1. Mi chiamo Giulia e ho cinque anni, anche se quando lo dico non ci crede mai nessuno. Il fatto è che sono piccola per la mia età, bassa e smilza come una margherita in un campo di papaveri. Eppure mangio cose molto nutrienti – rigorosamente biologiche – d’estate vado in montagna a respirare l’aria buona e una volta alla settimana mi portano in piscina perché il nuoto, si sa, è lo sport migliore per crescere forti e sani. La mamma si preoccupa molto per me. Quando viene a prendermi a scuola, prima di baciarmi come fanno subito tutti gli altri genitori, controlla scrupolosamente che io non abbia botte o graffi o morsi o altri segni sul corpo. Se tutto è ok, allora si china ad abbracciarmi. A volte penso che tutto questo c’entri col fatto che non cresco. La mia mamma controlla tutto, organizza la mia vita nei minimi dettagli. All’inizio di ogni anno consegna alle maestre una lunga lista di cose che posso o non posso fare e a casa, nella mia stanza, c’è ancora l’interfono che ci hanno regalato quando sono nata. È sempre acceso ed è collegato con la cucina, così la mamma può sentire in ogni momento che cosa sto facendo. Insomma, come si fa a crescere se non ti lasciano lo spazio per farlo?
2. Oggi sono molto triste. Sono stata spostata nella classe gialla, quella dei bambini di quattro anni. Inutile dire che anche qui sono la più piccola di statura, ma io di anni ne ho cinque, accidenti! Il fatto è che nella mia ex classe verde, quella dei grandi, ieri è arrivato un bambino nuovo. Un certo Marian. E appena la mia mamma lo ha saputo, il suo livello di allarme è salito da 6.0 a 8.9, con conseguente richiesta alle maestre di togliermi immediatamente dal gruppo. La mamma ha una sua personale scala di gestione delle emergenze. Il livello nove è riservato alla febbre sopra i 39.6 gradi, mentre il dieci è scattato soltanto una volta, quando un’ape mi ha punto sulla lingua e io sono quasi morta soffocata. Marian non è italiano. Ed è un maschio, anche se il nome sembra quello di una femmina. In effetti nessuno lo chiama mai Marian. So che quello è il suo nome solo perché l’ho letto sul suo armadietto. Ma i miei ex compagni della classe dei cinque anni sono più inclini a chiamarlo Romeno, oppure zingaro o con altre parole che non capisco, ma che sospetto non piacerebbero affatto alla mia mamma. Lui non sembra curarsene troppo, per la verità. In questo un pochino ci somigliamo: anche a me chiamano tutti Giulietta per via della mia statura, ma la cosa non mi fa né caldo né freddo. Anzi, il più delle volte riesco anche ad entrare al cinema senza pagare il biglietto.
3. Ieri Luca non trovava più il suo cappellino da sole. Tutti noi, con la bella stagione, portiamo bandane, foulard, cappelli, creme solari a scuola perché in cortile il caldo è soffocante. Non ci sono alberi, solo erba secca e giochi. Quelli sì che sono proprio belli. Ma spesso, nel pomeriggio, diventano incandescenti e sotto la tettoia non gira l’aria e si fa fatica a respirare. I grandi dicono che ci hanno provato, anni fa, a piantare degli alberi, ma il terreno non è adatto e sono morti tutti. Così, se sparisce un cappellino, la faccenda è grave. Luca diceva di aver lasciato il suo nell’armadietto, ma lì dentro non c’era più. Ha guardato persino la bidella Piera senza successo. Il nostro è l’asilo più bello della città, quello della zona ricca, dove tutti i bambini sono vestiti bene e le mamme arrivano ancora profumate e perfettamente pettinate a prendere i figli a fine giornata. Da noi non succedono cose come cappellini che spariscono o faccende del genere. Nessuno ha bisogno di prendere le cose degli altri. Se abbiamo un qualunque desiderio, ci basta chiedere ai nostri genitori e il giorno dopo è diventato realtà. Ma il cappellino di Luca, ieri, proprio non è saltato fuori. La sera ho sentito la mamma parlare al cellulare con la rappresentante di classe e dire: «Che cosa ti aspettavi? È arrivato quel Romeno e cominciano i problemi!». Ma cosa se ne farebbe mai Marian di un cappellino da sole? Lui ha una chioma folta e nera che gli protegge la testa e gli copre la fronte e una bella pelle scura che sembra sempre abbronzata. Il sole non gli dà proprio alcun fastidio. Ho provato a spiegarlo anche alla mamma e lei mi ha risposto che forse quella che io chiamo abbronzatura, in realtà, è solo sporcizia. Poi mi ha controllato la testa per essere certa che non avessi preso i pidocchi e ha scritto una nuova lista da dare alle maestre di cose che non posso fare. Non posso avvicinarmi a Marian, né parlare con lui. Devo stare ad una distanza di almeno cinque metri. Anzi, facciamo sei ha scritto la mamma per sicurezza.
4. Appena posso, guardo con la coda dell’occhio che cosa fanno i bambini della classe verde. Come vorrei essere ancora lì, con i miei compagni grandi, invece che qui ad annoiarmi a morte! Oggi, mentre sbirciavo verso i miei ex compagni, ho visto Roberta, Elisa e Maddalena che giocavano con la casa delle bambole. Facevano finta di essere mamme e si scambiavano consigli su come far crescere sani e belli i loro bambolotti. Quando Marian si è avvicinato per prendere la valigetta del dottore, Elisa ha stretto al petto la sua bambola e gli ha detto di andarsene perché «lo sanno tutti che gli zingari rapiscono i bambini». Marian ha preso la sua valigetta e si è allontanato con calma. Gioca sempre da solo, nessuno vuole essergli amico. A volte, quando ci penso, mi sento triste per lui. Altre volte, invece, vorrei essere al suo posto. Qui nella classe gialla, le bambine di quattro anni vogliono essere tutte mie amiche perché io sono la più grande (almeno di età), così non ho mai tempo per stare un po’ da sola o per fare quello che piace fare a noi bambine di cinque anni. Come, per esempio, mangiarmi le unghie.
5. A scuola gira lo streptococco del gruppo B. La mamma mi ha subito imposto la mascherina e mi ha messo nella tasca del grembiule una boccetta di Amuchina in gel. Le maestre hanno l’obbligo tassativo di ricordarmi ogni mezz’ora di disinfettarmi le mani e di controllare che tolga la mascherina solo lo stretto necessario (vale a dire per mangiare e per soffiarmi il naso al bisogno). Marian mi ha guardata incuriosito quando sono entrata a scuola conciata come una malata terminale. La mamma se n’è accorta e si è subito messa davanti a me, in modo da coprirmi allo sguardo di “quel Romeno”.
6. Mentre ero in bagno a lavarmi le mani, le maestre si sono accorte con un attimo di ritardo che in quel momento, al lavello accanto, c’era Marian. Prima che la bidella mi portasse via dal contatto ravvicinato con “quel Romeno”, lui mi ha infilato qualcosa nella tasca. È stato bravissimo perché nessuno si è accorto di niente. E poi, nonostante la tasca fosse occupata quasi del tutto dalla boccetta di Amuchina, è riuscito comunque a trovare un angolino per metterci un biglietto. Un disegno, per la precisione. Anzi due. Da un lato del foglio c’è una bambina con un cerchietto rosa che tiene in mano una specie di cucchiaio. Dall’altra parte, lo stesso personaggio scava una buca nel mezzo del giardino della scuola. La bambina sono sicuramente io. Sono la sola a indossare sempre un cerchietto rosa molto largo e imbottito, impossibile da non notare. La mamma dice che me lo ha comperato perché mi fa sembrare più grande, ma io so che in realtà spera che possa proteggermi la testa da qualche possibile incidente. Se fosse per lei, dovrei venire a scuola con un casco da astronauta.
7. Ho trovato un altro disegno nel mio armadietto questa mattina. C’era sopra una figura stilizzata, con la pelle scura, che gettava qualcosa, forse un sassolino, in un buco in mezzo al giardino della scuola. Sul retro del foglio, un bambino e una bambina si tenevano per mano sotto un grande albero. Sospetto che quei due siamo io e Marian. E che il sassolino sia in realtà un seme di qualche pianta tipica della Romania.
8. Oggi ho nascosto nel grembiule un cucchiaino di metallo. L’ho preso di nascosto dal cassetto della cucina. È la prima volta che faccio qualcosa senza dirlo alla mamma, ma non mi sembra molto grave, dato che il cucchiaino tornerà al suo posto questa sera. Dopo pranzo, durante l’intervallo, ho scavato un buco piccolissimo nel mezzo del giardino. Stavo quasi per farla franca, quando la maestra della classe gialla mi ha notata e si è messa a gridare per tutto il cortile: «Giulietta, cosa fai con la terra? Lo sai benissimo che la tua mamma non vuole che ci giochi. Potresti prendere il tetano. Vai subito a lavarti le mani!». Così ho capito una cosa: anche se sono molto più bassa di lui, io non sono brava come Marian a non farmi notare. Quando sono tornata in giardino ho visto che il minuscolo buco era già stato chiuso. Chissà se un seme romeno è capace di far crescere un albero italiano? Marian mi ha strizzato l’occhio da lontano. Io gli ho risposto con un piccolo cenno della testa. Non posso strizzare gli occhi, perché se lo faccio le maestre hanno l’obbligo di controllare che non vi sia finito dentro qualche granello di sabbia o altro.
9. Quando usciamo a giocare in giardino, non possiamo portare niente con noi. Il cucchiaino con cui avevo scavato il buco era stato un vero e proprio atto di trasgressione. Così Marian è andato in bagno, si è riempito la bocca di acqua e quando siamo andati in giardino l’ha svuotata proprio sopra il nostro piccolo buco ricoperto. Le maestre non l’hanno visto, ma la mia amica Claudia sì e l’ho sentita dire alla bidella che «il Romeno sputa per terra!». Piera ha risposto, scuotendo la testa, che per quel bambino non c’è speranza, perché viene da un paese di selvaggi. Così mi sono inventata io un modo più educato per bagnare il nostro seme. Quando vado a lavarmi le mani, mi inzuppo la parte finale di una delle maniche e poi la strizzo in giardino, sopra il minuscolo buco ricoperto. «Che pasticciona la nostra Giulietta!» mi dicono le maestre quando se ne accorgono. E di solito mi danno anche una carezza sulla testa.
10. Domani finisce la scuola. A settembre andrò alle elementari e tutto sarà diverso. La mia mamma ci ha impiegato un anno, ma alla fine ha scoperto come è stato possibile che un “mezzo zingaro” frequentasse l’asilo più bello e ricco della città. La mamma di Marian fa la badante. Si prende cura della vecchia signora che abita nella villa d’angolo tra la piazza della gelateria e il parco giochi. Marian e la mamma abitano lì. Hanno una stanza e un bagno tutti per loro. Il papà non c’è. Forse è morto, o magari non ce l’ha e basta. «Quelle donne lì si sa come sono: fanno i figli con il primo che passa!» ha commentato la mia mamma con una maestra della classe verde. Io il papà ce l’ho, ma non lo vedo molto spesso. È sempre in viaggio per lavoro. Ha visto quasi tutto il mondo. Mai insieme a me, però. E in Romania, per esempio, non c’è nemmeno mai stato.
11. Mi chiamo Alice e ho tre anni. Oggi è stato il mio primo giorno di scuola dell’infanzia. È un ambiente molto allegro e colorato, il più bello della città. Nella mia classe siamo in ventotto e nessuno è uguale all’altro. Ci sono bambini con la pelle gialla, marroncina, olivastra, color cioccolato fondente, bianca. Siamo nati tutti in Italia, ma tra noi non ci somigliamo per niente. A parte, forse, per l’altezza. Siamo tutti più bassi delle finestre ma più alti dei tavolini. La mia mamma, che si chiama Giulia, mi ha accompagnata fino in classe e mi ha salutata con un bacio. Quando è tornata a prendermi, nel pomeriggio, ha notato subito che avevo un cerotto sul ginocchio (dovrò mettere i pantaloni lunghi, nei prossimi giorni, perché se mia nonna se ne accorge rischia di farsi venire l’infarto). Ho spiegato alla mamma che mi sono sbucciata inciampando nella radice di un grande albero che fa ombra su tutto il giardino. E lei, invece di arrabbiarsi o preoccuparsi, si è messa a ridere forte.
Articolo di Chiara Baldini

Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.