
poetesse e scrittrici (Roma, 1941), vol. I, p. 226;
a questa data Nora ha ventiquattro anni
Rispetto a Maria Teresa Maglione, Nora De Siebert è tutta un’altra storia. Nata il 22 marzo 1917, morta il 23 novembre 1989, gli estremi della sua vita si evincono dalla fotografia (reperibile in rete) di una lapide al Cimitero Flaminio di Roma, la sua unica immagine pubblica è anteriore al 1941 e la sua vita privata sconosciuta.
Eppure, è stata un’autrice prolifica, forse di una certa popolarità, già attiva giovanissima alla fine degli anni Trenta e all’inizio dei Quaranta, che probabilmente ha fatto della scrittura pulp la propria professione, producendo poi negli anni Cinquanta, a ritmo serrato, libri di fiabe, “Racconti Passionali” e “Romanzi d’Amore” (titoli di due collane con le quali collabora), sceneggiature per albi di fumetti (“Pablito”), testate di fotoromanzi (“Bolero” e “Sogno”) e film popolareschi (Fra Manisco cerca guai…, del 1961), nonché opere di fantascienza.

sceneggiatrice per albi di fumetti, testate di fotoromanzi e film popolareschi
Il curriculum letterario di Nora si presta evidentemente al pregiudizio, ma forse proprio per questo la lettura della sua produzione in ambito science fiction riserva qualche sorpresa: la bibliografia a suo nome documentata dal Catalogo Vegetti conta sette romanzi brevi e un racconto, tutti pubblicati per serie ed edizioni effimere e marginali (De Siebert non compare su “Urania”, che non è solo, come afferma la testata, «la più famosa collana di fantascienza» italiana, ma è anche la più prestigiosa) tra il 1957 e il 1958, a eccezione dell’ultimo, apparso nel 1962. Serie ed edizioni ora pressoché introvabili.
Fuga nella galassia è il titolo definitivo del primo romanzo, apparso per la prima volta come Ora Zero. Terra non risponde nella collana “Cronache del Futuro” di Kappa Edizioni il 15 settembre 1957, ristampato come Mondo astrale in “Le Cronache del Futuro” di Editrice Maya il 30 dicembre 1958, infine in “I Romanzi del Futuro” di Editrice P.E.N. il 20-30 maggio 1961. Il clima della guerra fredda è trasferito in un remoto domani, quando le due grandi potenze University e Comunity si fronteggiano per il controllo del sistema solare, dopo aver stabilito il «Governo di condizionamento», ovvero la determinazione del ruolo e del compito di ciascun essere umano e la sua preparazione grazie a una sorta di “cura Ludovico”, (si veda Una arancia a orologeria di Anthony Burgess), cui dalla nascita sono sottoposti uomini e donne. Non è tanto la vicenda e il suo svolgimento, pure a tratti avvincente, a rappresentare il punto di forza del romanzo, quanto la protagonista femminile Oona, figlia dello scienziato Jim O’Connor, che ha voluto per lei un destino diverso da quello delle altre figlie del pianeta. Infatti, University City aveva deliberato ormai da diversi decenni che le donne tali dovessero rimanere in ogni loro manifestazione, facendole notevolmente regredire dalla maturità intellettuale e sociale che si erano faticosamente, in secoli di progresso, guadagnate. I risultati ottenuti dalla ascesa femminile non avevano soddisfatto per niente la politica sociale ed economica del paese. Le donne avevano ottenuto in ogni settore posti preminenti di comando. Se v’era da vincere un concorso le donne, capaci di non muoversi dal tavolino per giornate intere, avevano finito per battere in cultura e memoria il sesso maschile. Se c’era da sostenere una idea contraria alla massa erano sempre state le donne ad aizzare e condurre l’attacco ai reazionari… Per questo, quando si era stabilito il Governo di condizionamento, la votazione unanime maschile era stata di abolire le donne dal potere, di rimetterle al loro posto nel sistema creativo ed estetico, riportandole al servizio dell’uomo, come macchine produttrici di nuove generazioni e di piacere per l’uomo stesso». Oona, «splendidamente femminile in ogni sua forma esteriore», dimostra «ferrea volontà e indomito coraggio» che il condizionamento di Stato nega alle donne; nel viaggio spaziale verso Marte che caparbiamente compie, la giovane giunge a pensare «di poter un giorno ottenere di difendere i diritti delle donne che gli uomini avevano sottomesse, per riportarle in un giusto piano di riconoscimento morale e sociale». La narrazione dà poi ampio risalto a Laurence, fidanzato di lei che ne apprezza le qualità, tuttavia colpisce come Nora De Siebert colga appieno le potenzialità del genere science fiction, di critica sociale del presente e di denuncia delle sue possibili distorsioni. Anche a questa scrittrice sta a cuore il tema della pace universale, ma declinato con maggiore consapevolezza, attraverso la riflessione sulla ricchezza di risorse del sistema solare e sulla necessità di una loro equa distribuzione, sul dovere morale di impegnarsi in prima persona, compiendo piccoli gesti e piccoli passi, «senza lottare e odiarsi».
Il personaggio femminile più memorabile dell’autrice è tuttavia quello di Aurea, protagonista di Umanità immortale (Cronache del Futuro del 1° novembre 1957), un romanzo bello e non scontato, la cui narrazione tiene pagina dopo pagina e non cede neppure nel finale, emozionante ed evocativo della leggenda dell’Olandese Volante, scritta da Heinrich Heine nel 1834. «Aurea era stata creata per la soddisfazione visiva. Sua madre l’aveva consegnata nei primi mesi di vita alla Casa Superiore Femminile da dove uscivano donne perfette e mirabili procreatrici. Ma, deceduta la madre e trovandosi il padre privo di figli maschi, aveva ottenuto per eccezionale agevolazione di prelevare sua figlia dalla Casa Superiore Femminile e consegnarla all’Ente Straordinario perché, pur non trasformandone il sesso originario, la incanalasse in una libera professione». Privilegiata dalla sorte, al pari di Oona, Aurea è una scienziata del Centro Sperimentale della Terra ormai pacificata; è competente e rigorosa, inizialmente condizionata dal credo del progresso, incapace di comprendere il desiderio del padre anziano di scivolare via dalla vita, votata a un progetto di sterminio dei «microrganismi dell’aria e dell’acqua», grazie al quale «ogni malattia infettiva sarà debellata in partenza» e l’umanità diventerà immortale. Bene assoluto? No, male contro natura, perché immortalità non significa giovinezza e salute, fine del dolore e della paura: significa invece moltiplicarsi delle generazioni, ridursi degli spazi, e soprattutto perdita di senso e significato della vita. La narrazione assume la forza di un mito (il mito di Eos che giunge a chiedere a Zeus la morte dello sposo Titone, immortale ma non eternamente giovane e condannato perciò a una decrepitezza smemorata); Aurea diviene poi figura rovesciata di Cristo che libera l’umanità dalla morte, ma che per non incatenarla a un destino indicibilmente peggiore è chiamata a ristabilire l’ordine naturale delle cose. «Non vi sarebbe giorno se non vi fosse notte, non vedremmo bellezza se non constatassimo bruttezza, non apprezzeremmo il bene se non lottassimo col male. Non ameremmo la vita se non temessimo la morte»: così l’asceta al quale la giovane donna si rivolge per trovare risposta al dubbio e al non sapere, per trovare in sé la forza di compiere il gesto di amore sovrumano che possa riscattare l’umanità. «Tutto è», non esiste fine, perché «tutte le leggende hanno sempre un nuovo principio».

come sempre, le copertine nulla hanno a che vedere con i contenuti
Dopo Il silos di cristallo (Cronache del Futuro del 1° gennaio 1958), esattamente due mesi più tardi e nell’ambito della stessa collana, Nora De Siebert pubblica Trasfusione atomica, romanzo centrato sulla necessità del disarmo nucleare, forse meno riuscito dei precedenti, ma nel quale vi è una geniale traslazione del punto di vista, che ha come idea di partenza il lancio della capsula spaziale Sputnik 2 da parte dell’Unione Sovietica, il 3 novembre 1957: a bordo per la prima volta un primo essere vivente, la cagnolina nota con il nome di Laika, probabilmente deceduta a poche ore dall’inizio della missione, conclusa con la disintegrazione del satellite al suo rientro nell’atmosfera, il 14 aprile 1958. Come si è visto, il libro di De Siebert è in edicola il 1° marzo 1958: un instant book, dunque, che ipotizza per Sputnik 2 e soprattutto per la cagnetta Laika (Luky nel testo) un destino diverso da quanto avverrà dopo la pubblicazione del romanzo… «Ho visto che hanno eretto un monumento a un cane — dirà Luky — al me stesso che spedirono nello spazio, pure non feci alcun atto eroico. Mi misero nel missile e mi lanciarono: tutto qui. Ed io neppure lo sapevo».
Ancora il tema del sacrificio nel quinto romanzo, Il totem dello spazio (Cronache del Futuro del 1° aprile 1958), ma amaramente senza possibilità di redenzione: il protagonista questa volta è un uomo, Joe, astronauta e filosofo, esploratore e profeta, figura di messia incompreso e mal ripagato. È evidente che Nora non può reggere un ritmo tanto serrato nella produzione: anche questo romanzo è meno convincente rispetto ai due primi, vi compaiono alcune ingenuità marchiane (la lingua primitiva e risibile degli abitanti di TGG Minocerotis, per esempio), mentre la narrazione va incontro a cedimenti strutturali.

per le edizioni Kappa: per le copertine vale quanto sopra
Due romanzi — Ricerca dell’inverosimile (con lo pseudonimo di Norman Mc Kennedy, Cronache del Futuro del 1° maggio 1958) e La porta sull’aldilà (I racconti di Nharadham del dicembre 1962) — poi il silenzio e l’oblio, interrotto soltanto nel 1967, quando Feltrinelli ripubblica il brevissimo racconto La femmina di Antarès con il titolo (deviante) La femmina inappagata, all’interno di una antologia intitolata in modo improbabile Fantasesso.
Maria Teresa Maglione e Nora De Siebert non hanno una voce che le racconti e le ricordi su Wikipedia, l’Enciclopedia libera e collaborativa. E non l’hanno neppure Maria e Ornella De Barba, le ultime narratrici (o forse l’ultima narratrice?) di science fiction nell’Italia degli anni Cinquanta, delle quali si sa meno di nulla, anche perché quasi nulla hanno scritto, ma nel “quasi” è la forza di un grande inizio senza seguito.

in Urania n. 272 del 31 dicembre 1961
Il 31 dicembre 1961 Urania pubblica Gli infiniti ritorni, ascritto a Marren Bagels (che Ernesto Vegetti identifica in Maria e Ornella De Barba): Giorgio Monicelli ha già lasciato Mondadori, temporaneamente sostituito dalla redattrice Andreina Negretti, ma la scelta del romanzo è quasi certamente ascrivibile a lui, così come la presentazione, che giova riportare per intero, ai fini della comprensione del testo: «Secondo le teorie di uno scienziato inglese, il naturalista Philippe Lutley Sclater, nell’epoca Terziaria un immenso continente sorgeva sull’area occupata ora dalle acque dell’Oceano Indiano. Sempre secondo lo Sclater, quella sarebbe stata la mitica Lemuria. I sostenitori dell’esistenza di quell’ipotetico continente attribuiscono la sua scomparsa a un cataclisma di natura e cause imprecisabili. Per provare l’esistenza della Lemuria alcuni si rifanno al Libro di Dzyan, misterioso documento inciso su tavole d’oro, scritto in versi incomprensibili se non ai seguaci delle teorie esoteriche, e secondo il quale sulla Terra si sarebbero avute diverse “età” contraddistinte dall’esistenza di varie “razze-madri”. È al Libro di Dzyan, e alle ipotesi di Sclater, che il giovane autore di questo romanzo si è ispirato per raccontare le suggestive avventure di Vagiri attraverso tempi paesi e uomini, l’ultimo dei quali sarà Lao-Tse, il filosofo cinese che la tradizione fa nascere nella Cina settentrionale, nell’anno 604 a.C., e che, secondo la leggenda, fu visto per l’ultima volta mentre andava verso il confine nord-occidentale dell’Impero a cavallo di una vacca grigia». Come assai utilmente informa Wikipedia, «Lemuria entrò nel lessico dell’occulto tramite le opere di Helena Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica, che dichiarò intorno al 1880 che l’esistenza di questo continente, abitato da una razza di ermafroditi spiritualmente puri, le era stato rivelato dai Mahatma che le avrebbero permesso di visionare un testo pre-atlantideo, il Libro di Dzyan».

Con queste premesse, lo sviluppo narrativo di Gli infiniti ritorni, romanzo ambizioso e complesso, risulta intellegibile: la vicenda è incentrata su Vagiri, «Storico-Guerriero» dell’impero dei Devas, che dopo la catastrofe di una guerra spaziale perduta (nella prima parte), attraversa spazi e tempi siderali per trasferire il proprio spirito in molteplici corpi umani — che risultano così “posseduti” dalla sua volontà —, di volta in volta, secondo la necessità o il caso, fino a incarnarsi nel saggio Lao-Tze (nella seconda parte). Il principale personaggio femminile è Indrani, compagna di Vagiri: morta anzitempo, il protagonista ne cerca e ne intuisce l’essenza nelle donne dal cuore gentile che incontra nei secoli, senza tuttavia mai riuscire ad afferrarla; l’antagonista è Twashtri, il Grande Tecnologo, l’anima nera che percorre il mondo per renderlo indifferente e cinico (e che si incarna in K’ung-Fu-Tze), ma non potrebbe essere altrimenti, perché così vuole «il ritmo della vita cosmica nella concezione del Tao impassibile e dei due contrari che si fondono e si compenetrano, per cui nulla sarebbe bianco se non esistesse il nero, nulla sarebbe in moto se non esistesse in contrapposizione la stasi, nulla sarebbe il bene se non potesse contrapporsi al male».
Yin e Yang, unità dell’universo, primato dello spirito: è questo il tema ricorrente nei testi delle pioniere italiane della fantascienza, ma, soprattutto nella seconda parte, il romanzo di Marren Bagels risulta più persuasivo dei precedenti, capace di trasmettere una visione “altra”, connotata da serena accettazione, rispettosa dell’equilibrio naturale, in armonia con il cosmo, una visione destinata a fortuna durevole nei decenni successivi, fino al movimento New Age e oltre.

Di ispirazione completamente differente l’unico racconto ascritto a Ornella De Barba e a suo nome pubblicato: Morte di un robot, stampato sul n. 4 (novembre/dicembre 1963) della rivista “Futuro”, fondata da Lino Aldani. La rivista è (come sempre) di ardua reperibilità: devo alla cortesia di Massimo Oliva (primo tra i generosi membri della comunità di appassionati di fantascienza) la lettura del racconto, brevissimo, un piccolo capolavoro di scrittura e di sensibilità verso ogni forma di vita, naturale o artificiale che sia.
Chi è Marren Bagels? La vulgata lo identifica (o la identifica, il nome proprio, peraltro raro, è sia maschile sia femminile) in Maria e Ornella De Barba, forse, presumibilmente, sorelle. La presentazione di Morte di un robot contribuisce, ma non troppo, a fare chiarezza: «Crediamo che a Ornella De Barba spetti di diritto la definizione di “più giovane scrittrice di fantascienza d’Italia”. — si legge nell’editoriale che precede il racconto, a p. 35 della rivista — A soli quindici anni aveva già vinto il “Gran Premio Internazionale per il miglior romanzo di fantascienza”, indetto dal compianto professor Boccara e a cui diede risalto anche “Urania”. Un romanzo che per essere stato scritto da un italiano non fu mai pubblicato. La giovane aveva già deciso di abbandonare, e siamo lieti che ciò non sia avvenuto: con questo numero Ornella De Barba inizia la sua collaborazione a Futuro». Se il romanzo cui si allude è Gli infiniti ritorni, è vero che “Urania” gli diede risalto, è falso che non fu pubblicato (lo fu, appunto, da “Urania” stessa). Se Ornella nel 1961 aveva quindici anni, significa che era nata nel 1946, quindi, alla data di pubblicazione del racconto su Futuro, ne aveva diciassette, ed era ancora giovanissima: il che tuttavia non le impedirà di abbandonare la scrittura, chiudendo dopo una sola prova (di tre pagine) la collaborazione con la rivista. Non vi è memoria, né in rete né nei ricordi di appassionati del genere, del Gran Premio Internazionale per il miglior romanzo di fantascienza, e purtroppo neppure del professor Boccara. Infine, la presentazione non fa cenno dell’altra De Barba, Maria, alla quale, anche, l’opera di esordio è attribuita. Tentare di scrivere la storia di questa autrice, o di queste autrici, equivale a scrivere un racconto di fantascienza: tentazione irresistibile, e non me ne vogliano le vere Maria e Ornella De Barba, se attraverso gli eterni ritorni lo leggeranno.
Marren Bagels: come noto, il bagel è un pane della tradizione ebraica, dalla tipica forma di ciambella; la “s” plurale presuppone che dietro il señal si celino più persone — perché no? — le due sorelle De Barba. De Barba è un cognome di origine ebraica, più propriamente sefardita, diffuso soprattutto in Veneto, segnatamente nel Bellunese: nella sola Belluno le Pagine Bianche ne contano trentasei; Marren è nome proprio e nome di città, ma consuona anche con “marrano”, il dispregiativo castigliano attribuito agli ebrei forzati alla conversione, perseguitati ed espulsi dalla penisola iberica sul volgere del XV secolo. Che le due sorelle abbiano voluto alludere a un’antica storia familiare?
Ma torniamo a Belluno: qui, il 21 settembre 2013, «se n’è andata in punta di piedi, così come ha vissuto» una Maria De Barba, che sorride lieve dal necrologio pubblicato sul “Corriere delle Alpi”, tre giorni dopo. Lo annuncia per prima la sorella: «sorella» e basta, senza nome (peccato!), poi la cognata, il cognato, i nipoti e i pronipoti, che si riuniranno per l’ultimo saluto lo stesso giorno 24 settembre «nel piazzale del cimitero urbano di Prade da dove per espressa volontà si proseguirà per la cremazione». E dal sito del cimitero comunale, digitandone il nome, si apprende che Maria De Barba era nata il 1° dicembre 1942: quattro anni più di Ornella, verosimilmente poteva esserne la sorella maggiore; e non senza emozione si legge che i resti mortali di lei vi sono temporaneamente in «affido per dispersione ceneri». Impossibile non pensare che Maria, autrice o coautrice di quel romanzo suggestivo, abbia voluto tornare a farsi docile fibra dell’universo, nella breve attesa dell’infinito ritorno.

per le copertine vale quanto sopra
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Articolo di Laura Coci
Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.