Fantascienza, un genere (femminile). Doris Lessing

«I’ve won all the prizes, in Europe, every bloody one…» dichiara Doris Lessing, colta di sorpresa dai cronisti l’11 ottobre 2007 all’ingresso della propria casa in Hampstead, elegante quartiere residenziale londinese, di ritorno dalla spesa (spuntano dalla sporta carciofi e cipolle) con il figlio Peter. «Ho vinto ogni premio in Europa, ogni dannato premio. E con questo sono deliziata di averli vinti davvero tutti, l’intera collezione. Ho fatto scala reale!». Il premio Nobel per la letteratura è infatti assegnato a Lessing quarantacinque anni dopo la prima segnalazione, avvenuta nel 1962, anno di pubblicazione di The Golden Notebook (Il taccuino d’oro), l’opera che la consacra tra gli autori e le autrici più rappresentative del Novecento. «Erano trent’anni che lo aspettavo. — commenta — La gente che non ha sentito parlare di me, adesso, andrà a comprare i miei libri. È una bella cosa, guadagnerò un po’ di soldi» (le riprese video effettuate quel giorno sono accessibili in rete: https://www.youtube.com/watch?v=vuBODHFBZ8k).

La vulgata vuole che l’ambito riconoscimento sia stato attribuito con tanto ritardo a Doris Lessing, che nel 2007 ha ottantotto anni (il che ne fa la decana del premio), a causa della sua produzione in ambito fantascientifico; la motivazione del Nobel, comunque, la definisce «cantrice dell’esperienza femminile che con scetticismo, passione e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa». Distinguere all’interno del vasto catalogo a lei intitolato (cinquantaquattro opere) tra ciò che è fantascienza e ciò che non lo è non sempre è agevole: secondo Giuliano Spagnul (tra i fondatori del collettivo “Un’Ambigua Utopia”), «Lessing non c’entra nulla con la Science Fiction in quanto tale», poiché all’interno della sua narrativa non è possibile discernere tra fantastica e realistica. Tuttavia, in questa sede, si affronteranno i romanzi che con maggior nettezza sono riconducibili al genere: Briefing for a Descent into Hell (Discesa all’inferno, del 1971), The Memoirs of a Survivor (Memorie di una sopravvissuta, del 1974), la serie Canopus in Argos: Archives (Canopo in Argo: Archivi, cinque romanzi compresi tra 1979 e 1983), The Cleft (Una comunità perduta, del 2007), con l’eccezione del primo, pubblicati in Italia negli anni Duemila. A questi si può forse unire il dittico Mara e Dann (del 1999) e The Story of General Dann and Mara’s Daughter, Griot and the Snow Dog (La storia del generale Dann, della figlia di Mara, di Griot e del canedelle nevi, del 2005), che al pari di altri, ben più celebri romanzi, qui non sarà trattato.

Doris Lessing nei primi anni della sua attività letteraria (fotografia di autore non noto, presumibilmente degli anni Cinquanta)

La vita di Doris Lessing è nota, anche grazie ai due volumi autobiografici da lei stessa redatti: Under my Skin (Sotto la pelle, del 1994) e Walking in the Shade (Camminando nell’ombra, del 1997), che coprono complessivamente gli anni dal 1919 al 1962: Doris May Tayler nasce infatti il 22 ottobre 1919 a Kermanshah, in Persia, per trasferirsi bimba di cinque anni in Rhodesia Meridionale (allora colonia britannica, ora Zimbabwe) con la famiglia: nel paese africano, il padre Alfred Cook Tayler, già ufficiale mutilato di una gamba, e la madre Emily Maude Tayler (nata McVeagh), infermiera, si improvvisano agricoltori. La formazione di Doris, insofferente al rigore materno, alla disciplina scolastica e alla cultura accademica (abbandona la scuola a tredici anni, la casa familiare a quindici), è sostanzialmente quella di una autodidatta; si sposa una prima volta, con Frank Wisdom, nel 1938 (dal matrimonio nascono John e Jean), una seconda, con Gottfried Lessing (da cui prende il cognome e da cui, nel 1947, ha un terzo figlio, Peter). Nel 1949 lascia l’Africa per l’Inghilterra, divorzia dal secondo marito, sceglie di stabilirsi a Londra (ancora semidistrutta dai bombardamenti: «tutto sembrava sporco», nota), portando con sé il terzogenito (i primi due figli vivranno invece in Rhodesia con il padre), lavora come dattilografa, inizia a scrivere: il primo romanzo The Grass Is Singing (L’erba canta) è dato alle stampe nel 1950. Nel 1962, grazie a The Golden Notebook, il successo e la consacrazione letteraria, che le consentono di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura.

Doris Lessing con uno degli amati gatti il 30 ottobre 1984
(fotografia di Jan Delden)

La sua casa è luogo di incontro di artisti, scrittori, intellettuali di sinistra: tra questi Ronald Laing (1927-1987), con David Cooper considerato l’esponente più rappresentativo della cosiddetta “antipsichiatria”. Laing propone un approccio non organicista e non farmacologico al disagio mentale, giungendo poi a teorizzare che la schizofrenia rappresenti una risposta di senso alla follia della società contemporanea. Una nuova, inedita modalità di considerare la malattia mentale, o ciò che così viene chiamato, è evidente in Briefing for a Descent into Hell; pure, immediatamente nel sottotitolo, Lessing declina una seconda filiazione, forse più forte della prima: «Categoria: — si legge in traduzione italiana — Narrativa dello spazio interno. Perché non esiste alcun luogo dove andare, se non dentro». Lo spazio interno, come ben sa chi coltiva la passione per la science fiction, rinvia a James Graham Ballard (1930-2007), che lo ha codificato: si tratta — scrive con il consueto rigore Giuseppe Lippi — di «una dimensione interiore che tuttavia non coincide soltanto con le profondità dell’anima individuale, ma collettiva. Il romanzo realista si occupa, di solito, della psiche del singolo, mentre Ballard — e in questo sta la natura fantascientifica dell’operazione — si riconnette al serbatoio inconscio dell’intera umanità. E di quello che è venuto prima…». Un viaggio nella mente, dunque, di una mente che — pericolosamente — ha perduto (o conquistato?) la nozione di confine tra interno ed esterno, tra sé stessa e il mondo; una mente per la quale le parole fluttuano, incapaci di restituire senso (come per Lord Chandos di Hofmannsthal); una mente che partecipa, vibra, rinasce nell’indistinzione di una totalità sempre sul punto di andare in frantumi: forse per questo Briefing for a Descent into Hell procede per sovrapposizioni e inserti, con effetto straniante (talvolta disperante per chi legge). Bellissimi frammenti lirici — che presentano echi di Omero in primis, e di Coleridge, Shelley, Poe, Baudelaire — si incastonano nella fredda cronaca ospedaliera del ricovero di uno sconosciuto di sesso maschile, che non ha memoria della propria identità ma consapevole di altri viaggi, altre dimensioni, altri legami; questi aprono all’estenuante narrazione di un percorso (iniziatico?) in un continente sconosciuto, in compagnia di animali totemici, visitato da malevole figure femminili del proprio passato, fino a trovare precario rifugio in una città antichissima, memore di una fondazione aliena. E, ancora, nella narrazione si accumulano e intersecano — secondo una tecnica narrativa cara a Lessing — riscritture di miti fondativi del mondo greco (quello di Odisseo per primo), memorie di naufragi (reali e metaforici), emersioni temporanee dall’eterno fluire delle identità, lettere di familiari, amici, conoscenti del protagonista (una volta che ne saranno individuate le generalità), narrazioni di vite che non sono la sua (bellissimo l’inserto sulla guerra partigiana in Jugoslavia), incontri e relazioni con altri degenti (significativo quello con la giovane Violet), scambi di pareri e diagnosi tra il Dottor X (organicista) e il Dottor Y (non organicista). Incarnandosi in Giona, Giasone, Odisseo, sfuggendo alla rigida identità sociale che lo vuole Charles Watkins, il personaggio supera l’incapacità degli esseri umani «di percepire, o capire sé stessi»: gli umani, sostiene Lessing dando voce a uno spirito che prenderà vita nell’uomo senza nome, «non si sono ancora evoluti fino a una comprensione della loro identità individuale come semplice parte di un tutto, in primo luogo dell’umanità, la loro stessa specie, e tanto meno hanno raggiunto una consapevolezza dell’umanità come parte della natura, dove piante, animali, uccelli, insetti, rettili formano tutti un piccolo accordo nell’Armonia Cosmica». Un’ultima postilla sul romanzo: sconcerta il ruolo negativo dei personaggi femminili: con l’eccezione di Konstantina (l’amante partigiana, forse sognata) e, parzialmente, di Violet, all’interno di Briefing for a Descent into Hell, le donne si connotano come malvage, conformiste, stupide.

Mentori di Doris Lessing, letterari e non: da sinistra, Ronald Laing (1927-1987),
James Graham Ballard (1930-2007), Olaf Stapledon (1886-1950)

Il trait-d’union tra questo testo e il successivo The Memoirs of a Survivor, tra i più celebri e amati della scrittrice, è proprio Violet, la giovanissima paziente del reparto psichiatrico alla quale Watkins offre — invano, non sarebbe possibile in base alle convenzioni sociali — accoglienza nella propria casa, una volta rientrato nella “normalità”. Emily, personaggio fondamentale nel romanzo del 1974, è invece accolta dalla protagonista — la “sopravvissuta” menzionata nel titolo, che è anche la voce narrante della vicenda — con iniziale perplessità, che piano piano matura in convinta consapevolezza, ma è pur sempre accolta, perché nell’imperscrutabile accadere degli eventi così è, dunque ha senso assumere il compito di accudirla e nutrirla. In una città nella quale è riconoscibile Londra (la capitale post-bellica incontrata da Lessing nel 1949), «mentre tutto, ogni forma di organizzazione sociale, andava in pezzi, noi continuavamo a vivere, ci adattavamo, come se non stesse succedendo niente di fondamentale»: in altre parole, la narratrice senza nome — una donna quasi anziana nella quale senza dubbio si riflette l’autrice — e gli abitanti del quartiere residenziale in cui vive rifiutano la realtà, per irrazionale spirito di sopravvivenza, per istinto di negazione del pericolo incombente. La vicenda — che si articola con variazioni millimetriche, accelerando nelle ultime pagine — inizia in medias res: misteriosi i segnali di inquietudine, sconosciute le ragioni che portano al degrado, nella miglior tradizione distopica del Novecento, da The Iron Heel (Il tallone di ferro) di Jack London, del 1907, fino ai romanzi apocalittici di Ballard (che certamente Doris Lessing ben conosce) degli anni Sessanta. Da una finestra del proprio appartamento al piano rialzato, con accanto la ragazzina Emily e l’improbabile «bestia gialla» Hugo («occhi da gatto nel corpo di un cane — occhi e muso da gatto»), la protagonista assiste al formarsi di carovane di migranti che lasciano la città per le campagne, ove si dice sia più semplice e meno pericoloso sopravvivere; all’aggregarsi di giovanissimi spesso irriducibili a ogni regola di convivenza civile in bande dedite al saccheggio ma anche, in alcuni casi, capaci di coesione e solidarietà (reminiscenza di Lord of the flies di William Golding?); allo svuotarsi di abitazioni ed edifici, successivamente occupati da «persone d’ogni genere» e trasformati nella destinazione d’uso in magazzini, stalle, rifugi…

Dallo sguardo rivolto all’esterno, allo sguardo su Emily, percepita inizialmente come indolente e malevola, sorpresa nel tentativo infantile di piacere, estranea per differenza anagrafica, ma progressivamente osservata e accettata nel passaggio da bambina ad adolescente, nella sua relazione sofferta con Gerald, leader della comunità di minori che con alterne vicende si stanzia di fronte all’appartamento, nella maturazione a giovane donna in ragione delle esperienze e delle responsabilità di cui si fa carico.

E, ultimo, lo sguardo verso “l’altra parte”, lo spazio oltre il muro del soggiorno dell’appartamento della protagonista, lo spazio interno, o interiore, nel quale la donna si rifugia e vive, o rivive, esperienze “altre”, in una dimensione onirica o visionaria, di tempo sospeso o assoluto ove passato e futuro si saldano senza soluzione di continuità. E in questo spazio bianco — bianco talvolta accecante, talvolta sporco — episodi dell’infanzia, propri o di Emily, o forse di entrambe, o ancora della madre di Doris (che pure aveva nome Emily), scene di vita familiare, piccole storie ignobili di malvagità materna. È questa una costante, anche in romanzi successivi di Lessing: le costrizioni, vere e proprie violenze o avvertire come tali, dell’età infantile; le incomprensioni vissute e le ingiustizie subite; la dimensione di un dolore arduo da rielaborare, di una ferita quasi impossibile da sanare, inferta dalla madre. Sorprende, dunque, l’apertura enigmatica del finale, cifra di una pacificazione imprevista ma plausibile, nella dimensione dello “spazio interno” che diviene spazio comune. «Ovviamente, Emily sei tu» scrive Doris Lessing a Jenny Diski (1947-2016), la giovanissima che l’autrice ha accolto nella sua casa per circa tre anni, a partire dal 1962, quando la quindicenne aveva già alle spalle espulsione dal college, ricoveri in psichiatria, tentativi di suicidio. La convivenza, non semplice, è ben leggibile in filigrana in The Memoirs of a Survivor: poco prima di morire, Jenny, divenuta scrittrice ma non grazie alla madre adottiva, racconta tale convivenza dal proprio punto di vista nel memoir In Gratitudine (2016).

Doris Lessing con Jenny Simmonds (in seguito Diski), nel 1963, l’anno successivo all’inizio della loro convivenza (http://jennydiski.co.uk/)

L’adolescente alla deriva è accolta su richiesta di Peter, già compagno di scuola: Lessing «era ossessionata dall’idea della crescita interiore e dell’adempimento di compiti particolarmente complessi» afferma Diski in un’intervista al «Guardian» il 7 dicembre 2014; e ricorda la propria divorante preoccupazione di “non piacere” alla donna che l’ha accolta senza conoscerla, di trovarsi nuovamente senza un luogo dove andare: paura che, esplicitata, la nuova madre non comprende, accusandola in una lettera dattiloscritta (la prima di molte) di «ricatto emotivo».

«In science fiction is some of the best social fiction of our time» (Nella fantascienza vi è la miglior narrativa sociale del nostro tempo): è la risposta di Doris Lessing a Harvey Blume che la intervista per Boston Book Review del febbraio 1998 a proposito della serie Canopus in Argos: Archives, che comprende i romanzi Shikasta (1979), The Marriages Between Zones Three, Four and Five (1980, titolo italiano Un pacifico matrimonio), The Sirian Experiments(1980, Una donna armata — Esperimenti siriani), The Making of the Representative for Planet 8 (1982, Un luogo senza tempo), The Sentimental Agents in the Volyen Empire (1983, non tradotto in italiano).

Shikasta è il primo volume della serie, che tuttavia può essere approcciata anche in modo non sequenziale: è un libro ampio, ridondante, costruito (come di consueto) per accumulo, nel quale si intrecciano molte e differenti suggestioni; l’idea di partenza è che i «meschini destini dei pianeti», e a maggior ragione degli individui, siano soltanto aspetti variabili dell’evoluzione cosmica, un’idea mutuata dalla cultura sufi, cui Lessing si è avvicinata dopo la lettura di The Sufis (1964) di Idries Shas (1924-1996), controversa figura di intellettuale, che lei stessa, scrivendone il necrologio, definisce «amico e maestro», autore del libro «più sorprendente» che abbia mai letto.

Non soltanto l’intero ciclo di «space fiction» (definizione coniata da Doris), ma neppure Shikasta è riassumibile in questa sede: basti l’impianto d’insieme, secondo il quale il pianeta Canopo, in parziale collaborazione con Sirio, controlla con benevolenza il destino di Rohanda, mondo che risulta vittima della malvagità del pianeta Shammat, che lo disorienta e corrompe, trasformandolo in Shikasta, parola che evoca «sporcizia e letame», dai quali in una futura, lontana palingenesi pure determinata da Canopo esso potrà risollevarsi. Il romanzo consta di due parti: la prima è costruita giustapponendo le relazioni inviate dal prescelto Johor e documenti degli archivisti di Canopo che hanno per oggetto il passato di Shikasta, colonia planetaria a lungo protetta grazie all’armoniosa disposizione delle pietre angolari delle città che i Nativi hanno costruito con l’ausilio dei Giganti. La seconda si colloca ormai al volgere del «Secolo delle Distruzioni» (il Novecento) e comprende il diario di Rachel Sherban, sorella “terrestre” di Johor, che per guidare la rinascita di Shikasta ha preso forma umana, nonché le pagine scritte da Lynda Coldridge, schizofrenica secondo la medicina ufficiale, visionaria secondo lo psichiatra Hebert, la relazione di Chen Liu al Consiglio di Pechino (la Cina sta per scatenare la Terza guerra mondiale contro l’Europa) sul processo alle razze bianche celebrato per iniziativa delle organizzazioni giovanili, e ancora quadri, scene, racconti all’apparenza avulsi dal contesto. La prosa è torrentizia: la traduttrice Oriana Palusci la definisce «limacciosa».

Non solo il sufismo secondo Idries Shah, tra le fonti: Lessing cita nell’introduzione il romanzo Last and first men (1930) di Olaf Stapledon (1886-1950), ma compaiono echi più o meno riconoscibili dalle Scritture, sacre o escluse dal canone (il Libro di Enoch), dalla Commedia di Dante (gli «spettri lividi e affamati» che popolano la Zona Sei evocano non tanto il purgatorio quanto l’anticamera dell’inferno) e da I fratelli Karamazov di Dostoievskij («C’è qualcuno o qualcosa che ha bisogno di questa barbarie e del sangue. Il diavolo», probabilmente), dal dibattito su psichiatria e anti-psichiatria degli anni Settanta, nonché da testi di personaggi ai limiti dell’impostura quali Immanuil Velikovskij (1895-1979) ed Erich von Däniken (1935), che nelle loro opere sostengono la teoria degli antichi astronauti, le superiori intelligenze aliene che modificando il genoma dei progenitori avrebbero consentito lo sviluppo umano e ne sarebbero stati adorati come divinità.

Mentori di Doris Lessing, dalla reputazione discutibile: da sinistra, Idries Shah (1924-1996), Immanuil Velikovski (1895-1979), Erich von Däniken (1935)

Come evidenzia Ursula Le Guin in una celebre recensione pubblicata in The New Republic il 13 ottobre 1979, il limite maggiore del libro è l’adozione di un punto di vista, o di molteplici punti di vista presunti alieni, che di fatto, però, si riconducono all’ideologia dell’autrice, dunque a una dimensione umana, umanissima, che in luogo di aprire a spazi infiniti si provincializza nel salotto di casa Lessing. Ancora, per chi crede che «la scelta» sia il discrimine «che rende questa vita almeno dignitosa», che per esempio non sia indifferente aver scelto «la parte del riscatto» o quella «dei gesti perduti», la Resistenza o Salò, è inaccettabile la visione di una umanità eterodiretta, volta al male dai villains di Shammat e orientata al bene dai goodies di Canopo, una visione deresponsabilizzante, luterana, che nega il libero arbitrio e finisce con il virare verso l’eugenetica, se non verso il razzismo: nel finale, Johor sceglie infatti le persone che saranno salvate dall’olocausto atomico in base alla «rilevanza genetica».

Doris Lessing con il figlio terzogenito Peter (1947-2013) in una fotografia di autore non noto presumibilmente scattata nel 1982: sul tavolo è infatti visibile il dattiloscritto di The Making of Rapresentative for Planet 8, quarto volume della serie Canopus in Argos: Archives stampato in quell’anno. Peter Lessing visse la sua vita adulta in un appartamento adiacente a quello della madre; morì il 13 ottobre 2013, cinque settimane prima di lei (https://www.publicbooks.org/feeling-like-a-stoic-doris-lessings-experimental-fiction/)

Le Guin definisce inoltre l’idea delle donne che emerge da Shikasta «paternalistic, imperialist, authoritarian, and male supremacist»: certo, non femminista.

Così come non è femminista, né si direbbe scritta da una donna, una delle ultime opere di Doris Lessing, The Cleft (2007, titolo italiano Una comunità perduta), che si riconduce al filone cui appartengono gli esempi illustri di Herland di Charlotte Perkins Gilman (1915) e di Houston, Houston, Do You Read? di Alice Sheldon (1976). Nella storia alternativa documentata da un senatore âgée di Roma imperiale (sono menzionate la persecuzione di Nerone del 64 d.C. e l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.), ancora una volta senza nome, la prima comunità umana sulla terra era costituita da sole donne («Cleft», letteralmente fessure), che si riproducevano grazie all’influsso lunare; la prima nascita di un neonato maschio da una di esse diede poi origine agli uomini («Monsters», poi «Squirts», letteralmente schizzi: in effetti si «copula» molto nel romanzo, ma senza gioia). Nessuna eco del matriarcato ancestrale di Maria Gimbutas: le donne descritte nel volume sono contraddittorie e litigiose, per buona parte della narrazione del tutto prive di istinto materno, al contrario degli uomini che invece si adoperano, con l’aiuto di aquile e cerve, per la sopravvivenza dei piccoli, all’interno del proprio gruppo separato; salvo, poi, il rovesciamento delle posizioni nell’ultima parte della vicenda, nella quale per la disattenzione maschile tanti bimbi perdono la vita. Impietosa e malevola la descrizione delle Cleft anziane che oziano al sole: «enormi e flaccide […] appesantite da rotoli di grasso, se ne stavano distese a gambe larghe, l’organo genitale pingue e turgido, ricoperto di peli bianchi che crescevano su lembi di carne rosea».

Doris Lessing fotografata da autore non noto, presumibilmente negli anni Duemila (https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2019/12/Doris-Lessing-e-Memorie-di-una-sopravvissuta-f9cd661f-4e37-4794-bff6-8f4aacf3432b.html)

«Era la persona meno materna, meno affettuosa che abbia mai conosciuto» dice di Doris Lessing la figlia adottiva Jenny Diski. Ed è singolare che, per disposizione testamentaria, la romanziera premio Nobel, mancata il 17 novembre 2013, abbia voluto affidare i propri diari a un legale, affinché siano pubblicati soltanto dopo la scomparsa dei figli (la notizia in The Mail On Sunday del 1° febbraio 2015): il primogenito John e il terzogenito Peter le sono premorti, nel 2016 è deceduta la figlia simbolica, alla quale il divieto di lettura è stato esteso: «Non avevo mai sentito nessuno — è l’amaro commento di Jenny — che si assicurasse di avere l’ultima parola con tanta efficacia».

In copertina: Doris Lessing, di ritorno dalla spesa, risponde ai giornalisti dai gradini della sua casa londinese il giorno dell’assegnazione del Nobel per la letteratura, l’11 ottobre 2007 (New York Times).

***

Articolo di Laura Coci

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Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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