Il web è potente, lo si sa. Può esserlo positivamente o negativamente, ormai si sa anche questo. Le polemiche nascono come funghi – con una velocità che, se fosse tale, ai cercatori di funghi non potrebbe che fare immenso piacere. A volte risvegliano il peggio di noi (Umberto Eco Docet), altre volte risvegliano nodi, a mio parere, che risultano poi costruttivi. Questi giorni è stata la volta di riflessioni e esiti edificanti. Al centro del dibattito di molti e molte e su prima segnalazione di Educare alle differenze (https://www.facebook.com/educarealledifferenze) è balzato un libro di testo di seconda elementare del Gruppo Editoriale Raffaello, ospite di una vignetta ormai nota e già cancellata dalle future ristampe. Per chi non lo sapesse si faceva dire a un bimbo nero la seguente frase: Quest’anno io vuole imparare italiano bene. Ma che c’è di male? Domanda retorica ricorrente. Per molti e molte la vignetta rappresenta una realtà diffusa nelle scuole tra gli allievi e le allieve con cittadinanza non italiana: africani/e neo-inseriti/e a scuola. L’affermazione però mi puzza di semplicismo e vado a vedere i dati. Gli studenti e le studentesse con cittadinanza non italiana nell’anno scolastico 2017-18 erano più di 800.000, tra i quali più di 500.000 nati in Italia. Verosimilmente, quindi, la percentuale di minori frequentanti che potrebbe pronunciare una frase simile si affievolisce. Vado a vedere poi quanti sono gli/le africani/e (tremendo definirli come un unicum continentale, lo so) e per trovare la prima collettività devo scendere ben oltre le prime dieci per presenze sul territorio. Per farvi un esempio chiaro: i/le romeni/e in Italia superano in numero tutti i/le migranti/e provenienti dall’Africa. Dunque: la vignetta che sembra narrare una realtà presenta uno e un solo immaginario. Anche stando ai numeri e volendo presentare un minore straniero o straniera egli dovrebbe prendere le sembianze di uno di origine albanese o romena nato in Italia. Questo già basterebbe a volere la rimozione del disegnino. Ma non basta, non mi basta, non ci deve bastare. Come in molte altre circostanze a stonare è tutto il tipo di narrazione. A me ha fatto spaventosamente venire in mente un bingo bongo anni 30, scusate la crudezza. Autori e autrici bianchi/e, genitori bianchi, insegnanti/e bianchi, bambini/e bianchi che credono che il/la bambino/a nero/a e straniero/a abbia come unico obiettivo quello di “integrarsi” alla loro maniera. Convinti, e non è bastato il colonialismo a far crollare certe credenze, che per farlo abbia bisogno del necessario e vitale sostegno e guida dei bianchi e della loro società. Purtroppo poi, come accade spesso anche con le donne, l’immagine creata è inferiorizzante. Il bambino nero, la donna, il disabile, diventano oggetti che, in quanto tali, devono essere aiutati. E, in egual misura e come uno specchio deformante, oggettivizzando, possono essere usati, posseduti, manipolati; diventano altro rispetto a chi li definisce. A definirli è quasi sempre l’uomo bianco caucasico, eterosessuale e abile. Sono gli esseri umani dalla pelle bianca, nella maggior parte dei casi, a decidere se una frase, un comportamento, un fatto siano razzisti o meno. Il che non mi sembra una garanzia di veridicità. Ma andiamo avanti. L’immagine incriminata, quindi, a chi può giovare? Non agli/alle studenti non italiani per la maggior parte nati e cresciuti in Italia; non ai/alle neoarrivati/e che di certo non hanno bisogno di nuovi spunti per descrivere la loro non abilità linguistica; ma neanche al/alla bambino/a cittadino/a italiano/a per nascita. La vignetta, pregiudizievole, produrrà probabilmente nella sua mente l’idea di una migrazione monolitica, dei/delle neri/e che non sanno l’italiano, ma che desiderano tanto essere tali e quali a tutti noi (a chi poi, nel mondo delle identità plurime?). Tutte queste belle parole e riflessioni non sono mie o meglio, lo sono diventate. Le risposte migliori a domande e dubbi sorti in questi giorni le sto avendo proprio da italiani e italiane di nuova generazione, intellettuali, attivisti/e. Come Djarah Kan, scrittrice napoletana di origine ghanese, che scrive sul suo profilo facebook: “Potevano inventarsi la storia di una bambina che arriva con le trecce a scuola e che fa amicizia con gli altri bambini perché condivide con loro gli stessi giochi, le stesse fantasie, la stessa voglia di fare amicizia e di non restare sola. E invece ancora una volta la pelle, le treccine, l’essere diverso, diventa tutto quello che in quanto non bianchi, possiamo esprimere e viverci addosso.”. O Igiaba Scego, scrittrice italo-romana-somala che cerca di scacciare la sterile polemica solo sui social e lancia l’idea di “una rivoluzione copernicana” che porti alla creazione e diffusione di migliori libri di testo per la scuola. Ma che c’è di male, allora? Nulla. C’è di bene che quel bambino e quella bambina l’italiano lo parlano e anche molto bene. Ascoltiamoli.
Articolo di Sara Rossetti

Sara Rossetti ha conseguito un dottorato in Storia politica e sociale occupandosi di migrazioni femminili nel Novecento e un master in didattica dell’italiano a stranieri. È coautrice di “Kotha. Donne bangladesi nella Roma che cambia” (Ediesse, Roma, 2018). Si occupa di intercultura, migrazioni passate e presenti, didattica dell’italiano a stranieri, questioni di genere e opera come formatrice su questi temi. Lavora inoltre come insegnante.