La corsa è probabilmente l’esercizio sportivo più antico della storia, praticato sicuramente anche dalle donne fin dalle epoche più remote.

Nell’Egitto dei faraoni nasce la prima vera e propria attività sportiva femminile. Danze acrobatiche con capriole e piroette, dal carattere spesso religioso, e difficili giochi di equilibrio e di abilità con la palla eseguiti stando in piedi sulle spalle delle compagne, quali ritroviamo oggi negli spettacoli circensi (un misto di giocoleria, verticalismo e contorsionismo), erano i principali passatempi delle ragazze. Non si trattava quindi di uno sport a livello agonistico ma piuttosto un momento ludico, come lo era uno dei balli più amati dalle fanciulle, che agitavano le trecce a cui erano legate delle palline di stoffa. Alcuni dipinti tombali di Beni Hassan (foto di copertina) raffigurano giovani donne che eseguono esercizi di destrezza lanciando in aria alcune piccole sfere.
Nella maggior parte delle pòleis dell’antica Grecia le donne vivevano relegate tra le mura domestiche e badavano solo alle faccende di casa, del tutto escluse dalla vita pubblica e dalle attività politiche, culturali e sportive.
Va però precisato che già nei tempi più antichi si tenevano ogni quattro anni gli Heràia, i giochi Erei o Ereidi, così detti perché dedicati alla dea Era, moglie di Zeus. Essi rappresentano la prima competizione di atletica femminile che si svolgeva nello stadio di Olimpia, probabilmente nello stesso anno delle Olimpiadi, una sorta di Olimpiadi femminili dato che alle donne era severamente proibito partecipare ai veri e propri giochi olimpici inaugurati nel 776 a.C.

Pausania racconta che Ippodamia, moglie del re Pelope, costituì un gruppo conosciuto come “sedici donne”, una per ognuna delle sedici città dell’Elide, scelte tra le più anziane e meritevoli per dignità e fama, con l’incarico di porre fine alle controversie tra le città di Elis e di Pisa. Esse avevano il compito di organizzare i giochi e di tessere il peplo per Era.
I giochi, riservati alle ragazze, erano costituiti solo dalla corsa a piedi che si svolgeva su una pista che era i 5/6 della lunghezza della pista degli uomini, cioè 160,22 metri. Si svolgevano tre corse in base all’età delle partecipanti, dalle bambine alle adolescenti.

A differenza degli uomini che gareggiavano nudi, le donne correvano con una tunichetta corta poco sopra le ginocchia che lasciava scoperte le gambe, con la spalla destra nuda fino al petto e con i capelli sciolti, come mostra una statua attribuita allo scultore Prassitele, del I sec. a.C, conservata nei Musei Vaticani, corrispondente alla descrizione di Pausania. Le campionesse vincevano una corona di ulivo e una porzione di carne dell’animale sacrificato a Era (di solito una vacca o un bue) e potevano farsi dedicare statue con incisi i loro nomi o farsi dipingere le loro effigi sulle colonne del tempio di Era.

Il popolo greco nutriva un culto per la mitica Atalanta, la vergine cacciatrice imbattibile nella corsa finché non fu vinta da Ippomene, che ebbe in premio il diritto a sposarla. Per il resto lo sport femminile era tenuto in scarsa considerazione nella Grecia classica, con una sola vistosa eccezione.
Le donne spartane, le più sportive di tutto il mondo antico (e anche le più libere, visto che potevano uscire e passeggiare per le vie della città), partecipavano in prima persona alle attività ginniche e alle pubbliche competizioni. A Sparta era importantissimo per le donne praticare sport, fare ginnastica, curare il proprio corpo, avere un fisico perfetto e godere di ottima salute, condizioni indispensabili per mettere al mondo figli sani e robusti, che un giorno, divenuti gagliardi guerrieri, avrebbero fatto onore alla patria.
L’educazione fisica era una delle discipline più importanti, incoraggiata dallo stesso legislatore Licurgo, secondo quanto racconta Platone. La donna spartana fin da bambina praticava corsa, lancio del disco e del giavellotto, e perfino la lotta, e fino all’età di sedici anni si esercitava con gli stessi duri allenamenti ai quali erano sottoposti gli uomini anche per sopportare meglio un giorno i dolori del parto.

A Sparta vi erano ginnasi femminili dove le ragazze erano sottoposte ad una rigorosa preparazione atletica per poi cimentarsi in competizioni pubbliche dove si esibivano nelle proprie specialità. Come gara di riscaldamento si usava la bìbasis consistente nel saltare e toccarsi i glutei con i talloni. Vinceva chi riusciva a fare più salti. Di solito le atlete non erano sposate e gareggiavano nude (fino ai tredici anni) o con abitini corti. I ragazzi erano autorizzati a guardarle nella speranza di innamorarsene, sposarle e avere dei figli.
Si svolgevano gare femminili di corsa dal carattere religioso nell’ambito del culto di Dioniso, istituite da undici donne dette “dionisiadi”. Inoltre due donne, chiamate “leucippidi”, con riferimento alle mitiche figlie di Leucippo rapite da Castore e Polluce, tessevano ogni anno una tunica per Apollo Karneios.
Non fa quindi meraviglia (e non poteva essere diversamente) che sia proprio una spartana doc, Cinisca, nata verso il 440 a.C., figlia del re Archidamo II e sorella di due sovrani di Sparta, Agide II e Agesilao II, la prima donna della storia a vincere una gara alle Olimpiadi. Nel 396 a.C., ben 380 anni dopo le prime Olimpiadi, si aggiudica la corona di alloro gareggiando con la quadriga, ovvero la corsa del carro con quattro cavalli, una delle competizioni più importanti e prestigiose in assoluto.
Le donne, come gli schiavi e gli stranieri, sono rimaste escluse per secoli alla partecipazione ai giochi, riservati agli atleti maschi. Le sposate non potevano nemmeno assistere, pena la morte; era invece concesso alle bambine e alle ragazze, che però dovevano essere accompagnate dai loro padri. Lungo la strada per Olimpia si erge il monte Tipeo, dalla cui sommità le donne venivano gettate senza pietà nel fiume che scorre alle sue pendici se si scopriva che erano andate a vedere i giochi. Una sola fu colta sul fatto, Callipateira. Rimasta vedova, aveva allenato nel pugilato il figlio Pisidoro, lo aveva accompagnato a Olimpia e, presa dalla gioia nel vederlo vincitore, scavalcò il recinto riservato agli allenatori per corrergli incontro e abbracciarlo. Fu, tuttavia, graziata in quanto figlia del leggendario pugile Diagora di Rodi e sorella di atleti che avevano trionfato nel pugilato e nel pancrazio.
In seguito, fu concesso alle donne di partecipare solo alle corse dei carri per il semplice motivo che chi finanziava la squadra partecipante e chi allenava i cavalli poteva anche essere una donna, fermo restando che l’auriga alla guida del cocchio doveva essere un professionista di sesso maschile ingaggiato appositamente per la gara. Cinisca, in quanto principessa, era abbastanza ricca e anche esperta di equitazione per permettersi di finanziare la sua squadra. Si iscrisse così come organizzatrice e addestratrice dei cavalli all’edizione delle Olimpiadi del 396 e vinse la gara di corsa dei carri con quattro cavalli, il tethrippon.

Non era affatto una ragazza quando partecipò: sicuramente aveva già superato la quarantina, anzi quando vinse la seconda volta si avvicinava probabilmente al mezzo secolo e secondo alcune fonti non era sposata. Come riferisce Plutarco, il fratello di Cinisca, all’epoca re di Sparta, esortò la sorella a partecipare alle Olimpiadi perché voleva indirettamente dimostrare che per vincere ai giochi bastava avere a disposizione una grande ricchezza da investire. In ogni caso, dopo che Sparta era stata bandita dalle Olimpiadi dal 420 a.C. al 396 a.C., Cinisca partecipò proprio alla prima Olimpiade alla quale era stata riammessa la sua città.
Il nome della trionfatrice correva di bocca in bocca: nel tempio di Olimpia le furono dedicate due statue, realizzate dallo scultore Apelleas, una che raffigurava la stessa Cinisca e un’altra che rappresentava il carro, i cavalli e l’auriga. Un’iscrizione tuttora conservata indicava che Cinisca era l’unica donna fino ad allora ad aver vinto la corsa dei carri alle Olimpiadi. A Sparta fu eretto un tempio in suo onore, meritatissimo dal momento che lei vinse la stessa gara anche nelle Olimpiadi successive. Spesso in Grecia atleti particolarmente famosi dopo la loro morte erano venerati come eroi: Cinisca è, dunque, la prima donna ad essere eroizzata.
La sua carica agonistica fu di sprone per altre donne che si sentirono invogliate a correre con i carri per emulare la sua abilità. Trent’anni dopo di lei, nel 368 a.C., sempre alle Olimpiadi, un’altra spartana, la nobile e ricca Eurileonide, vinse la corsa dei carri a due cavalli. I concittadini le eressero una statua commemorativa, una delle poche statue di bronzo della Grecia classica ancora intatte al tempo di Pausania, l’autore del racconto, che visse circa cinque secoli dopo.
Alcuni decenni più tardi, in età ellenistica, alle Olimpiadi del 284 a.C. la regina macedone Berenice I, moglie di Tolomeo I, primo faraone dell’Egitto tolemaico, vince, terza donna nella storia, la corsa dei carri, stavolta a quattro cavalli. Nel 272 a.C. sua figlia Arsinoe, sovrana d’Egitto, si aggiudica addirittura tutte e tre le gare equestri nei giochi olimpici col carro sia a due che a quattro cavalli. È un periodo fortunato per le donne. Passano appena otto anni e nelle Olimpiadi del 264 a.C. Bilistiche, amante del re d’Egitto Tolomeo II, trionfa nelle corse dei carri a due e a quattro cavalli.
Nel I secolo d.C., nella Grecia sottomessa a Roma, troviamo le prime atlete partecipanti a gare esclusivamente sportive, che non hanno più nessuna connotazione religiosa. Memorabili sono le vittorie di tre sorelle: Tryphosa, Hedea e Dionysia, figlie di Hermesianax, alle quali vengono dedicate statue e offerta la cittadinanza ad honorem. Nelle gare panelleniche Pythia e Isthmia, la sorella maggiore Tryphosa vince nel 39 d.C. e nel 41 d.C., per poi imporsi di nuovo nei Pythia due anni dopo. Hedea si afferma negli Isthmia del 43 d.C., nella specialità della corsa armata sul carro a quattro cavalli e, successivamente, in altre gare. Dionysia gareggia nel 44 e nel 45 d.C., ad Epidauro, riportando vittorie che ne consacrano la fama.
A Roma le pratiche sportive sono molto diffuse fin dai tempi più antichi: tra esse le gare femminili di corsa hanno una particolare importanza. L’imperatore Domiziano, nell’86 d.C., ne inserisce una all’interno del Certamen Capitolinum istituito in onore di Giove nello stadio fatto costruire appositamente per ospitare una grande competizione di atletica, gare equestri e musicali. Un’iscrizione attesta la partecipazione di due ragazze nella specialità dello stadion (la gara più importante: una corsa veloce su un rettilineo di 192,28 metri) ai Sebastà di Napoli, grandiosi giochi isolimpici, nel 154 d.C. Ancora nel II sec. d.C. una donna vince la corsa doppia di 400 metri a Sparta. Infine in un’epoca più tarda, ma di incerta datazione, a Patrasso una giovane di nome Nikegora è onorata dal fratello per aver vinto nel dròmos delle fanciulle, probabilmente la corsa semplice.

Risale al IV secolo dopo Cristo una delle più importanti nonché rarissime testimonianze iconografiche di donne atlete nell’antichità: sono le nove bellissime fanciulle in forma smagliante e straordinariamente moderne che ammiriamo nel mosaico della sala delle Palestrite, uno degli ambienti della villa romana del Casale nei pressi di Piazza Armerina in Sicilia, famose in tutto il mondo per il capo che indossano, ritenuto il primo bikini della storia. Due ragazze giocano con la palla, una sembra impegnata nel lancio del disco, sport solitamente riservato agli uomini, mentre un’altra pare intenta a sollevare pesi.
Benché non siano da annoverare tra le pratiche sportive i ludi gladiatorii, va però ricordato che nella Roma di una volta ci sono le gladiatrici, per lo più schiave o popolane. Un bassorilievo rinvenuto ad Alicarnasso, datato fra il I e il II secolo d. C., immortala nella pietra due agguerrite contendenti dai nomi mitologici, Amazzone e Achillea, che si affrontano a seno nudo armate di scudo e spada corta, senza elmo né tunica.

Molti autori da Giovenale a Svetonio citano con sdegno la presenza delle donne che combattono nell’arena, una pratica sanguinosa, violenta e brutale che ai loro occhi appare scandalosa e aberrante per il gentil sesso. La Tabula Larinas, una tavoletta in bronzo, riporta il testo di un editto emanato sotto Tiberio, che vieta agli uomini e anche alle donne di partecipare ai giochi dei gladiatori qualora abbiano legami di parentela con senatori o cavalieri.
Con l’avvento del Cristianesimo l’attività ginnico-sportiva, considerata una pratica pagana, va incontro a un inesorabile declino fino a scomparire del tutto. Novaziano, un teologo vissuto nel III secolo, sentenzia: «I cristiani devono allontanare la vista e l’udito da questi spettacoli privi di contenuto, pericolosi e di cattivo gusto». Passeranno molti secoli prima che il barone Pierre de Coubertin, nel 1896, dia il via ad Atene alla prima Olimpiade moderna, alla quale, nel rigoroso rispetto della tradizione, è vietata la partecipazione alle donne, il cui ruolo, come scrive lo stesso ideatore, è unicamente quello di applaudire e incoronare i vincitori. Per tutta risposta una trentenne maratoneta greca, Stamati Revithi, si iscrive alla gara con lo pseudonimo di Melpomene: non venendo accettata, l’11 aprile 1896 corre da sola. Viene fermata prima del traguardo, ma il guanto di sfida contro chi discrimina le donne nello sport è lanciato. E nei successivi giochi Olimpici di Parigi del 1900 le donne saranno ufficialmente ammesse inaugurando con l’attività sportiva una delle stagioni più felici della loro emancipazione.
***
Articolo di Florindo Di Monaco

Docente di Lettere nei licei, poeta, storico, conferenziere, incentra tutta la sua opera sulla Donna, esplorando l’universo femminile nei suoi molteplici aspetti con saggi e raccolte di poesie. Tra i suoi ultimi lavori, il libro La storia è donna e le collane audiovisive di Storia universale dell’arte al femminile e di Storia universale della musica al femminile.