Entrò quasi a tentoni, guidata dai lamenti e dalla scarsa luce della finestra. Ersilia era rimasta indietro: temeva la reazione di Alessandrina cui aveva chiesto di togliere da quei letti le sifilitiche. C’erano dieci brande, ammassate e in disordine; quattro parevano vuote: ma, a guardare meglio, ospitavano piccole creature che quasi sparivano sotto la coperta.
— Le loro madri? — chiese Alessandrina senza voltare la testa.
— Due morte; le altre fra i dementi — rispose Ersilia.
— Durante il giorno, che fanno i bambini?
— Stanno lì… come le donne.
Alessandrina strinse i pugni e avanzò. Lei sapeva che nessuna aveva ancora vent’anni: ma sembravano vecchie; la sifilide aveva stravolto i lineamenti, seccato la pelle, scavato il volto.
— Come ti chiami? — chiese alla più vicina.
— Quanti anni hai?
— Cosa ti è successo?
— L’uomo di mia madre… mi ha violentato… e mi ha fatto ammalare.
Alessandrina avanzò ancora. Occhi grandi, occhi spenti, occhi assenti: li sentiva ma non rispondeva. Nell’angolo in fondo, a destra, una bambina teneva in braccio un fagotto.
— Cos’hai lì?
— Mio figlio.
— Ma tu, quanti anni hai?
— Lui ha due settimane.
— Qual è il tuo nome?
Alessandrina si appoggiò al letto:
— Ci vediamo domani.
Poi si girò di scatto per tornare indietro, quando qualcosa la fece barcollare. Era uno zoccolo di legno:
— Vattene! Non mi piaci! Non mi piace il tuo cappello, la tua amica laggiù…
Ersilia non si era mossa, impietrita: bella, giovane, statuaria, riempiva l’apertura. Alessandrina la guardò: Andiamo! Piccola e tozza com’era, diventò all’improvviso imponente:
— Hai ragione; non possiamo lasciarle così. Accetto! Da domani iniziamo. Avvisa Bertarelli.
L’aria era calda, fuori. Ma dentro, in quel pianoterra di Via Lanzone, 15, si respirava. Alessandrina controllò il giardino: era in ordine; poi si girò:
— Bambina, ci siamo?
In quel momento la porta d’ingressò si aprì:
— Possiamo entrare? Ne ho portate sei.
Antonio Bertarelli era lì, con le giovani donne: tutte col grembiulone grigio e la testa fasciata.
— Avanti, avanti!
Una di loro aveva un bambino in braccio:
— Mi scusi, non sapevo dove lasciarlo. E le avevo promesso di venire.
Alessandrina prese il piccolo in braccio:
— Va bene, Laura… Benvenute! Adesso vi diremo cosa vi aspetta nelle prossime quattro settimane. Non lasceremo che torniate nella strada! Non lo permetteremo… Grazie professore!
Bambina prese la prima per mano e la fece sedere; le appoggiò una tela sulle ginocchia e le mise fra le mani un ago con un lungo filo azzurro.
— Sedetevi anche voi. Oggi inizieremo dagli orli alla biancheria.
Il bambino la guardava tranquillo e Laura si sedette con un sorriso appena accennato: aveva convinto lei le ragazze e ne era contenta.
Era passato quasi un anno: Alessandrina, di parola, l’indomani era tornata e le aveva parlato. Le altre inveivano contro di lei: ma Laura l’ascoltava. Non voleva che il bambino morisse, come gli altri; e si aggrappò a lei come alla madre che l’aveva dimenticata. La seguì come un cucciolo sperduto e fece quello che Alessandrina le chiese: cominciò a vivere. Non era ancora guarita: dalla sifilide non si guarisce mai. Ma poteva crescere il piccolo; magari avrebbe ancora vent’anni… chissà…. chi lo conosce il futuro! E il bambino era così tenero e buffo e suo….
Il giardino era pieno di luce: le due signore parlavano piano, chine sulle teste bendate, e lui dormiva, con le braccia alzate, senza una macchia sul viso.
Nevicava da due giorni e dove fosse il cielo, nessuno più lo sapeva. Alessandrina entrò affannata e scosse l’ombrello. Camminava sempre più a fatica e il corpo, ingrossando, le rispondeva sempre meno. Attraversò il laboratorio e guardò con tenerezza le ragazze e i loro grembiuloni grigi. Erano venti, adesso: e cambiavano di continuo. Qualcuna sarebbe tornata a vendersi; ma erano molte a lasciare la strada. E questo era più di quanto avessero sperato: ogni giovane donna, ogni ragazzina, ogni piccolo corpo che avesse ritrovato la sua dignità era una vittoria. Alessandrina era stata brava: tanto brava da essere chiamata da Osimo all’Umanitaria per dirigere la Scuola di Lavoro per disoccupati, e tanto avventata da accettare. Erano passati cinque anni dall’apertura del laboratorio, spazio dell’utopia e della speranza, e ancora tremava ai racconti di violenza, ai segni delle percosse, alle piaghe della sifilide sulla pelle.
Si sedette e tornò a guardarle: qualche ricciolo sfuggiva dalle cuffie, qualche risata rompeva il silenzio. Le avrebbe lasciate presto; ma sarebbe rimasta Bambina. Quello che una donna poteva fare, lei l’aveva fatto. Con la cura di una madre, la grinta d’un caporale, la tenacia paziente delle grandi occasioni.
Dov’era il fazzoletto? Non mi devono veder piangere… Dio, ma chi dà a questi uomini il diritto di pestarle, violarle, ridurle a bestioline tremanti? E loro stanno lì, a subire, a piangere, a sentirsi morire: ma stanno lì. Col lavoro, un domani, potranno andarsene; potranno dire di no.
Noi, oggi, possiamo farlo.
Alessandrina Ravizza (a sinistra in copertina)
Ersilia Majno (al centro, in copertina)
Bambina Venegoni (a destra, in copertina)
Antonio Bertarelli
Augusto Osimo
… e Laura, per tutte le giovani donne vittime di violenza.
Milano, 1901-1906
***
Articolo di Giuliana Nuvoli
Docente di Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Milano. Autrice di oltre duecento pubblicazioni, ha dato vita a Dante a teatro e al sito Dante e il cinema. Organizza attività culturali e di formazione presso il Centro nazionale di Studi Manzoniani e la Casa della Cultura. È attiva da sempre su temi di genere e di diritti.
Un racconto che mi ha fatto venire i brividi…Grazie, prof.ssa Nuvoli. Le mando un caro saluto (sono una docente che ha seguito qualche anno fa i suoi bellissimi corsi presso il Centro di studi manzoniano a Milano)
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