava le litanie con voce di usignolo e sfoggiava una decisa propensione alla delazione. Un mostro. Il problema, però, non era che rappresentasse quanto di peggio il Creatore avesse prodotto (Marinella e io, tutto sommato, avremmo anche potuto fottercene) ma che, quando madre e figlie venivano a trovarci, Lauretta non se ne stava a mollo nel suo brodo femminile ma pretendeva di giocare con noi. Le mamme, in cucina, non la volevano: dovevano raccontarsi gli affari loro e avevano ragione. Le dicevano: Lauretta, fa’ la brava, fa’ il bagnetto alla bambola e dalle la pappa, ma da un’altra parte però. Come dire: amore, noi vogliamo bere caffè e fumare in pace, ne abbiamo bisogno, tu sei un un tesoruccio ma ne abbiamo piene le gonadi di te e dei figli in generale.
Così Lauretta veniva da noi, urlava che dovevamo giocare a papà mamma e figlia, ci distruggeva il campo di battaglia, si prendeva un sacco di botte e tornava in lacrime dalle madri, che a quel punto si infuriavano con noi.
Non c’era che una soluzione.
La decisione di ucciderla venne da sola, ma escogitare il metodo perfetto richiese molto tempo. Disegnammo in quel periodo forche e ghigliottine, desiderammo di poter modificare le mie armi-giocattolo in modo che sparassero pallottole vere, studiammo in quale punto del petto convenisse conficcarle un coltello da cucina, facemmo gare a trattenere il respiro allo scopo di individuare con esattezza per quanto tempo tenerle la testa sott’acqua nella vasca da bagno. Erano ottimi progetti, ma tutti con un punto debole: Marinella e io saremmo stati scoperti e puniti.
Doveva quindi sembrare un incidente. E fu la stessa Lauretta a trovare la soluzione: un giorno, mentre noi eravamo seduti a tavolino cercando di escogitare il modo di collegare una sedia alla presa di corrente, entrò di corsa in camera mia per imporci un tè con le sue bambole, mise un piede sulla pelle di pecora e quella, vecchiotta e un po’ lisa, slittò facendola scivolare. Lauretta non cadde, riprese l’equilibrio e quasi non ci badò, ma noi due ci guardammo negli occhi, scambiammo un cenno d’intesa e, con voci flautate, le dicemmo soavi: «Ma certo, cara». Poi le chiedemmo gentilmente di andare in cucina a prendere le chicchere e i piattini di plastica floreale che si era portata da casa, aspettare un momento per lasciarci sistemare il salottino e di tornare, che proprio non stavamo nella pelle dall’insopprimibile voglia di tè!
Ponemmo in silenzio la pelle di pecora sulla soglia della mia camera. La chiamammo, «Dai! Sbrigati!» e lei arrivo correndo, mise il piede sulla pecora, scivolò, cadde all’indietro e batté la testa sul pavimento. Marinella e io ci guardammo con soddisfazione, ci godemmo un istante di puro piacere e poi gridammo all’unisono: «Oh mio Dio! Lauretta!».
L’incidente era stato perfetto. Però Lauretta non era morta. Si rialzò piagnucolante, le mamme accorsero e l’accarezzarono e la consolarono, le misero ghiaccio sulla nuca e ascoltarono le versioni sua e nostra, che coincidevano. Un incidente. Chissà perché la pelle di pecora era finita là. Mah, forse giocando. Non fummo quindi ritenuti colpevoli e ci toccò solo, a tutt’e tre, un blando rimprovero per il disordine e l’invito a prestare più attenzione in futuro.
Lauretta era purtroppo ancora in vita, ma un risultato comunque lo ottenemmo. Forse aveva capito la meccanica di quanto avvenuto e, soprattutto, che non sarebbe stato opportuno sfidare la sorte perché la prossima volta avrebbe avuto meno fortuna: ad ogni modo da allora ci lasciò in pace, curò e nutrì le sue bambole in salotto, insegnò loro a leggere e scrivere, e pure a cantare le litanie delle suore, complimentandosi per il loro senso del ritmo.
Marinella e io eravamo dunque liberi. Ma la nostra felicità non durò a lungo.
Nel giro di poco tempo accaddero tre cose che ci fecero invecchiare di colpo: i passaggi della vita che spazzolano tutto e, dopo, niente è più lo stesso.
La prima: una vigilia di Natale fu l’ultima che trascorremmo insieme perché i genitori di Marinella avevano comprato una casetta in montagna e deciso che da allora in poi vi avrebbero trascorso tutte le feste, comandate o meno, a prescindere dalle eventuali rimostranze delle figlie. Per la prima volta i regali non arrivarono da Babbo Natale: il vecchio era stato mandato in pensione perché ormai nelle nostre anime la Ragione aveva prevalso sulla superstizione e noi avevamo dovuto concludere a malincuore, dopo un fitto dibattito durato mesi, che i conti, all’esame dei fatti, non tornavano. Marinella concentrò dunque il suo risentimento su padre e madre scartando il pacco con l’aspirapolverino lilla (che ronzava fastidiosamente ma non aspirava nulla) e – novità! – anche una scatolina contenente una boccetta di profumo dolciastro (che le fece arricciare il naso e risalire conati) perché ormai si avviava a diventare “una signorina”. Io invece speravo in un bazooka, ma la forma della scatola, avvolta in carta rossa e argento, era anomala: trapezoidale. «Sembra un grosso prosciutto», disse Marinella ridacchiando. Invece era una chitarra. Non mi aspettavo nulla di simile. Non c’era mai stato uno strumento musicale nelle mie letterine al Vecchio Pensionato, né nelle mie aspirazioni. La presi in mano, la soppesai e la imbracciai proprio dal lato giusto: sarà stata fortuna. Ci feci subito un bello sblem-sblem-sblem e i miei sorrisero felici, poi la riposi ma la ripresi quasi subito e andai avanti con molti sblem-sblem-sblem, finché Marinella non mi guardò ingrugnita e ce ne andammo a costruire un patibolo con il Lego mentre Lauretta passava felice l’aspirapolverino lilla sulla sua carrozzina nuova per la bambola preferita. (A lei i regali li aveva portato Babbo Natale).
Passai le vacanze tentando di capire come usare la chitarra. Mio padre, che da giovane aveva strimpellato il mandolino, mi diede alcune informazioni di base, poi mi arrangiai chiedendo consigli a due tizi, un compagno di classe e uno dell’oratorio, che a sentir loro sapevano suonare. Li avevo sempre evitati ritenendoli due coglioncelli boriosi, ma per un po’ li considerai amici e presi da loro quel poco che mi potevano dare. Marinella la chitarra non la guardava nemmeno, ma io facevo lentamente progressi: imparai qualche melodia facile e poi quei tre o quattro accordi con cui si può suonare quasi qualunque canzone. E le canzoni che progressivamente s’infilavano nel mio mondo – non quelle che piacevano ai genitori, no: quelle nuove e toste – davano colore e ritmo inimmaginati alle mie ore.
La seconda: per l’Immacolata la parrocchia organizzava una festa per le famiglie che includeva una recita e un’esibizione musicale. Ero un parrocchiano piuttosto tiepido, ma lì i ragazzini (maschi) erano bene accolti, c’era una messa domenicale tutta per noi, un campetto di calcio niente male, biliardini, ping-pong, e dunque per nulla al mondo avrei perso l’avvenimento. Fui perfino prescelto per interpretare una parte secondaria, quasi una comparsata, ma avevo comunque una battuta. La pièce era San Tarcisio, martire giovinetto. Io ero “un messaggero” che irrompeva trafelato nella catacomba annunciando: «Grave sciagura incombe su di noi!» e raccontavo ansante che i soldati romani avevano arrestato «uno stuolo di fratelli e di sorelle» e li avrebbero sollecitamente dati in pasto ai leoni. Poi svenivo. La mia interpretazione riscosse un benevolo applauso e, calato il sipario, tornai in platea con ancora indosso la tunica ed ebbi elogi esagerati dai miei genitori, più sobri da Marinella.
Il parroco annunciò la seconda parte della festa, particolarmente dedicata «ai giovani», presentando il complessino oratoriale Gli Sputnik, quattro ragazzi grandi con tanto di chitarre elettriche, microfoni e batteria – tutto molto luccicante – che si produssero in una mezz’ora di beat moderato. A me sembravano bravi, ma Marinella era addirittura incantata. Fissava il palco in estasi e, mi accorsi, lo stesso facevano tutte le femmine del pubblico. Seguii i loro sguardi e vidi che convergevano sul batterista, Raffaele detto Lele, un sedicenne ammantato di chioma bionda, occhi verdi, sorriso smagliante. Le ragazze battevano il tempo con le mani e cacciavano sospiri. Marinella faceva lo stesso.
Io conoscevo Lele già da un po’ e lo odiavo, perché era grande e bello e suonava una batteria tutta lustrini e aveva il motorino: mai e poi mai avrei potuto aspirare alla sua gloria. Alla fine di ogni pezzo le ragazze si spellavano le mani in applausi e Marinella sembrava epilettica. Non era mai stata attenta alla musica in vita sua. Cos’era cambiato? Al mio sguardo interrogativo arrossì (che io sappia, per la prima volta) e si giustificò: «Un gran senso del ritmo, il batterista, no?». Io rimasi muto. Ritmo? Ma che scemenza. Un batterista il ritmo ce lo deve avere nel sangue, no? Altrimenti che batterista sarebbe? Ma capii: al mio amico Marinella piaceva un ragazzo.
La terza: pochi giorni dopo andammo mia madre e io a casa sua. Accadeva di rado e, in quelle occasioni, era tutto meno bello perché lì di giochi interessanti non ce n’erano. Io portavo qualche pistola ma la stanza, che Marinella condivideva con la sorella, era tutta una catasta di ninnoli color pastello. Lauretta disegnava fatine e principi azzurri per conto suo e noi ci annoiavamo.
Quel pomeriggio Marinella sembrava distratta. Non ascoltava quello che le dicevo e rispondeva senza attenzione. Finimmo col parlare della festa dell’Immacolata, io tentai di raccontare qualche aneddoto spiritoso ma lei sembrava non sentirmi e portò il discorso sulla esibizione degli Sputnik e sul batterista che aveva tutto quel senso del ritmo. Io cominciai ad arrabbiarmi. Le dissi che Lele era uno stronzo e Marinella mi fissò allibita. Nel nostro rapporto non era ancora apparso il turpiloquio, ma io cominciavo a sentirmi grandicello e dunque abilitato a un lessico più disinvolto. Mi rispose che lo stronzo ero io, che non capivo niente, che ero insensibile, che nella vita non c’erano solo i film western, che era ora che crescessi. Mi sembrò subito un conflitto diverso dagli altri, eppure tentai ugualmente di risolverlo nell’unico modo che conoscevo. Le mollai uno spintone ma, appena toccata, l’energia sembrò tornare indietro e bloccarsi nelle mie mani. Avevo percepito una superficie inaspettata, molle, come se sul suo sterno ossuto e sulle sue costole fosse stato sovrapposto un sottile strato di mozzarella. Restai lì inebetito e lei mi massacrò di botte.
Ma la realtà dell’accaduto mi colpì più forte: Marinella stava diventando una femmina. E questo disastro, lo sapevo, era irreversibile.
Da allora i nostri incontri si diradarono. Quando le mamme si vedevano, noi spesso avevamo altro da fare. I nostri discorsi divennero generici, i giochi finirono.
Anche lei cominciò a interessarsi alla musica che, in modi diversi ma simultanei, era entrata di prepotenza nelle vite dell’intera nostra generazione. Non fu mai attratta dall’idea di suonare alcuno strumento: ricordo qualche scambio di impressioni entusiaste sui Rolling Stones, ma ritenevo che Marinella, come le altre, fosse colpita più dall’avvenenza dei musicisti che dall’energia sprigionata dalle voci e dagli strumenti. Capii molto tempo dopo che mi sbagliavo e che, comunque, anch’io ero frastornato dalle minigonne di alcune cantanti la cui vocalità e i cui brani non erano memorabili. Gli ultimi lampi del nostro sodalizio furono dunque caratterizzati proprio dalla scoperta di quella musica che stava allora rimpiazzando il belcanto, le melodie di archi e arpe, il cuore che rimava con amore. Erano, quelle che prendemmo ad amare, canzoni dal testo spesso incomprensibile perché straniere, ma non importava: ci portavano di colpo in una dimensione inesplorata fatta di bellezza cupa e dissonante, di volume fastidioso per i genitori, di ritmo percussivo e protagonista. Ma per la nostra amicizia non era abbastanza.
Provavo il dolore del tradimento e dell’abbandono: il mio amico era scomparso senza lasciarmi in cambio un’amica. Passata l’infanzia, tutto il nostro mondo comune si era dissolto e non era stato sostituito da niente. Nella scoperta della femminilità di Marinella, infatti, non trovavo nulla di eccitante – forse perché, non più fratello, era comunque una sorella – e trovai improvvisamente più interessanti un paio di sue nuove amiche, del tutto femmine. Capii molto tempo dopo che anche Marinella si era sentita tradita: quale supporto le avevo dato nel cambiamento? Quale aiuto, quale solidarietà? L’avevo abbandonata nella solitudine del suo mutamento, che era stato drammatico soprattutto per lei: l’avevo tradita senza accorgermene, preso com’ero dalla contemplazione del mio dolore.
Trascorsero le scuole medie, io alla statale Alessandro Manzoni e Marinella dalle suore; cominciammo il liceo, io allo statale John Fitzgerald Kennedy e Marinella dalle suore; tre anni dopo al liceo si iscrisse anche Lauretta, ma non dalle suore. Non c’era stata alcuna discussione in casa, aveva detto solo, con irremovibile pacatezza: «Io da quelle non ci torno» e i suoi, disorientati da tanta calma determinazione, non avevano potuto far altro che acconsentire, sospirando contro le giovani d’oggi e sentendosi di colpo invecchiati. Allora Marinella si infuriò e urlò che, se stavano così le cose, al liceo pubblico ci sarebbe andata anche lei, e i genitori acconsentirono quasi senza farci caso, perché ormai lo sconquasso famigliare era già avvenuto. Così il primo giorno di scuola me le vidi arrivare accanto, all’ingresso del mio liceo, Marinella in quarta e Lauretta in prima, e fino all’esame di maturità le incontrai tutti i giorni.
Marinella, definitivamente donna e vestita con sobrietà, si mise subito con un tale che tutto sembrava tranne che un batterista rock. Lauretta invece adottò abbigliamento e comportamento più disinvolti e in sintonia con i tempi: minigonne, jeans, motorino, sigarette, linguaggio franco ed esplicito.
Incontrai Marinella per l’ultima volta al suo matrimonio col tipo del liceo. Era confezionata come si deve, bianca e radiosa. Diedi alla sposa un bacio beneaugurante in nome dei vecchi tempi e non le chiesi, come avevo programmato in precedenza, se suo marito avesse senso del ritmo. Poi vinse un concorso pubblico, si sedette a una scrivania, ebbe una figlia (che, in un ultimo impeto di ribellione, chiamò Janis) e quarant’anni dopo andò in pensione.
Al pranzo di nozze di sua sorella, Lauretta si ubriacò, si fece una canna nella toilette del ristorante e vomitò tutta contenta. Nel suo profilo Facebook appare fotografata davanti al casale di collina dove è andata ad abitare e a coltivare l’orto biologico insieme alla sua compagna, lontane dalla città, dalle suore, dalla famiglia, dall’urgenza di collocarsi in un punto esatto delle variopinte note del genere: che saranno mille, ma la vita ha anche più ritmo.
Articolo di Mauro Zennaro
Mauro Zennaro, grafico, ha insegnato Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico e Progettazione grafica negli istituti professionali e in alcuni atenei. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e qualcos’altro in una blues band.