«C’è un legame coi morti e coi vivi che è la comune origine armena, quel legame di nostalgia ed affetti che connette il sangue a quello degli avi perseguitati e uccisi dalla terribile estate del 1915 in poi, e chiede giustizia per loro, per quella distesa di ossa ignote finite a diventare polvere nei deserti dell’Anatolia. Affinché il riconoscimento di ciò che è avvenuto risani l’oscura, infetta ferita che per il silenzio colpevole in cui la tragedia armena è avvolta, continua a sanguinare nei padri, nei figli, nei nipoti… È una ferita che si trasmette attraverso i mille fili del raccontare orale, all’interno delle famiglie, e che suscita nei bambini che ascoltano, una percezione dei fatti profonda ed estesa, ma che sembra in qualche modo inesprimibile a parole, come un marchio di sconfitta e vergogna, come qualche cosa di innominabile, da affidare soltanto ad un ricordo intimo e privato… Dovunque il vento della dispersione diasporica abbia portato gli armeni sopravvissuti, in qualsiasi nazione o paese, si incontrano sempre le stesse parole, le stesse reazioni: i superstiti tentano di dimenticare, di chiudere le loro terribili esperienze in un angolo della mente, di non comunicarle ai figli, di farli crescere senza il peso di quell’enorme ingiustizia che hanno subito».
Così scrive Margaret Ajemian Ahnert in Le rose di Ester, dove le protagoniste sono proprio la scrittrice e la madre (in foto).

Margaret si reca spesso a trovarla nella casa di riposo dove sta trascorrendo gli ultimi anni della sua vita. E ogni volta le regala un mazzo di rose.
La madre ha 98 anni, è fragile ma lucida e ricorda perfettamente la sua infanzia che giorno dopo giorno racconta alla figlia.
E così in quell’intimo dialogo riaffiora il profumo del pane appena sfornato nella sua casa in Armenia, il vapore e gli odori dell’hammam, i discorsi e le risate con le altre donne.
Ma riaffiorano anche gli incubi tragici di quella serenità persa per sempre.
La repressione del genocidio, il sangue, l’efferatezza, la marcia estenuante delle donne armene e dei loro figli e figlie verso il nulla.

E poi, il matrimonio forzato, la fuga in America e l’approdo sicuro dove ancorare la propria vita.
L’odissea di Ester è quella del suo popolo, è un’eredità trasmessa alla figlia, un lascito di radici affettuose e dolorose al contempo. Una sorta di testamento del coraggio, della dignità e dell’intelligenza di una sopravvissuta, in cui, comunque, non c’è mai spazio per l’odio.
Il monito di questa madre: «Non lasciare che la tua vita si riempia di risentimento, potrà solo farti male. L’odio è come l’acido: buca anche il suo contenitore».
In quella casa di riposo, le/gli ospiti sono tutti armeni, tutti sopravvissuti al genocidio e la loro lingua risuona nelle stanze come una musica finalmente libera di essere ascoltata.
Ester e Margaret, nei loro incontri, tessono un altro filo: quello dell’amore filiale, che a volte cambia i ruoli: una madre che diventa anche figlia da proteggere. Una figlia che diventa più forte grazie alla dignitosa fragilità di sua madre.
In quelle stanze linde e ordinate riecheggia la voce angosciata di Ester che racconta l’esodo forzato a cui fu costretta: «… di notte, ci fermavamo sul ciglio della strada e dormivamo ammassati gli uni sugli altri… mentre calava la notte, le lucciole tessevano una rete intorno a noi e la luna illuminava il nostro misero accampamento con i suoi raggi di tiepida luce.
Sembravamo così piccoli e soli, gli ultimi rimasti al mondo…»
Le donne ebbero più fortuna in quella persecuzione. Quasi tutti gli uomini furono prelevati dalle loro case: ai più fortunati venne concesso un colpo di fucile, altri vennero legati e posti su delle barche che poi venivano fatte affondare, altri ammassati nelle chiese a cui poi davano fuoco.
Per donne, bambini e vecchi si decise di non sprecare piombo ed energie. Vennero fatti marciare in condizioni disumane verso false destinazioni.
L’obiettivo era farli morire di fame e di stenti.

La maggior parte delle donne e delle bambine vennero stuprate: lo stupro, come sempre, usato come arma di guerra. Ma alcune di loro sopravvissero caparbiamente e fecero miseramente fallire l’intento dei Turchi che era quello di sterminare il popolo armeno. Le vedove sposarono in seconde nozze uomini armeni sfuggiti al genocidio o che si trovavano in altre parti del mondo per garantire la sopravvivenza del loro popolo. Tante iniziarono a tramandare la loro cultura, a scrivere dei diari, a recuperare preghiere, filastrocche e canzoni armene. Decisero di conservare la “vita armena” nonostante gli orrori della storia. E ci riuscirono.
Gli Armeni chiamano il loro genocidio Mez Yeghem, il Grande Male.
Se andate a Yerevan, recatevi al Memoriale dell’Olocausto Armeno. Si trova in cima alla collina che sovrasta la città e che si chiama Forte delle rondini. È un blocco di vetro e cemento con lunghi corridoi all’aperto delimitati da muri di pietre su cui sono incisi i nomi delle principali città colpite dal genocidio. Alla fine del percorso arriverete a una fiamma sempre accesa.
Un fuoco per non spegnere il ricordo delle atrocità.
Una stele alta 44 metri simboleggia la rinascita di questo popolo.

Se poi scendete dei gradini vi ritroverete all’interno del museo in cui sono esposte foto e documenti storici. Lì troverete tante figure di donne e tanti diari vergati con una grafia minuscola e ordinata.
Quei volti e quegli scritti femminili ci dimostrano inequivocabilmente il ruolo preponderante delle donne nella costruzione del “ricordo” e nel rifiuto della violenza.

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Articolo di Ester Rizzo
Laureata in Giurisprudenza e specializzata presso l’Istituto Superiore di Giornalismo di Palermo, è docente al CUSCA (Centro Universitario Socio Culturale Adulti) di Licata per il corso di Letteratura al femminile. Collabora con testate on line, tra cui Malgradotutto e Dol’s. Per Navarra edit. ha curato il volume Le Mille: i primati delle donne ed è autrice di Camicette bianche. Oltre l’otto marzo, Le Ricamatrici e Donne disobbedienti.