È il 14 settembre 1960, siamo in Francia, a Orléans. Si stanno svolgendo le prove per uno spettacolo che l’orchestra del 76° battaglione dell’esercito Usa, di stanza in quella città, sta preparando.
Miracolosamente qualcuno, in possesso di un registratore, lo accende e, altrettanto miracolosamente, registra due brani: Tenderly e Leap frog, tutto sommato suonati dignitosamente trattandosi di una banda militare, anche se la tromba solista incespica e il batterista non è proprio un portento quanto a leggerezza swingante. Ma passione e impegno non mancano.
Nella sezione dei sax c’è un giovanotto che suona il tenore con una voce particolarmente ruvida e non del tutto in linea con l’ortodossia: il suo nome è Albert Ayler.
Albert Ayler nasce a Cleveland, nell’Ohio, il 13 luglio 1936; ancora bambino il padre Edward gli insegna i rudimenti del sassofono fino a renderlo in grado di suonare spesso con lui durante le funzioni religiose; studia poi all’Accademia di musica di Cleveland, guadagnandosi il soprannome di “Little Bird”, con riferimento al nomignolo di Charlie Parker.
A sedici anni entra nel gruppo dell’armonicista e cantante blues Little Walter, col quale resta due anni; dopo il diploma entra nell’esercito dove suona stabilmente nella banda del reggimento cui viene assegnato e che viene dislocato in Francia.
Una volta congedato, cerca di trovare, senza alcun successo, qualche ingaggio come musicista a Cleveland. Ayler non trova spazio in patria, forse ancora meno di altri musicisti che stanno costruendo faticosamente l’estetica di quell’avventura musicale chiamata “free jazz”. Decide allora di tentare la strada dell’Europa.
E così la prima testimonianza di una sua esibizione “professionale” viene registrata negli studi di una radio di Helsinki, in Finlandia: tre standard, conosciutissimi, tra i quali Summertime di Gershwin; la sua voce è già inconfondibile, con quel vibrato estremamente dilatato, la sonorità corposa ai limiti – spesso oltre i limiti – dello sguaiato, la tendenza a ignorare in modo estremo la struttura armonica e ritmica dei brani e quel lanciarsi verso il cielo con ruvide sequenze di lancinanti sovracuti accompagnati anche visivamente dal protendere viso e strumento in alto. Nella registrazione, datata 19 giugno 1962, tutte queste componenti appaiono accentuate dal linguaggio, rigorosamente agganciato alla “tradizione” jazzistica, degli altri musicisti presenti, a cominciare dal chitarrista Herbert Katz, nominalmente titolare del quintetto, e dal pianista locale Teuvo Suojarvi.
La minuscola etichetta svedese Bird Notes ha il merito di pubblicare il primo album a suo nome: Something different!!!!! (reintitolato in seguito The first recordings), registrato dal vivo a Stoccolma il 25 ottobre 1962 con musicisti del luogo, il bassista Torbjorn Hultcranz e il batterista Rune Spangberg; l’assenza del piano ne favorisce la libertà espressiva, anche se i tre si cimentano esclusivamente in brani di repertorio.
E così sarà, con rarissime eccezioni, per tutto il periodo di permanenza di Albert Ayler nel nord Europa, che si protrae anche l’anno successivo; resta traccia di una apparizione televisiva in Danimarca nella quale appare inserito nel gruppo del pianista – questo davvero in grado di gareggiare con lui nello scardinare tutte le regole e le convenzioni – Cecil Taylor.
Lo ritroviamo nel 1964 a New York, dove, il 24 febbraio, registra quattro brani di sua composizione che saranno pubblicati dalla Debut, l’etichetta indipendente fondata da Charlie Mingus e Max Roach; inizia qui il suo sodalizio con Sunny Murray, musicista dalla tecnica limitata ma dalla prodigiosa capacità espressiva in un ambito nel quale al suo strumento non sono richiesti ritmi regolari o figurazioni spettacolari, ma un approccio basato sull’efficacia delle dinamiche e sulla capacità di interagire alla pari con gli altri strumenti.
Poco tempo dopo il gruppo di Ayler si stabilizza in forma di trio, col formidabile Gary Peacock al contrabbasso: si racconta che Peacock rifiutò l’offerta di Miles Davis di entrare nel suo celebre quintetto, rinunciando a una carriera di grande visibilità e sicuramente remunerativa per seguire un musicista che lo affascinava ma che poteva offrire poche occasioni di lavoro, spesso mal pagate e con un pubblico ristretto; negli anni a venire, Peacock, scomparso il 4 settembre scorso, conoscerà grande notorietà come membro stabile del trio del pianista Keith Jarrett.
Il trio di Ayler registra il 10 luglio dello stesso anno quello che è forse il suo disco più famoso, Spiritual Unity: Ghosts; il brano che apre il disco, una melodia apparentemente semplice e iterativa, diventerà il suo “marchio di fabbrica” e verrà riproposto in varie versioni in studio e in moltissimi concerti, un po’ come My favorite things per John Coltrane.

Lo stesso trio, cui si aggiunge il trombettista Don Cherry, riparte per un nuovo tour europeo, del quale restano diverse testimonianze raccolte in una manciata di dischi tratti da concerti, trasmissioni radio e da una seduta di registrazione a Copenaghen, il 14 settembre 1964, pubblicata ancora dalla Debutcol titolo Vibrations.

Tornato a New York, Ayler ricomincia una vita faticosa, data la carenza di interesse da parte del pubblico per la sua proposta musicale e la saltuarietà degli ingaggi; forma comunque un gruppo a organico più allargato – in genere un quintetto/sestetto – e variabile: i musicisti la cui presenza è più stabile sono il fratello trombettista Donald (ma in qualche occasione ancora Don Cherry), il sassofonista Charles Tyler, i bassisti Lewis Worrell, Henry Grimes, Gary Peacock, Bill Folwell e Alan Silva, i batteristi Sunny Murray, Ronald Shannon Jackson, Beaver Harris e Milford Graves; curiosamente, utilizza strumenti in genere poco usati in ambito jazzistico, come il violoncello (Joel Freedman), il violino (Michel Sampson) e il clavicembalo (Call Cobbs).
Con il fratello, con Sampson, Folwell e Harris intraprende nel 1966 un terzo tour in Europa, dove la sua musica è più conosciuta e apprezzata che in patria, e ha occasione di partecipare ad alcuni Festival di grande prestigio come quelli di Berlino e Parigi.

Nel frattempo John Coltrane è riuscito a fargli ottenere un contratto con l’etichetta per la quale incide, la Impulse, con la quale Ayler pubblica alcuni dei suoi dischi più noti e celebrati: Albert Ayler in Greenwich Village, con sontuose e vibranti registrazioni dal vivo tra il dicembre 1966 e il febbraio 1967 e Love Cry, registrato in studio il 31 agosto 1967 e il 13 febbraio 1968: questo secondo album sembra portare la musica su territori in qualche misura più commerciali, anche se il termine va letto, ovviamente, relativizzandolo; è in ogni caso un lavoro di grande bellezza e resterà quello più noto e più apprezzato anche da un pubblico abbastanza vasto, sempre in termini relativi.

Non si sa esattamente se per scelta sua o per pressioni dell’etichetta discografica, nei dischi successivi Ayler cerca una improbabile sintesi tra la sua libertà “totale” e alcune forme di musica leggera: compaiono – oltre alla nuova fidanzata Mary “Maria” Parks come vocalist, e alcuni accompagnatori di ambito “free”, come il fin troppo “liquido” pianista Bobby Few – musicisti legati al rhytm & blues e perfino al rock, tra i quali Henry Vestine, già membro del gruppo rock Canned Heat; questi album, registrati tra il settembre 1968 e l’agosto 1969, lasciano francamente perplessi e appaiono, in molti casi, privi di coesione ma, soprattutto, della furia iconoclasta e trasgressiva che aveva contraddistinto il periodo maggiormente creativo del musicista.
Albert Ayler sparisce dalle scene per circa un anno, per riapparire in Francia, a Saint Paul de Vence, località a nord di Nizza, invitato dalla Fondation Maeght per alcuni concerti; si presenta insieme alla fidanzata che, oltre a cantare, imbocca anche un sax soprano (absit iniuria verbis…) e a una ritmica volenterosa ma inesperta costituita da due giovani sconosciuti, Steve Tintweiss al contrabbasso e Allen Blairman alla batteria.
Le registrazioni che ci sono pervenute, anche se caratterizzate da una evidente discontinuità tra sequenze davvero notevoli ed emozionanti e altre francamente imbarazzanti, vedono Ayler recuperare il suo spirito libero e riappropriarsi del repertorio più “suo”, riproposto nei due lunghi concerti del 25 e 27 luglio 1970.
È il canto del cigno: una session informale, in un villaggio vacanze sempre a Saint Paul de Vance, viene tenuta il giorno successivo i concerti e anche stavolta fortunosamente registrata: la voce del sax di Albert Ayler sembra particolarmente dolente ed evocativa e in alcune sequenze ritrova, per l’ultima volta, la potenza del suo grido levato al cielo.
Albert Ayler scompare il 5 novembre del 1970; il suo cadavere viene rinvenuto nelle acque del fiume East River di New York venti giorni dopo. La causa della morte viene imputata a presunto suicidio, ma non sono pochi pareri a ritenere, ancora oggi, che la verità sia un’altra. Mary Parks ha dichiarato che negli ultimi tempi Ayler aveva espresso propositi suicidi e che in un accesso d’ira era arrivato a scagliare il suo sassofono contro il televisore di casa.
Qualunque sia la verità, con lui si è spenta la voce di un musicista unico e irripetibile, quanto incompreso.
Di lui è stato detto dal critico musicale John Litweiler che «mai in precedenza e mai più da allora, ci fu una così cruda aggressione al jazz». D’altra parte, lo stesso Ayler aveva dichiarato che «Jazz is Jim Crow» (dal nome delle leggi che negli Stati Uniti sancirono la segregazione razziale): non c’è di che stupirsi, dunque.
Ayler, nella sua maturità, utilizzava materiali comprendenti inni nazionali, motivi popolari europei, marce militari, dando ai suoi brani titoli con forti riferimenti religiosi e mistici: Spirits, Prophecy, Saints, Holy Spirit, Our prayer.

Amava dire che, tra gli esponenti dal sax tenore, John Coltrane era il “padre”, Pharoah Sanders il “figlio” e lui lo “spirito santo”. Solo una volta si incontrarono tutti e tre insieme su un palcoscenico, il 19 febbraio 1966, alla “Philarmonic Hall” del Lincoln Center di New York: si sa dell’esistenza di una registrazione del concerto, a tutt’oggi però mai pubblicata.
Nel suo celebre Das jazzbuch, pubblicato nel 1968, così scrisse di lui Joachim Berendt: «Un musicista come Albert Ayler trapianta la musica da circo e la musica campagnola, le semplici melodie della musica di intrattenimento e gli allegri motivi della musica da ballo della fine del secolo – inequivocabilmente motivi dei “bei vecchi tempi” in cui ci si sentiva sicuri – nelle sue improvvisazioni libere, atonali, estatiche».
È importante ricondurre queste peculiarità espressive alla situazione della comunità afroamericana di quegli anni negli Usa; interessante quanto disse Steve Young, il coordinatore musicale della Black Arts Repertory Theatre–School, all’epoca diretta dal poeta Leroi Jones: «Noi amiamo questi musicisti, i meravigliosi lottatori o stregoni o uomini Ju-Ju, […] i maghi dell’anima. Quando essi suonano, è come se evocassero gli spiriti delle anime e le immaginazioni. Se dentro di te non sei preparato a questi paesi del dada surrealistico alla Harlem, al South Philadelphia o alle notti nere della Georgia e agli attacchi notturni Mau-Mau, alle ombre scure sui dischi volanti e alla musica delle sfere, non potrai sopravvivere all’esperienza di ascoltare John Coltrane, Archie Shepp o Albert Ayler. Questi uomini sono pericolosi, e un bel giorno potranno uccidere inducendo i cuori deboli e le coscienze corrotte a buttarsi dalla finestra o a correre gridando attraverso il loro mondo di sogni distrutto. […] Questa musica contiene dolore e ira e speranza, la visione di un mondo migliore di quello attuale».

La discografia completa di Albert Ayler può essere consultata a questo indirizzo: https://www.jazzdisco.org/albert-ayler/discography/#600914.
In rete all’indirizzo https://www.bilibili.com/video/av26627589/ è possibile visionare un documentario, prevalentemente in lingua inglese con sottotitoli in danese, dal titolo My name is Albert Ayler, che comprende gran parte delle rarissime sequenze video della sua musica.
In copertina: Albert Ayler a Saint Paul de Vence, luglio 1970
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Articolo di Roberto Del Piano
Bassista (elettrico) di estrazione jazz da sempre incapace di seguire le regole. Col passare degli anni questo tratto caratteriale tende progressivamente ad accentuarsi, chi vorrà avere a che fare con lui è bene sia avvertito.