«Eravamo a New Orleans e abbiamo visitato la Preservation Hall per ascoltare “Sweet” Emma Barrett e la sua Preservation Hall Band, e cantava e suonava in modo straordinario. Era su una sedia a rotelle e poteva suonare solo con la mano destra, avendo tutta la parte sinistra paralizzata. Ma lei adorava suonare e sapeva davvero cantare! E portava il suo cappellino rosso preferito. Abbiamo comprato il suo disco quella sera, e lei, gentilmente, lo ha autografato e poi ha detto: “E questo è tutto quello che avrete da me”».
Questa è una testimonianza, anonima, che ho trovato a commento di un filmato di Emma Barrett su YouTube, testimonianza capace di esprimere il rapporto speciale di affetto e di stima che ha lungamente legato questa sfortunata ma tenace musicista di colore al suo pubblico.
E dire che praticamente tutti i “sacri testi” riguardanti il jazz di New Orleans la ignorano, a partire dai due volumi — peraltro splendidi — Il Jazz: il periodo classico, di Gunther Schuller (EDT 1996), per arrivare a quella sorta di “bibbia”, competente e completa — ma non per quanto riguarda lei — che è New Orleans Chicago New York — Retrospettiva sul jazz tradizionale alla ricerca di un patrimonio da salvare, di Giorgio Lombardi (De Rubeis 1993).

Emma Barrett nasce il 25 marzo 1897 in Louisiana, a New Orleans. Comincia a suonare il pianoforte a sette anni e a metà degli anni Venti è già così abile da venire ingaggiata, sostituendo Manuel Manetta, nella Original Tuxedo Jazz Orchestra, fondata nel 1910 da una delle glorie di New Orleans, il trombettista Oscar “Papa” Celestin (1884–1953), così chiamata perché si esibisce alla Tuxedo Dance Hall, una frequentata ma turbolenta sala da ballo, poi chiusa dalla polizia nel 1913.
L’orchestra è composta principalmente da creoli francofoni, mentre Emma è di colore e anglofona. Forse per questo motivo, e anche perché non sa leggere la musica e deve imparare a memoria parti e arrangiamenti, nei dischi incisi dall’orchestra a partire dal 1926 figura al suo posto Jeannette Salvant Kimball, pianista creola che aveva frequentato il conservatorio. Quindi a Emma è riservato il lavoro “duro”, e alla sua collega le occasioni per farsi notare e, in qualche modo, entrare nella storia. In Louisiana, in questi anni, la discriminazione non è solo tra bianchi e neri, ma anche tra bianchi anglofoni e “cajun” francofoni, tra creoli e neri e così via, in una complessa struttura di caste che impronta tutta la vita sociale a una gerarchia rigida quanto ottusa.
Quando l’orchestra di Celestin si scioglie, Emma rimane per un decennio col trombonista William “Bebe” Ridgely, che nel frattempo ha ereditato il “nome” di Original Tuxedo Jazz Orchestra: ma di questa formazione non restano documenti discografici.
I soprannomi “Sweet” e “Bell Gal” che accompagnano Barrett fanno pensare che si sia fatta le ossa come musicista negli unici locali che davano lavoro ai pianisti ai tempi d’oro di Storyville, vale a dire le numerose case di tolleranza del quartiere (alcune ricordate in diversi celebri brani del jazz degli anni Venti e Trenta), che ingaggiavano tutte un pianista — nel suo caso una pianista — per intrattenere i clienti in attesa nella hall. Il secondo soprannome fa riferimento all’abitudine di Emma di suonare portando allacciate poco al di sotto delle ginocchia giarrettiere con campanellini, che lei fa tintinnare muovendo ritmicamente i piedi; altro suo segno di distinzione è una sorta di berrettino di lana rossa che indossa immancabilmente ai concerti.
Sta di fatto che, forse perché la sua popolarità era limitata essenzialmente al French Quarter di New Orleans, dal quale si staccava a fatica, Barrett ha la possibilità di registrare la sua musica su disco solamente nel 1961, all’età di sessantatré anni: la prestigiosa etichetta Riverside pubblica finalmente alcuni brani — St. Louis blues, High society, Sweet Emma’s blues — a suo nome all’interno di New Orleans. The living legends, un doppio vinile antologico comprendente anche i gruppi di Jim Robinson, Percy Humphrey, Billie & Dede Pierce, Kid Thomas Valentine, Louis Cottrell e Peter Bocage (Riverside Records 356/357).
Altri brani registrati con la stessa formazione — Percy Humphrey (tromba), Jim Robinson (trombone), Willie Humphrey (clarinetto), Emmanuel Sayles (chitarra e banjo), McNeal Breaux (contrabbasso) e Joseph “Cie” Frazier (batteria) — a New Orleans il 25 gennaio 1961 sono pubblicati a cura della Preservation Hall e messi in vendita durante i concerti.

New Orleans’ Sweet Emma and her Preservation Hall Jazz Band (1963)
Due parole sulla Preservation Hall: situata nel cuore del French Quarter di New Orleans al 726 di St. Peter Street, era nata negli anni Cinquanta come galleria d’arte che ospitava musicisti jazz per attirare i clienti; si trasforma poi nel 1961 in luogo di musica, una vera e propria fondazione che dà lavoro e popolarità rinnovata a molti musicisti dimenticati e in perenne lotta con la povertà. Ancora oggi è una meta turistica, e non solo per gli appassionati di jazz.

Ma torniamo a “Sweet” Emma: un video, non datato ma collocabile nei primi anni Sessanta e registrato durante una trasmissione televisiva, la vede alle prese con un presentatore non troppo rispettoso e poi esibirsi in una versione ruvidamente efficace di Bill Bailey want you please come home accompagnata da Percy Humphrey alla tromba, Louis “Big Eye” Nelson al trombone, Alphonse Picou — una delle leggende di New Orleans — al clarinetto, George Guesnon al banjo, Louis Barbarin alla batteria e da un contrabbassista di cui non è noto il nome.

Appare molto segnata dagli anni e da una vita sicuramente non facile: nell’arcata superiore le è rimasto un unico dente, che trasforma il suo sorriso in una maschera da tragedia greca; altrettanto tragici, in questo come nei numerosi filmati degli anni successivi, appaiono quelli che lei, fino all’ultimo, esibirà come “segni di distinzione”: il cappellino rosso di lana e le giarrettiere coi campanellini.
Nel film The Cincinnati Kid, del regista Norman Jewison (1965), ambientato a New Orleans, è presente una sequenza nella quale Emma si esibisce col trombettista Kid “Punch” Miller e gli altri della Preservation Hall Jazz Band: il protagonista, interpretato da Steve Mc Queen, entra nel locale in una notte di pioggia e si ferma ad ascoltarla. Nel 1967 viene colpita da una emiparesi che le immobilizza tutto il lato sinistro del corpo: questo non le impedirà di continuare a suonare e, occasionalmente, registrare altri dischi fino alla morte, avvenuta il 19 gennaio 1983, all’età di ottantacinque anni.

La testimonianza più importante su Emma è un documentario svedese del 1970 nel quale lei, già costretta a letto dalla paralisi, si racconta; ma la si vede anche esibirsi accompagnata dalla Papa French Original Tuxedo Jazzband, con Jack Willis alla tromba, Walden “Frog” Joseph al trombone, Joseph “Cornbread” Thomas al clarinetto, Albert “Papa” French al banjo, Frank Fields al contrabbasso e il veterano Louis Barbarin alla batteria. Lei canta e suona il piano con la sola mano destra: al suo fianco, ad aiutarla con la mano sinistra, la pianista Jeannette Salvant Kimball, la stessa che nelle incisioni degli anni Venti dirette da Oscar “Papa” Celestin l’aveva sostituita. I brani eseguiti nell’occasione fanno parte del tradizionale repertorio delle band di New Orleans: Shake it and break it, Bill Bailey want you please come home, I ain’t gonna give you none of my Jelly Roll e altri ancora, nei quali si nota il suo particolare gusto per i doppi sensi, anche molto scollacciati.

Un filmato impietoso del 1982 la vede trasportata sulla sedia a rotelle alla Preservation Hall, fuori dalla quale una lunga fila di appassionati la attende, per quella che è stata, probabilmente, la sua ultima apparizione. E questa volta non c’è Jeannette ad aiutarla. Ma con una forza d’animo che ha dell’incredibile, Emma, che ancora una volta è vestita di rosso, in qualche modo ce la fa e i convinti applausi del pubblico sono il suo, meritato, premio.
Meritato al di là dei limiti strumentali e vocali, per la sua straordinaria capacità espressiva, per il suo tenace amore per la musica, in grado di superare tutte le difficoltà (donna in un mondo di maschi, collocata sull’ultimo gradino della scala sociale in quanto nera, senza la possibilità di un’istruzione musicale adeguata) e per il suo indomabile coraggio nell’affrontare problemi di salute che avrebbero fatto desistere qualsiasi altro musicista dal proseguire la carriera.
Verso la fine degli anni Sessanta il trombettista Nat Adderley le dedica un brano, divenuto celebre: si tratta di Sweet Emma, che compare in diversi dischi del quintetto di Julian “Cannonball” Adderley, a cominciare da Legends live: Cannonball Adderley Quintet(Jazzhaus Records 1969), che vede la presenza, tra gli altri, del tastierista Joe Zawinul, futuro fondatore dei Weather Report. Si tratta dell’unico brano scritto da un jazzista “moderno” entrato stabilmente a far parte del repertorio delle orchestre di jazz “tradizionale”: Emma è riuscita così anche a collegare due mondi apparentemente lontanissimi tra loro.
In copertina: “Sweet” Emma Barrett, al pianoforte, interpreta sé stessa in un cameo di The Cincinnati Kid, di Norman Jewison (1965).
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Articolo di Roberto Del Piano
Bassista (elettrico) di estrazione jazz da sempre incapace di seguire le regole. Col passare degli anni questo tratto caratteriale tende progressivamente ad accentuarsi, chi vorrà avere a che fare con lui è bene sia avvertito.