
Nel 1980 muore il maresciallo Tito, che aveva tenuto unita la Jugoslavia a partire da subito dopo la Resistenza contro il nazifascismo. Tito era stato leader della Resistenza e sotto di lui le truppe italiane e tedesche avevano subito importanti sconfitte alla fine della Seconda guerra mondiale. Benché comunista, Tito si era sempre tenuto fuori dagli ordini di Stalin ed era stato espulso dal Cominform, fino a costituire nel 1955 il movimento dei Paesi non allineati, la terza via tra liberalismo occidentale e socialismo filosovietico. Per decenni la Repubblica federale di Jugoslavia ha visto convivere pacificamente etnie diverse, tanto che la città bosniaca di Sarajevo era soprannominata “la Gerusalemme d’Europa”.

Nel decennio successivo in Jugoslavia prendono piede forti spinte indipendentiste. Alle elezioni del 1990, le prime dopo decenni di regime monopartitico, in Slovenia e Croazia, più vicine per cultura all’Europa centrale che ai Paesi balcanici, trionfano i partiti indipendentisti. Nel 1991 le due repubbliche proclamano la propria indipendenza attraverso un plebiscito. Segue a ruota la Macedonia, contesa tra Bulgaria e Grecia. Le spinte indipendentiste sono forti anche in Kosovo, regione serba a maggioranza albanese. Le stesse elezioni fanno vincere in Jugoslavia Slobodan Milošević, comunista e intenzionato ad affermare l’egemonia serba in tutto il Paese. A marzo del 1992 anche la Bosnia proclama la propria indipendenza.
I vertici politici e militari della Repubblica federale di Jugoslavia accettano l’indipendenza slovena ma non quella croata e bosniaca, in quanto in entrambi i Paesi sono presenti minoranze serbe: la Bosnia in particolare è divisa tra una maggioranza islamica e numerose minoranze: una croata cattolica, una serba ortodossa e una Rom (quest’ultima non riconosciuta).
Immediatamente dopo la proclamazione dell’indipendenza bosniaca, l’esercito serbo si schiera sulle colline intorno a Sarajevo, capitale bosniaca, e ne occupa l’aeroporto. La comunità europea riconosce la nuova Repubblica di Bosnia-Erzegovina. Ma intanto l’assedio di Sarajevo è cominciato. È l’assedio più lungo e sanguinoso della storia d’Europa. Nel 1993, durante i combattimenti, viene distrutto il ponte di Mostar, simbolo della convivenza pacifica tra etnie diverse che aveva caratterizzato la città nei decenni precedenti. La popolazione civile è stremata dall’assedio, chiunque esca di casa diventa bersaglio di soldati serbi e di cecchini, armati di fucili di precisione a lunga gittata; l’occupazione serba dell’aeroporto rallenta i rifornimenti di viveri e i combattimenti aerei impediscono anche un collegamento aereo per gli aiuti umanitari.

In un primo momento l’Europa non interviene, interessata principalmente ai problemi relativi alla Germania in fase di transizione. L’Onu manda i caschi blu in Croazia e impone un embargo alla Serbia, ma i vari tentativi di mediazioni si rivelano un continuo fallimento. L’impotenza dell’Onu è dovuta a due fattori principali: il primo è il mancato appoggio della Russia, storica alleata della Serbia ma al tempo stesso membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il secondo motivo è l’atteggiamento ambiguo di Washington: gli Stati Uniti non forniscono truppe all’intervento Onu in quanto temono l’espandersi della guerra a tutta la penisola balcanica, incluse la Grecia, membro della Nato, e la Macedonia, rivendicata dalla Grecia. Inoltre, l’amministrazione Bush ha inaugurato la “politica dello sceriffo”, ovvero il ruolo degli Stati Uniti di garanti sulla situazione mondiale scavalcando di fatto le Nazioni Unite.
Nel frattempo, la Nato interviene autonomamente nella guerra balcanica. Su pressioni statunitensi, il governo bosniaco e quello croato si accordano a Dayton per costituire una federazione croatomusulmana volta a isolare la Serbia. Ma questa soluzione non basta a fermare il conflitto e l’assedio di Sarajevo continua.
Ad agosto del 1994 inizia la guerra della Nato contro la Serbia, cui partecipano anche vari Stati europei tra cui l’Italia. A luglio del 1995 l’esercito serbo attacca la città di Srebrenica. Qui vengono violentate moltissime donne e uccisi migliaia di uomini in quanto musulmani: è la prima volta dopo mezzo secolo in cui l’Europa assiste a una spaventosa pulizia etnica all’interno del continente che si credeva civile e pacifico e a ridosso dei confini della nascente Unione Europea.
A novembre del 1995, su pressioni del presidente statunitense Bill Clinton, i rappresentanti di Serbia, Bosnia e Croazia si riuniscono di nuovo a Dayton, negli Stati Uniti: qui viene stabilito il mantenimento di due Stati federali, una Repubblica di Bosnia-Erzegovina con capitale Sarajevo, divisa tra un’area serba e una croatomusulmana, e una Repubblica federale di Jugoslavia, che comprende Serbia, Kosovo e Montenegro. Solo così si pone fine all’assedio di Sarajevo durato oltre tre anni, il più lungo della storia europea.
Ma la convivenza pacifica delle varie etnie è ormai finita. In breve tempo in Serbia esplodono nuove tensioni per l’indipendenza del Kosovo, che si scontra con la repressione da parte del governo serbo di Milošević. All’inizio del 1999 interviene nuovamente la Nato attaccando la Serbia e le postazioni serbe in Kosovo con bombardamenti che danneggiano soprattutto la popolazione civile (sono distrutti non solo gli obiettivi militari ma anche vari ospedali e tantissime abitazioni). L’uso della forza non è stato autorizzato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu e quindi costituisce una violazione del diritto internazionale sia per la Serbia che per la Nato.

Alle operazioni militari partecipano anche numerosi contingenti italiani e molti degli aerei che bombardano l’altra sponda dell’Adriatico appartengono all’aeronautica italiana e partono da basi Nato situate nel territorio italiano. Tutto questo avviene in palese violazione dell’articolo 11 della Costituzione italiana secondo cui «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzi di risoluzione delle controversie internazionali».
La decisione di intervenire militarmente è stata presa dal governo presieduto da Massimo D’Alema (Pds, ex Pci) in nome degli accordi e delle alleanze internazionali, ma senza consultare le Camere, a cui invece spetta formalmente il compito di decretare un eventuale stato di guerra (articolo 78 della Costituzione).
A maggio del 1999 un gruppo di donne e uomini pacifisti genovesi, tra cui il prete don Andrea Gallo, sporge denuncia alla Procura della Repubblica nei confronti del presidente del Consiglio Massimo D’Alema per violazione della Costituzione (articoli 11 e 78). Il procedimento viene archiviato senza conseguenze, ma intanto la violazione non è passata inosservata.

Intanto oltre mezzo milione di abitanti del Kosovo fuggono in Albania e in Macedonia. A giugno dello stesso anno Milošević si vede costretto a ritirare le truppe dal Kosovo, che rimane sotto la tutela della Nato. Nel 2000 Milošević perde le elezioni serbe. Poco dopo verrà consegnato al Tribunale Internazionale dell’Aja per le gravi violazioni dei diritti umani compiute in Bosnia e in Kosovo; morirà in carcere nel 2006 prima della conclusione del processo.

Nel 2006 un plebiscito sancirà l’indipendenza del Montenegro dalla Serbia. Nel 2008 sarà riconosciuta dalla comunità internazionale anche l’indipendenza del Kosovo, nonostante la contrarietà serba e russa.
L’intervento della Nato nella ex Jugoslavia si spiega considerando che nella penisola balcanica passano i gasdotti, provenienti dall’Asia centrale, che riforniscono l’Europa occidentale e che anche il progetto americano di oleodotto proveniente dal Caucaso, che metterebbe fine alla dipendenza energetica dal Medio Oriente, attraverserebbe i Balcani e il Mar Adriatico. Questi interessi rendono indispensabile il controllo statunitense ed europeo sulla regione. Dunque la guerra “civile” jugoslava costituisce di fatto la guerra della Nato all’alleata storica della Russia all’immediato indomani della fine della Guerra fredda.

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Articolo di Andrea Zennaro

Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.