Sincronismi, metafore, stereotipi, benaltrismi

Il 25 novembre 2020, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, in Italia tre donne vennero ammazzate dai loro compagni e in Argentina morì per scompenso cardiaco un celebre calciatore sessantenne. Nello stesso giorno, in Italia, morirono moltissime altre persone per cause diverse, tra le quali 722 per conseguenze dell’infezione da coronavirus. Nei mesi di pandemia l’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa – la cosiddetta “copertura mediatica” – era sempre stata rivolta alle vittime della covid, con puntuali e capillari resoconti dell’andamento della pandemia nel nostro Paese e nel mondo, e dei provvedimenti per contrastarla presi dai vari governi, che alcuni hanno definito oppressivi, immotivati e dittatoriali; ma in quel giorno giornali, radio e televisioni parlarono quasi solo del calciatore, amato da un vasto pubblico soprattutto nel suo Paese di origine e a Napoli. La scomparsa dei temi della misoginia e della violenza maschile dalla comunicazione di massa, proprio nel giorno in cui avrebbe dovuto essere più attenta, ha determinato lo sconcerto e l’indignazione di un numero consistente di donne e di alcuni uomini, motivata, per la maggior parte, dalla condotta privata del calciatore, non sempre specchiata, e dalla “inconsistenza” dell’argomento sportivo rispetto a quella della violenza maschile. La questione, dunque, sembra riguardare lo squilibrio della suddetta copertura mediatica, ma ha finito per toccare altri punti, soprattutto sull’importanza dei temi.

Nei social media alcune persone hanno fatto notare che il calciatore, considerato straordinario nel suo lavoro e assurto a simbolo “popolare” per la sua origine umile e la vicinanza con i temi della sinistra e i popoli oppressi, era anche un essere umano con tutti i difetti e le debolezze relative, e qualcuno ha citato, a mo’ di esempio, che anche il sommo pittore seicentesco Michelangelo Merisi da Caravaggio era un omicida, morto in fuga dopo una condanna in contumacia. Si potrebbe aggiungere che anche un gran numero di altri uomini, considerati eccelsi nella loro arte, condussero una vita non esemplare: mi vengono in mente Louis Armstrong, di cui si dice fosse violento con sua moglie; Charles Mingus, che nell’autobiografia Peggio di un bastardo racconta di essere stato da giovane un lenone; Malcolm X, spacciatore convertitosi in carcere; Salvador Dalì, colluso con il regime franchista; Richard Wagner, antisemita e nazista ante litteram; Roman Polanski, stupratore; e tanti altri. Molte biografie di uomini illustri, se approfondite, rivelerebbero una vita privata discutibile quando non criminale. Ma tale argomento, anziché riequilibrare la discussione, ha sortito l’effetto della benzina sul fuoco in quanto il calcio non sarebbe un’attività altrettanto nobile della pittura: non sarebbe cioè “arte” ma “gioco”, peraltro divenuto business, al contempo frutto e causa di sottocultura.

Leonardo Dudeville, Partita di calcio, 1924

La protesta legittima ha dunque assunto, a mio avviso, sfumature di ambiguità per i piani diversi della discussione che hanno finito col confondersi: lo spazio negato a una informazione, l’eccesso di attenzione verso un’altra, le diverse considerazioni di valore. Questi punti, a mio avviso, andrebbero invece trattati separatamente.

La condotta di moltissimi media, quel 25 novembre, è stata oggettivamente deprecabile. Alcuni programmi delle principali reti televisive, dedicati alla cronaca e alla riflessione sul tema della violenza maschile, sono stati annullati; le prime pagine dei quotidiani sono state invase da foto, commenti, biografie e “coccodrilli” sul calciatore, e sulle scomposte reazioni di massa, peraltro gravissime in tempo di pandemia, di una grande quantità di persone che hanno manifestato in piazza il proprio lutto per la morte del loro idolo. Le donne uccise e il femminicidio non hanno trovato che spazi risicati, o nulla affatto, in un contesto di generale disinformazione e svalutazione del problema. Indignarsene e protestare è il minimo.

Ma se la rabbia è condivisibile, non altrettanto lo è lo stupore. Giornali e tv, nella nostra società, sono strumenti di comunicazione che appartengono a qualcuno – editori, società, cooperative, eccetera – e devono rispondere in termini economici agli investimenti fatti per tenerli in vita. Il loro successo dipende dal riscontro del pubblico: sono cioè merci che devono essere vendute. L’approvazione del pubblico è ricercata e orientata con i mezzi classici del marketing e della pubblicità ed è affidata ad agenzie, marketing manager, grafici e copywriter. L’idea che essi abbiano innanzitutto una funzione sociale, ovvero che debbano contribuire all’educazione pubblica e al cosiddetto “progresso”, è quantomeno ingenua e comunque immotivata. Se i vecchi giornali di partito avevano un ruolo ideologico, di elaborazione teorica e dunque pedagogica, tiravano comunque l’acqua al proprio mulino e miravano al raggiungimento o al consolidamento del potere. Nessun mezzo di comunicazione può essere neutro e finalizzato esclusivamente al “bene”, anche perché la definizione di tale bene è variabile. La comunicazione neutra è una contraddizione in termini.

Paul Smith, Il giorno prima che scoppiasse la guerra, 1939

In questo senso i media, dando enorme spazio alla morte del calciatore, hanno fatto il loro mestiere; un mestiere sporco, si dirà, e a ragione, perché la costruzione del potere mediatico è stata progettata per ammantare la carta stampata, il web, la televisione e la radio di un’aura di infallibilità super partes: «Se lo dice la tv, allora deve essere vero», pensa la famosa “casalinga di Voghera” (personaggio mediatico, inesistente ma utilissimo ai fini commerciali). Quindi da un lato moltissime persone hanno percepito che la morte dell’amato calciatore è una catastrofe ben peggiore dei femminicidi, dall’altro altre persone si sono indignate perché hanno ritenuto che i propri valori fossero stati offesi e sbeffeggiati. I media, invece, non hanno espresso alcun giudizio di valore ma solo il proprio tornaconto. Sottoscrivo l’opinione che ciò sia spaventoso e che in un Paese sano sarebbe addirittura criminale, ma nel nostro il profitto non è un reato. Chiedo scusa per la banalità retrograda, ma la questione, ancora una volta è politica.

Quanto sopra dovrebbe dimostrare che l’indignazione è doverosa ma lo stupore no, e secondo me lo stupore è stato spesso mascherato dall’altra questione: quella di valore. Molte persone che reputo sincere, oneste e brillanti hanno detto e scritto che il problema non è stato solo la cancellazione delle tematiche di genere dai palinsesti (che si chiamano così proprio per la facilità con cui i contenuti possono essere cancellati e sostituiti: ogni tanto l’etimologia aiuta a capire), ma soprattutto che la sostituzione sia avvenuta in favore di un tizio grasso che giocava a pallone. È partita una ricerca a tappeto che ha portato al reperimento e alla diffusione di notizie riguardanti la condotta deprecabile del calciatore, la sua violenza sulle donne, la sua tossicodipendenza e, dall’altra parte, l’amicizia con i principali esponenti della sinistra nel Novecento, la sua fede politica, la sua vicinanza al popolo, il valore liberatorio che il gioco del calcio ha sulle masse povere e diseredate. I social media sono stati inondati da articoli e interviste contraddittori, foto di tatuaggi di Che Guevara e video in cui il discusso personaggio picchiava una donna. Ma un argomento forte della protesta restava il “valore” del gioco del calcio: va bene che Caravaggio era scappato perché aveva ammazzato un tale, ma diamine, era Caravaggio! Ha prodotto opere immortali, il cui valore ancora oggi ha effetto pedagogico, didattico, artistico, estetico (e non so più quanti aggettivi, uno più discutibile dell’altro). Insomma, l’arte è una cosa, lo sport un’altra. L’arte è il sacro fondamento della nostra cultura, il calcio un prodotto della sottocultura (oltre che un business eccetera). Il calcio sarà pure popolare e genererà profitto e divertimento, ma nella vita c’è ben altro!

Thomas George Webster, Calcio, 1839

Ora devo permettermi alcune osservazione personali, che risulteranno banali ma per me sono preziose. Quando i miei figli e mia figlia avevano pochi giorni, poche settimane, mi hanno insegnato una cosa su cui non avevo mai riflettuto: i loro bisogni primari erano nutrirsi, idratarsi, liberarsi di orina e feci, proteggersi da caldo e freddo, dormire, e basta. In mancanza di una qualunque di tali azioni sarebbero morti. I sorrisi e il gioco arrivarono dopo, ma comunque sarebbero sopravvissuti anche senza. La sopravvivenza è un conto, la felicità un altro.

Un altro punto riguarda le origini dell’arte, come ho cercato di studiarle e di spiegarle il primo giorno di scuola alle prime classi di liceo scientifico in cui ho insegnato disegno e storia dell’arte. Homo Sapiens è l’unica specie animale in grado di compiere elaborazioni complesse: molti animali utilizzano utensili, ma solo noi facciamo utensili per fare utensili per fare utensili, eccetera, per fare qualcosa, e solo noi cuciniamo il cibo, il che ci ha dato diversi vantaggi. La moderna paleontologia ha dimostrato che la divisione sociale e di genere del lavoro è relativamente recente, e che le donne andavano a caccia e dipingevano le pareti delle caverne a scopo probabilmente magico, ovvero per ottenere qualcosa, come gli uomini. Ma queste pitture, questa magia, come nacquero e perché? Perché l’arte ha quasi sempre avuto uno scopo sacro? Perché abbiamo fatto un sacco di templi e chiese e altari per i sacrifici, veri o metaforici? Gli e le studenti rispondevano sempre con stereotipi imparati negli anni precedenti: per ingraziarci il favore degli dei. Quando chiedevo di tradurre in italiano tale fumoso concetto, ricadevano nello stereotipo o tacevano. Lentamente e con molte domande mirate, appariva un presumibile scenario preistorico: siamo alcune decine di migliaia di anni fa, non sappiamo niente del mondo che ci circonda, non possiamo intuire né prevedere né spiegare il motivo per cui, per esempio, piove. Possiamo solo osservare e tramandare le osservazioni. Una cosa l’abbiamo capita: che molti fenomeni sono ciclici e che le donne, a un certo punto della loro vita, perdono sangue; poi, dopo alcuni anni, smettono; nel periodo compreso tra la comparsa e la scomparsa del ciclo, le donne possono generare. Quindi la nascita è collegata al sangue. Ma la terra genera frutti senza sanguinare, però talvolta non produce nulla e noi moriamo di fame. E se il sangue glielo mettessimo noi? Forse diventerebbe più fertile! Ecco i sacrifici di sangue per fertilizzare la terra divenuta madre, i sacrifici metaforici del vino, color del sangue, versato allo stesso scopo, eccetera. Se andate a Creta, per esempio, e incontrate degli amici in campagna, vi offriranno certamente dell’ottima tzikoudià ma prima di bere, ancora oggi, ne verseranno un goccio per terra e lo stesso si aspetteranno da voi. Si dice “libare agli dei immortali”. Dalla mera sopravvivenza si è giunti alla metafora, dalla metafora all’arte: che altro non è, appunto, se non metafora. La metafora, come il sorriso, non garantisce la sopravvivenza, ma migliora la qualità della vita.

Poi è arrivato Giorgio Vasari che ci ha insegnato che l’Arte è solo quella con la A maiuscola e la nostra cultura, piegata all’idea rinascimentale che il passato, a parte Greci e Romani (le Greche e le Romane non contano, ovviamente…), è barbara e rozza spazzatura, ha stabilito che solo le nove Muse rappresentano l’Arte, il resto è gioco o volgare mestiere. Ma la visione moderna dell’arte, invece, quella emersa non soltanto da storici austeri ma soprattutto da storiche intelligenti colte e acute, ha fatto piazza pulita di tale arcaica considerazione: sono arte anche il ricamo, il merletto, la gastronomia, la performance, il graffito, il video; è arte tutto quello che non è connesso all’impellenza di mantenersi in vita ma che rende la vita meno disperata, più degna di essere vissuta. Bambine e bambini migliorano la propria vita col gioco, più tardi con l’erotismo, e sempre, per tutta la vita, noi abbiamo bisogno di qualcosa di inutile, immotivato e gratificante, che possiamo definire tranquillamente “arte”. Certo con questo nome i poteri culturali, religiosi e politici hanno chiamato forme di espressione vincolate ai propri modelli, che noi, a seconda delle epoche, abbiamo amato o disprezzato: statue crisoelefantine, affreschi, mausolei, cattedrali, realismo socialista, aeropittura, e alcuni personaggi hanno osato rappresentare il loro pensiero, più che la “realtà”, in modo poco comprensibile per l’epoca, o hanno preteso un ruolo a loro non riconosciuto. Ma, di base, l’arte è quella cosa non indispensabile che influenza il nostro stato d’animo e che, soprattutto, si fa col corpo: il solo pensiero non è arte, la sua rappresentazione sensibile sì.

Per questo ritengo che qualunque gioco non sia inferiore alle altre arti e che il valore di uno sportivo o di una sportiva “geniale” sia pari a quello di una pittrice, di una merlettaia o di un violinista. La condotta privata di un personaggio pubblico, però, influisce sulle persone, dunque la fama non può giustificare in alcun caso una condotta riprovevole. I media, svolgendo passivamente il ruolo che la società capitalista ha loro assegnato, hanno fatto malissimo a negare la doverosa comunicazione alla violenza contro le donne e, contemporaneamente, Diego Armando Maradona, sebbene uomo riprovevole, è stato un calciatore geniale.

In copertina: Thomas Marie Madawaska Hemy, Sunderland contro Aston Villa ,1895

***

Articolo di Mauro Zennaro

Mauro Zennaro, grafico, è stato insegnante di Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e altro in una blues band.

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