Vi siete mai domandate/i come sarebbe la vostra vita se non aveste gli amici, le amiche, qualcuno che non appartiene alla stretta cerchia della vostra famiglia con cui trascorrere il tempo? Persone care con le quali condividere le emozioni, confidarvi, andare al cinema, a teatro, a fare quattro passi in campagna, o anche solo bere un tè sul divano, piangendo davanti all’ennesima replica di Ghost? Vi attraversa mail il pensiero di come sarebbe non avere mai accanto qualcuno che sta con voi per il puro piacere di starci, perché vi trova persone belle, stimolanti, interessanti, piacevoli, perché il tempo condiviso vola leggero e rapido, restituendo a entrambi una sensazione di gioia? Io queste cose me le sono chieste spesso. E la risposta che ho trovato è sempre stata una: sola. Mi sentirei immensamente sola. E comincerei a domandarmi cosa fare per tentare di cambiare le cose.
Per me, che lavoro con la disabilità, è quasi scontato constatare come la solitudine e l’isolamento costituiscano il demone permanente con cui le famiglie di tutti i ragazzi e le ragazze fragili che ho incontrato fanno da sempre i conti. Insegnando alle scuole superiori, incrocio le storie delle/dei miei studenti nel momento della loro vita in cui la relazione con i coetanei diventa fondamentale. E non nascondo che a volte ho provato fitte intense di dolore e di rabbia nello scoprirmi senza strumenti, quasi impotente. Perché l’inclusione, a scuola, non dipende quasi per nulla dagli adulti. Noi siamo solo quelli che agevolano le dinamiche relazionali, agendo sui percorsi formativi, sul contesto e sull’ambiente, ma poi i legami, le amicizie, lo spirito di gruppo sono cose che possono realizzare solo gli/le studenti. Noi ne siamo fuori ed è giusto che sia così.
Il problema è che, come ormai sarebbe ora di dire a chiare lettere in maniera esplicita e diffusa, non sempre l’inclusione diventa reale. Anzi, la più parte delle volte, quando c’è, resta confinata dentro le quattro mura della classe o, ad andar bene, della scuola. Fuori, poi, è un’altra storia. L’inclusione non è stare insieme, nello stesso ambiente, a fare le medesime cose o quasi. È essere insieme, sentirsi uniti da legami, creare relazioni che non hanno più a che fare con l’ambiente esterno, che non dipendono dal contesto (che, come la scuola, ti chiede esplicitamente di stare con gli altri/e in maniera costruttiva e il più possibile solidale), ma che entrano in noi, si consolidano nel nostro cuore, dipendono dal nostro sentire profondo, scegliamo liberamente. Avete mai pensato a cosa significhi trascorrere i pomeriggi a casa sperando che un compagno o una compagna vi chiamino solo per il piacere di fare due parole con voi, e rimanere puntualmente delusi/e? Poiché, come tutti/e sappiamo, gli/le adolescenti di oggi concepiscono il cellulare come una protesi permanente delle loro bocche e orecchie, è facile intuire quanto male faccia, a un/a ragazza il non sentirsi mai cercata, desiderata, anche solo pensata. Mandare un sms e ricevere in risposta solo silenzio.
Non sto dicendo che le cose vadano sempre così, ma sono ormai vent’anni che lavoro sul sostegno e vi assicuro che se dovessi esprimere oggi un pensiero il più oggettivo possibile, basato unicamente sulla mia esperienza, direi che gli esempi che ho riportato corrispondo a un abbondante novanta per cento dei percorsi che ho seguito. E forse sarebbe il caso che la scuola tutta si fermasse a farsi due domande sul concetto di inclusione e soprattutto su come questo venga tradotto in pratica, schiacciato tra buoni principi che spesso sfociano in palese ideologia, normative stringenti e spesso incoerenti, la storia macinata sin qui e i vissuti di chi della scuola è protagonista e attore. Come si sta, in un bel pomeriggio di primavera, a non poter fare le cose che, a quindici, sedici anni, sono pratiche comuni, come trovarsi in piazza con gli amici, andare insieme a mangiarsi un gelato, a curiosare nei negozi? Ve lo dico io: malissimo. E forse ora, dopo mesi di lockdown in cui abbiamo anche noi fatto questa esperienza, pur sapendo che sarebbe stata transitoria, lo capiamo bene tutti. Resistere per anni a un tale dolore è un atto immenso ed eroico. Letteralmente.
Le neuroscienze, di recente, hanno persino scoperto che le aree del cervello interessate dal senso di esclusione sociale sono esattamente le stesse che vengono chiamate in causa quando riceviamo un colpo doloroso al corpo, come per esempio un pugno nello stomaco. Il dolore del sentirsi isolati ed emarginati per scelta dagli altri, dal punto di vista neurologico è cioè esattamente lo stesso di chi viene fisicamente percosso con violenza. Con la differenza che, nel secondo caso, compare un livido evidente a tutti, nel primo la ferita resta nascosta. Ma c’è e continua a sanguinare. E, giorno dopo giorno, penetra in profondità, fino alla rassegnazione di chi, dopo tanta sofferenza, si abitua a portarne il peso come una dannata tassa ad personam, da pagare semplicemente per poter stare al mondo da diversa/o. Ora, in questo lungo anno segnato da continue limitazioni delle nostre libertà più elementari, abbiamo tutti un po’ fatto la stessa esperienza delle mie e dei miei studenti con disabilità: abbiamo provato sulla nostra pelle che cosa significhi vivere in un isolamento non scelto, non meritato e certamente non desiderato. Qualcuno/a ha retto meglio di altri/e. Ma nessuno/a, credo, ha portato a casa un rinnovato senso di benessere da questa reclusione forzata. Bene, le mie alunne di questi due tremendi anni scolastici, davanti alla DAD, alle lezioni sospese, alle angosce e alle lamentele generali, alle limitazioni collettive non hanno battuto ciglio. Hanno lottato per rimanere ancorate a quel po’ di socialità che uno schermo di pc ha consentito di mantenere, con una serenità e una forza che nessun altro loro compagno o compagna è stata in grado di mettere in campo. Sono state le più forti di tutte/i. E noi continuiamo a chiamarle/i alunni fragili! Ormai hanno le spalle larghe, loro. Lo sanno che cosa vuol dire isolamento, fatica, silenzio, mancanza di contatto. Lo sanno perché combattono ogni giorno contro questi maledetti demoni. E hanno imparato a sfidarli, a guardarli negli occhi e forse addirittura a sconfiggerli.
La loro forza e il loro entusiasmo, alla fine, hanno contagiato anche me e la mia collega Agata, splendida insegnante di sostegno, da poco approdata nel mondo della scuola, aihmé nel più infelice dei periodi. Nei laboratori on line che ci siamo inventate, insieme alle educatrici scolastiche (figure professionali mai abbastanza valorizzate, ma indispensabili in un percorso di qualità), abbiamo finito per divertirci un sacco. Certo, qualche volta abbiamo anche pianto, perché quello spazio di ascolto e incontro è finito col diventare un luogo di elaborazione collettiva di ciò che ci stava succedendo attorno. Ma la maggior parte delle volte le lacrime ci sono scese per il troppo ridere. Da novembre, poi, siamo tornate in presenza. Solo noi docenti di sostegno, con le alunne che ci sono affidate. La scuola, quando entriamo, è vuota e silenziosa. È un regno nuovo, magico, immenso, quasi senza confini. La nebbia e i campi gelati, fuori dalle finestre, contribuiscono a restituire una sensazione di infinito e meraviglioso. Le aule vuote sono il luogo del possibile, pieno zeppo di strumenti a nostra esclusiva e completa disposizione, dove non abbiamo l’ansia delle programmazioni, dell’avvicinarci il più possibile al lavoro degli altri, i cosiddetti alunni normodotati (parola terrificante, a mio giudizio), dove il linguaggio, i contenuti e i tempi li decidiamo noi, che siamo le attrici protagoniste della scuola dei Bes. Protagoniste assolute, finalmente, e non comparse. Autrici e interpreti del nostro modo di insegnare e imparare, che è nostro e di nessun altro, cucito come un abito di sartoria sui nostri reali bisogni e desideri. Funziona, sapete? Lo so, perché in poco più di tre mesi le mie alunne hanno imparato cose che neppure in due anni di scuola tradizionale avremmo mai pensato di raggiungere.
Occorrerà che l’istituzione tutta si interroghi sulle esperienze di questi mesi di scuola aperta ai Bes, durante i quali sono accadute cose che meritano un pensiero approfondito e nuovo. Se non lo farà, avremo perso l’ennesima occasione per imparare dalle nostre stesse esperienze. A proposito, la nostra, di esperienza, è questa: il giovedì di ogni settimana arrivano le/i compagni a fare il laboratorio insieme a noi. E la scuola torna a essere quella di sempre: piena di voci, di campanelle che suonano, di scambi, di vita. Allora anche il sorriso delle mie alunne cambia. E diventa quello di sempre, quello che chiede solo di essere guardato, raccolto e magari ricambiato.
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Articolo di Chiara Baldini

Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.