Dedicato a Agitu Ideo Gudeta e a tutte le vittime di femminicidio e di violenza.
«I cieli non sono umani,
ma c’è qualcosa forse più di questi cieli,
la compassione e
l’amore di cui mi sono ormai dimenticato
e che ho dimenticato»
Bohumil Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa
Matriarcato e potere delle donne visto dall’antropologia
È del 1606 il primo uso della parola Matriarca riferito a una sposa quale matriarca di un potente Marchesato, quindi in un testo del 1629 riferito a una eruditissima Monaca, ma è solo con Hobbes nel 1600 che si introduce il problema del potere delle donne. Il 1800 trova nel Oxford Dictionary la collocazione descrittiva di matriarcato «sistema sociale organizzato sull’autorità e il potere femminile analogamente a quello fondato sul potere maschile del patriarcato». Certamente una definizione ambigua, poiché le strutture del potere non sono limitate alla famiglia come nucleo primario di sangue: nella società romana il pater familias è il capo non dei figli, ma di tutti coloro che gli appartengono, donne, schiavi e figli, cioè il padre ha il potere in famiglia perché lo ha nella società.
Quando si allude al matriarcato, nel suo significato etnologico e antropologico, si intende descrivere «un sistema di organizzazione sociale in cui la madre, e non il padre, è il capo della famiglia, e in cui la discendenza e i legami familiari sono riconosciuti attraverso le madri e non attraverso i padri». Ed è qui che nasce il problema storico, su come si formi la società, su quali siano le istituzioni primarie e su come si svolga in esse il “potere”.
Per la società occidentale il potere è evidente in atti, in eventi che si distaccano dalla vita quotidiana, mentre in una società “primitiva” il potere è incluso nell’andamento diurno della vita: esso fa sì che la vita quotidiana si svolga sempre uguale a sé stessa.
Malinowski per analizzare il diritto e il costume nelle società primitive, per esempio, cercava di liberarsi dall’idea del rapporto necessario tra diritto e stato, tra legge e potere politico, tra sanzione e forza. La regolamentazione sociale non è affidata a un apparato giuridico di prevenzione e repressione: la sanzione delle norme è assicurata dalla riprovazione collettiva.
Nei riti che accompagnano l’iniziazione, dove si passa dal “dato” della vita naturale all’acquisto della consapevolezza culturale, un acquisto che può rappresentare la forma fondamentale di discriminazione del potere, un acquisto su cui si basa la differenza, la prima distinzione di classe, è quella del sesso. Il rito di iniziazione rappresenta una morte e una risurrezione: non si muore a una vita che non c’è, si muore alla vita che si rifiuta, quella del non-essere, quella della insipienza, quella minoritaria e vergognosa della effeminatezza (vd. donne e bambini). Il non-essere è una categoria fondata dall’uomo: le donne sono escluse dall’essere, quindi sono escluse dal possibile. O l’esclusione è dovuta a “impurità” della donna: tra l’essere incapace di iniziazione ed essere impura si può comprendere il circolo vizioso che ne scaturisca, per l’estromissione dalle istituzioni di potere. Allo stesso modo deve tenersi lontana dalla “casa degli uomini”, laddove si conservano trofei, crani di Antenati e nemici, oggetti rituali o strumenti di caccia, di pesca, di oggetti altrettanto investiti di sacralità e di potenza in quanto non-iniziata e in quanto mestruata.
Identità e violenza
«Né la violenza né il potere sono fenomeni naturali, cioè
manifestazioni di un processo vitale;
appartengono alla sfera politica delle cose umane,
la cui qualità essenziale è garantita dalla facoltà dell’individuo
di agire, dalla capacità di dare inizio a qualcosa di nuovo»
Hannah Arendt, Sulla Violenza
L’aggressività è presente in tutte le specie di vertebrati: si tratta di un comportamento che determina danno o distruzione di un altro organismo o di una popolazione. I comportamenti aggressivi permettono la formazione di gerarchie che stabilizzano i rapporti di potere all’interno di un gruppo: l’aggressione mortale avviene tramite minacce e riti, non danneggiano tutta la specie. Sono tre le categorie di aggressività: difensiva, predatoria e di dominanza. La prima viene anche definita aggressività affettiva e a livello cognitivo diminuisce la capacità critiche e aumenta l’impulsività. La seconda è tipica della caccia, predatoria. È una funzione definita strumentale e controllata; negli esseri umani, per esempio, la caccia si associa anche a sensazioni di piacere ed euforia. L’aggressività che si manifesta all’interno di un gruppo per la formazione delle gerarchie di dominanza è stata definita di dominanza: una competizione nella quale si esercita forza, astuzia, alleanze. Viene altresì chiamata intermaschile, poiché manifesta violenza e competizione anche tra maschi stessi. Le strutture cerebrali interessate da questa aggressività coinvolgono sia i circuiti aggressivi affettivi sia quelli dell’aggressività predatoria. Nel 1973 Fromm definisce questa aggressività maligna: coincide con la crudeltà e la distruttività, caratteristiche della specie umana, praticamente assenti nella maggior parte dei mammiferi. Nei bambini e nelle bambine tra i 2-4 anni c’è un periodo di maggiore aggressività fisica. La progressiva diminuzione avviene attraverso lo sviluppo del linguaggio (significati e valori culturali condivisi), lo sviluppo delle capacità cognitive e del ragionamento, insieme alla maturazione di consapevolezza, autocontrollo, compassione. Un altro picco di aggressività avviene tra giovani maschi 15-25 anni. La maggior parte degli omicidi è compiuta per un tipo di disturbo denominato antisociale.
«La violenza è un atto di presenza, un modo per essere visibile», scriveva il prof. Franco Ferrarotti.
La violenza più distruttiva negli esseri umani è quella che si instaura tra gruppi differenziati per ragioni linguistiche o culturali: la pseudospeciazione culturale assume la funzione decisiva nel conflitto distruttivo tra gruppi, fino a portare alla necrofilia. Amartya Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998, nel saggio scritto nel 2006 Identità e violenza esplicita con «una fonte di ricchezza e calore almeno quanto può esserlo di violenza e terrore» il concetto di identità, che è un concetto di plurale, poiché tante sono le affiliazioni e le collettività cui apparteniamo, ma nessuna di tali associazioni può essere considerata unica. Sen esorta a riconsiderare l’importanza della pluralità delle nostre identità: racchiudere le nostre esperienze di vita dentro identità uniche, equivale ad abbrutire e banalizzare la nostra stessa esistenza. L’imposizione di una sola appartenenza, dell’esistenza “dell’affiliazione unica”, sia che si tratti di una razza, di una civiltà o di una religione, ha storicamente causato inaudite violenze e settarismi belligeranti; è stata la negazione del ruolo svolto dalla scelta razionale che è, invece, proprio emanazione del pluralismo delle nostre identità: la nostra storia personale e la storia del gruppo a cui apparteniamo non rappresentano gli unici canali per spiegare e comprendere noi stessi. Le classificazioni che ci vorrebbero inquadrare esclusivamente sulla base di una religione o di una civiltà, magari spacciate per dominanti, negano questa pluralità del nostro essere uomini e donne oltre a trascurare anche la comune appartenenza al genere umano.

L’ideale di non-dominio, l’empatia
L’unico e più originale territorio di un popolo si situa a livello cerebrale e mentale.
Philip Pettit individua nell’ideale del non-dominio un bene che ha un valore intrinseco, in virtù di un «desiderio umano, profondo e universale, di rispetto [standing] e di dignità» e di una «disposizione sana e robusta a provare risentimento rispetto alle pretese di superiorità». Se le persone non si sentiranno dominate, apprezzeranno e difenderanno il non-dominio, fino a modificare alcuni tratti delle proprie identità: fino al tendere a virtù civiche quali l’emancipazione di tutti, avere luoghi di cura per i bambini, insegnare la storia complessa di una comunità stigmatizzata al fine di decostruire certi pregiudizi, informare lavoratori o immigrati dei loro diritti, anche in modo informale, occuparsi di donne sottoposte a violenza, occupare il proprio tempo libero dall’insegnamento per aiutare allievi in difficoltà e così via. Qual è la chiave per aprire questa porta del non-dominio?
L’erosione dell’empatia è una questione globale che riguarda la salute delle nostre comunità siano esse ristrette (come la famiglia) o siano ampie (come le nazioni). Le famiglie possono essere divise da fratelli che non si parlano più, da coppie che hanno sviluppato una odiosa reciproca sfiducia o da figli e genitori che interpretano male le intenzioni rispettive. Il nuovo Potere di cui parlare, cui dedicarci profondamente, è quello dell’empatia, del suo sviluppo, del suo accrescimento e impatto nella vita quotidiana di ognuno. L’empatia è come un solvente universale. Qualunque problema immerso nell’empatia diventa solubile: è una strada efficace per prevenire e risolvere i problemi interpersonali, dai conflitti coniugali, lavorativi, amicali, alle dispute con i vicini e vicine. È l’alternativa alle armi, alle discriminazioni, alle religioni, ai riti di esclusione e di dominanza. Infine è percorribile senza costi milionari.
Per una vita degna e piena, per sapere fare scelte di virtù, per le future generazioni e il consolidamento della leadership empatica, noi ti onoriamo, mater familias, Agitu.
In copertina: Agitu Ideo Gudeta e il suo messaggio «Vietato calpestare i sogni»
Bibliografia
Hrabal, B. 1968: Una solitudine troppo rumorosa, Torino 1968 p. 55
Magli, I. 1978: Matriarcato e potere delle donne, Milano 1978 pgg 12–15, 23
Malinowski, B. 1972: Diritto e costume nella società primitiva, (Crime and Custom in savage society, 1926), Roma, 1972, p.91
Arendt, H. 1970: Sulla violenza, Milano 1970
Fabbro, F. 2018: Identità culturale e violenza. Neuropsicologia delle lingue delle religioni, Torino, 2018, cap. 1, 9, 10, 13.
Fromm, E. 1977: Anatomia della distruttività umana, Milano 1977, pag.507-543
Baron-Cohen, S. 2011: La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà, Milano, 2011 cap.1, 4, 5, 6
Sen, A. 2006: Identità e violenza, Roma–Bari 2008, trad. Galimberti, pg 5-6, pg 22
Pettit, P. 1997: Republicanism, Oxford 1997, cap. 3
Eibl-Eibesfeldt, I. 1975: Etologia della Guerra, Torino 1999 pg 40
Flannery D., Vazsony A., Waldman I., 2007: The Cambridge Handbook of Violent Behaviour and Aggression, Cambridge, 2007
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Articolo di Isabella Chirico

Psicopedagogista in Educazione e Sviluppo e antropologa, ha coordinato progetti in questo settore per otto anni nella Cooperazione Internazionale, in particolare nel continente africano, in Angola. Docente e formatrice per l’educazione degli adulti, si occupa di adolescenza e mappe mentali, e mediazione culturale. È socia e riceve nello studio di Centro Percorsi Trento. È Presidente dell’Associazione Elissa APS. Ama la sua famiglia, l’allegria e l’arte.