Shakespeare l’ha immortalata nei sonetti, è la dark lady, la dama tenebrosa: una creatura fatale e priva di scrupoli che usa il proprio fascino per soggiogare gli uomini e indurli al male.
Fuori dall’ordine domestico immoto e rassicurante, separate dalla necessaria funzione materna, le donne appaiono fonti di pericolo.
Gli anatomisti fiamminghi detestavano eseguire dissezioni di cadaveri femminili: il “corpo peccaminoso”, annotavano nei loro registri, emanava fastidiose puzze a fronte del “dolce e soave calore naturale” di quello maschile. Quel sesso cieco e ingovernabile con le sue “furie uterine” era disprezzato; negato proprio perché ossessivamente pensato. La donna su cui fantastica l’uomo è sempre bivalente: potente e ambigua, attraente e pericolosa, venefica e salvifica, intimorisce e affascina.
Non ci sono mai andati leggeri, gli uomini. Sartre parla di “un buco vischioso” (simile a Boccaccio per cui la vagina è “una voragine infernale”, o a Michelangelo Biondo, medico e astrologo del ‘500, che descrive “un gorgo senza fondo, putrido e mortualissimo”). Anche Sade nelle Centoventi giornate di Sodoma considera la vagina una “parte infetta” che deve far ribrezzo.
Secondo Aristotele l’umidità è associata alla lascivia: di conseguenza l’essere umido per eccellenza, la donna, è lussurioso tout court.
«È un essere infido, la donna», dice Agamennone a Ulisse nell’Ade. Il mito racconta che Ermes dotò Pandora, ‘mente sfrontata’, ‘indole ambigua’, di ‘menzogne’ e ‘discorsi ingannatori’.
«Da Adamo in poi, non c’è stata al mondo una malefatta nella quale una donna non abbia avuto lo zampino». William Makepeace Thackeray.
Pericolosi oltre ogni dire risultarono nell’Occidente cristiano — fino a un passato non così lontano — i corpi eccedenti delle streghe, signore di notti orgiastiche, sfrontate evocatrici di demoni, in definitiva donne sfuggenti al controllo o per essere indipendenti dai maschi, o per un misterioso sapere di cura che pareva metterle in contatto eretico con il sacro, o per una vecchiezza che le sottraeva alla legge della fecondità.
La strega ha rappresentato nell’immaginario il nemico, emblema delle diversità e delle culture non allineate. Si stima che, sul totale delle persone uccise dall’Inquisizione cosiddetta Santa, le donne rappresentino almeno l’80%. Maggior credulità, menti e corpi deboli, impulsività, natura carnale: difetti connaturati al sesso, suscettibili di comportamenti malvagi e di connivenza col demonio.
«Vedi le triste che lasciaron l’ago,/ la spuola e ‘l fuso, e fecesi ‘ndivine;/ fecer malie con erbe e con imago». Dante, Inferno, XX.
Il tema del femminile oscuro e distruttore è universale. Basti pensare al pantheon indiano: Kālī, Durgā, Bhairavi, Camundi. Lilith, demone nella tradizione mesopotamica, prima perversa moglie di Adamo nell’ebraismo, è apportatrice di disgrazie e morte. Moltissimi sono del pari, nell’Oriente musulmano, gli hadith che hanno per oggetto l’evocazione dell’essenza inquietante del femminile e della sua energia.
Miti che riguardano una figura castratrice (mantide, tigre, lupa) sono diffusi presso numerose culture: in gran parte di essi l’aspetto intimidatorio degli organi genitali è simboleggiato dalla “vagina dentata”, labbra socchiuse che nascondono denti affilati pronti a evirare il maschio. Tale allucinazione — travasata poi da Freud nella psicanalisi — sottolinea efficacemente la natura ambigua delle donne, che promettono il paradiso allo scopo di intrappolare le proprie vittime.
Ha nutrito tutta la storia letteraria degli amori perversi, alimenta una nutrita serie di film horror e di fumetti.
Pericolose le maliarde, temute e desiderate, tanto che ancora Hollywood le chiama vamp, vampiri che succhiano il sangue degli uomini; pericolosa la femme fatale, la belle dame sans merci di cui è ricca la letteratura decadente a cavallo tra ‘800 e ‘900: perfida e ammaliante figura che non lascia scampo, la cui attrazione perturbante porta alla rovina. Lulù di Frank Wedekind, Nanà di Émile Zola, la Lupa di Giovanni Verga sono esempi che attraggono col sapore del proibito ma allo stesso tempo fanno paura, perché attaccano l’integrità virile dell’uomo e perché incrinano certezze secolari.
Nella belle époque si affina e si diffonde questa icona femminile quale elemento irrazionale e destabilizzante rispetto alle certezze nate dall’orgoglio positivista del progresso. Una sintesi di questi elementi, del timore di una minaccia alla virilità da parte di donne che iniziano a rivendicare diritti, è rappresentata da un quadro di Albert von Keller del 1908 intitolato Amore: una donna nuda, dall’aria soddisfatta, ha appena decapitato un uomo il cui corpo giace su un letto ai piedi del quale è caduta la testa.
Idoli di perversità sono la diabolica Carmen di Prosper Mérimée; la Cleopatra di Téophile Gauthier, che uccide gli amanti dopo una notte d’amore; la Belle Dame sans merci di John Keats, che, ammaliandoli, indebolisce gli uomini a tal punto da renderli pallidi come la morte; la Dolores di Algernon Swinburne, Nostra Signora di Spasimo; l’allumeuse di Pierre Louys; la dispotica Venere in Pelliccia di Sacher-Masoch; la Fosca di Iginio Tarchetti; la Turandot di Giacomo Puccini, che fa decapitare chi non risolve i suoi indovinelli; le numerose Salomè della fin de siècle artistica e letteraria; la Sfinge di Moreau che afferra Edipo fra i suoi artigli; l’Elena Muti del Piacere di Gabriele D’Annunzio; la donna-amante, opposta alla donna-madre, che nel Trionfo della morte diventa la Nemica … e tante altre.
Sono incarnazioni o fantasmi delle pulsioni erotiche represse, dei conflitti indecifrabili che mettono l’uomo in balia della propria parte più oscura. Creano scompiglio, diffondono il caos. Vanno inquadrate da istituzioni umane, come la maternità all’interno del matrimonio.
Negli anni ’70 del ‘900 furono le femministe, impensabili protagoniste trasgressive, a esser dipinte come creature inquietanti: e finalmente fummo capaci di rovesciare la caricatura con l’arma potente dell’ironia («Tremate tremate le streghe son tornate»). Un triangolo festoso, ironico e irriverente, fatto con dita ribelli unendo le punte dei pollici e degli indici, risalendo dalle profondità degli archetipi irruppe nelle piazze: quella mimica eloquente comparve negli anni ‘70, scomparve nel giro di un decennio. Riportava nella polis un corpo sessuato. Annunciava al mondo che le donne riprendevano possesso di sé. Quel sesso che non era persona, ma solo attributo destinato alla riproduzione, diventava finalmente orgoglio politico.
***
Articolo di Graziella Priulla
Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.