Una donna nella notte polare di Christiane Ritter

Nata a Karlovy Vary (Rep. Ceca) il 13 luglio 1897, morta a Vienna il 29 dicembre 2000 a 103 anni, Christiane Ritter fu artista, scrittrice e viaggiatrice. Ci ha lasciato un solo libro, che potremmo definire un long-seller, cioè una di quelle opere che non invecchiano e che via via vengono ripubblicate con successo e con grande  interesse da parte di lettori e lettrici di ogni età. Stiamo parlando di Una donna nella notte polare, uscito la prima volta nel 1938, un classico della letteratura di viaggio e del nature writing, tradotto in molte lingue; in Italia è stato stampato lo scorso ottobre da Keller editore, tradotto dal tedesco da Scilla Forti, con i disegni originali dell’autrice.

Nella sua linearità e scorrevolezza si nasconde un piccolo gioiello, non solo per le avventure che racconta, vissute per circa un anno nell’estremo nord dell’Europa, nel lontano 1934, ma anche per la qualità della scrittura, talvolta dimenticata nelle recensioni, che hanno privilegiato le memorie e il fascino della natura selvaggia.

Il libro è una sorta di diario in prima persona perché Christiane racconta il suo soggiorno: il marito, capitano di lungo corso, a più riprese risiede in inverno per cacciare, esplorare, pescare sull’isola Spitsbergen, nell’arcipelago delle Svalbard, al largo della Norvegia, non lontano dalla Groenlandia, e continua a chiamarla per vivere con lui un’esperienza affascinante. Alla fine si convince; contro il parere della famiglia, lascia la figlia e parte con sacche e valigie piene di indumenti caldi e tante altre cose che spera le saranno utili, fra cui dentifrici e aghi da cucito, come le è stato raccomandato. Hermann le ha assicurato una dimora semplice, ma confortevole, sul lembo estremo della terra, proiettato verso il Polo Nord; il loro vicino di casa, un cacciatore, si trova a circa 90 km di distanza, in un’isola di 39.000 kmq!

Ma siamo negli anni Trenta, lei è una signora borghese di buona famiglia, i mezzi di trasporto sono ben poco comodi e non sempre si spingono fino a quelle latitudini. Quindi si tratta di una vera avventura, in cui si susseguono molte sorprese. Già nel percorso viene continuamente scoraggiata e consigliata di ritornare a casa; si trova circondata da curiosi personaggi: viaggiatori, cacciatori, esploratori, tutti rigorosamente uomini che la giudicano un po’ pazza. Uno di loro però le offre tre consigli preziosi: ogni giorno, con qualsiasi condizione climatica, dovrà camminare a lungo; dovrà poi non perdere il senso dell’umorismo, infine mai farsi dominare dall’ansia. Cose che Christiane cercherà di fare, anche se gli inizi sono duri, anzi: durissimi. Eppure è estate, figuriamoci cosa riserverà l’inverno. «Il paesaggio è sconfortante. Non c’è traccia di alberi o cespugli, tutto è grigio, spoglio e pietroso. È un mare di sassi la piana sconfinata» dove non è possibile coltivare niente; quando compare un esile fiorellino o un filo d’erba, sembra un miracolo. Anche il cibo sarà una ricerca continua: a parte le provviste di scatolame o generi alimentari essiccati, per sopravvivere sarà indispensabile cacciare tutto quello che è vivente: pesci e foche, uccelli e gli esseri che camminano sulla terraferma, volpi e persino orsi. Per fare il pane verrà riesumato del lievito vecchissimo che magicamente riprende vita. L’acqua potabile andrà cercata con fatica e ricavata o da un ghiacciaio o da qualche ruscello, magari a distanza considerevole. Non parliamo poi della baracca, in cui vivranno in tre perché alla coppia si è aggiunto il giovane Karl come aiutante e amico. L’esterno è un disastro, all’interno la stufa emette fumi pestilenziali e i giacigli appaiono precari e scomodi, anche se il tutto è abbellito, si fa per dire, da pelli di renna, panche ricavate da legname di recupero, «lavoretti di intaglio realizzati dai cacciatori durante la notte polare, così toccanti nella loro semplicità primitiva». E pensare che l’autrice era convinta di andarsi a riposare in un luogo solitario in cui sferruzzare tranquilla, leggere e dormire a volontà. Niente di più errato.

Christiane Ritter con Hermann davanti alla baracca

Comincia presto il confronto con la dura realtà: esplorazioni in barca e sugli sci, nebbia fitta, vento gelido, rischi continui, altre capanne cadenti, ma si aprono davanti agli occhi meravigliati di Christiane scenari incredibili, albe radiose, acque luccicanti, tramonti chiari nell’orizzonte azzurro pallido, la visita di una piccola volpe artica, l’allegro viavai degli uccelli. Finché cominciano i preparativi per la lunga notte artica: 132 giorni di buio, da ottobre a febbraio, per cui occorre rifornirsi il più possibile di cibo, petrolio, legna, carbone, cortecce arrivate chissà da dove; tutto può servire: vecchi abiti (per fare delle tendine), pezzi di gomma (per risuolare le scarpe), utensili abbandonati alla corrente. «La spiaggia pullula di testimonianze di eventi tragici, come assi e salvagenti con i nomi delle navi quasi cancellati. Una volta ho trovato un’asse con un’incisione ancora ben leggibile: Cpt. Nobile». Arrivano anche la solitudine e la prima terribile bufera: Christiane rimane senza i due compagni per 13 giorni, e per nove infuria una tormenta di neve mai vista né immaginata in cui deve arrangiarsi e lottare contro gli elementi che stanno letteralmente ricoprendo la capanna, nella notte perenne e nel rumore assordante che lei paragona alla folle corsa di un treno fra ponti metallici e gallerie.

Cartina dell’isola. La freccia indica la baracca

Durante il periodo di buio totale le attività rallentano, ci si raccontano storie, si gioca a carte, si rammendano i panni, si cuce, si fa la calza (anche gli uomini, «con una foga quasi folle e i ferri sottili nelle mani possenti»); Karl intaglia il legno, Hermann legge e compila un diario, come Christiane; i compiti sono distribuiti equamente, compresa la cucina, che così diventa più varia e spazia dal porridge al pane biscottato, dalla pernice alla foca, dagli gnocchi alle preziose uova di edredone. Ma la scrittrice cerca sempre di tener fede al proposito di “uscire”, che ora significa muoversi gattoni, attorno alla baracca, a occhi chiusi, facendo dieci o venti giri. Finito il periodo della notte polare, ancora lei non lo sa, verrà il freddo, quello vero: quaranta, cinquanta gradi sotto zero. Ma la meraviglia intorno porta l’aurora boreale, visioni lunari, colori inimmaginabili: «il cielo è di un lilla intenso, ma sulla linea dell’orizzonte glaciale tende a un tenue blu cobalto. Da est si irradiano vivaci sfumature di giallo. L’enorme distesa del mare ghiacciato riflette le tinte del cielo in una veste opalescente». Finché un bel giorno arriva il pack, ovvero la massa di ghiaccio che porterà gli orsi, cioè carne fresca, finalmente.

Non si sa molto sulle condizioni di salute di chi vive in questi luoghi, ma dal libro emerge che è facile ammalarsi di scorbuto, qualcuno è stato ucciso da un orso, oppure è letteralmente impazzito e non è più uscito dalla propria capanna, altri sono stati presi dalla depressione, altri si sono persi fra i ghiacci o affondati con le loro barche, altri ancora sono precipitati nell’inedia e si sono lasciati morire, spaventati dal vuoto, dal silenzio, dalla tremenda solitudine, dall’incertezza del futuro. Ecco perché non ci si deve abbandonare alla noia e alla pigrizia, ma agire, fare, muoversi sempre, senza scoraggiarsi di fronte alle mille difficoltà.

Il 12 aprile è un giorno speciale perché arriva un visitatore, il primo essere umano dopo tanto tempo! Si tratta di un cacciatore norvegese, il famoso Hilmar Nøis, che vive sull’isola da 25 anni, insieme a un giovane medico e ai suoi cani da slitta; un avvenimento memorabile. L’uomo ha percorso 280 km per andare a ritirare la posta e raggiungere la loro abitazione; è via da giorni, ma per lui è tutto normale, è la vita che ha scelto ed è sempre felice di rendersi utile. Mentre faticosamente inizia la rinascita primaverile, nuovi piccoli eventi movimentano le giornate del terzetto, primo fra tutti l’uccisione di un orso, che vuol dire cibo nutriente dopo mesi e mesi, e poi esplorazioni in territori ignoti. «Un giorno sentiamo una sirena in mare. Riconosciamo il saluto della Lyngen, che si è aperta un varco tra i ghiacci. Proviamo in parte gioia, in parte dolore, perché per me è il momento di salutare Grahuken e tornare in patria». Come tutte le esperienze estreme, anche questa si è conclusa; per Christiane significa, con profonda nostalgia, il ritorno alla normalità della vita quotidiana, e non sarà sempre facile perché l’Artico le è rimasto nel cuore.

Il piccolo libro si conclude e ci lascia tante emozioni, che sarebbe bello condividere con scolaresche, visto che potrebbe essere un utile strumento didattico. Al di là delle affascinanti descrizioni e degli eventi, insegna infatti a trovare in noi il coraggio, la forza di superare le difficoltà, ma anche il rispetto per la natura incontaminata, da cui prendere solo lo stretto necessario per la sopravvivenza. Un’opera attuale, dunque, che ci fa riflettere sui nostri limiti e ci aiuta a guardarci dentro, alla ricerca della pace e della libertà.

Christiane Ritter
Una donna nella notte polare
Keller editore, Rovereto, 2020
pp. 304

***

Articolo di Laura Candiani

Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume Le Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.

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