Insomma, donna, pare che tu debba partorire con dolore e che abbia pure il cervello più piccolo rispetto a quello dell’uomo. Ma di poco, stiamo parlando di una differenza di peso mediamente del 10-12%, relativa alla maggiore taglia corporea del maschio rispetto alla femmina nella specie umana. Un dettaglio che non influisce in alcun modo sulle capacità intellettive, anche se nei secoli passati è stato usato come pretesto per teorizzare la presunta inferiorità delle donne. La differenza vera la fanno le connessioni strutturali e il modo in cui si presentano nel cervello.
È del 2014 lo studio che ancora oggi fa da riferimento per questo settore di ricerca, Sex differences in the structural connections of the human brain, che, dopo aver analizzato 949 giovani tra gli 8 e i 22 anni – 521 femmine e 428 maschi – ha rivelato le differenze di genere della composizione del cervello umano. I due emisferi del cervello maschile hanno meno connessioni, un po’ come se fosse costituito da due cervelli separati, mentre nelle donne i due emisferi hanno molte più connessioni transcraniche; questo si traduce per esempio nella maggiore attitudine femminile al multitasking e nella maggiore facilità maschile di analisi dello spazio. In termini evolutivi significa che il cervello maschile è ottimizzato per la comunicazione intraemisferica e quello femminile per la comunicazione transemisferica. Lo studio rivela inoltre come le traiettorie evolutive si separino in giovane età e sottolinea l’importanza del genere e dell’ambiente nello sviluppo della persona e del cervello.

Altre ricerche hanno dimostrato che il cervello femminile è dotato dell’11% in più di neuroni nelle aree del linguaggio e dell’ascolto, mentre le zone delle emozioni e della memoria presenti nell’ippocampo sono più grandi e meglio collegate rispetto a quelle del cervello maschile. Gli uomini hanno più circuiti neuronali nella zona dell’amigdala, in cui si attivano le risposte di fronte a situazioni di pericolo e in cui si generano i comportamenti aggressivi, mentre la zona cerebrale in cui si genera l’ansia è quattro volte più grande nelle donne che negli uomini. Uno studio di Schlaepfer suggerisce che le donne abbiano una corteccia prefrontale dorsolaterale più grande del 23,2% e il giro temporale superiore più esteso del 12,8% rispetto agli uomini. Si tratta delle due regioni in cui si produce il linguaggio, il che, sempre secondo Schlaepfer, spiegherebbe le migliori abilità verbali e comunicative del genere femminile. Secondo altri studi ancora, gli uomini rispondono agli stimoli emotivi in modo diverso rispetto alle donne perché in loro si attivano principalmente la regione frontale inferiore sinistra e la corteccia posteriore; questo li porta a prestare maggiore attenzione agli aspetti sensoriali e alla preparazione all’azione, mentre la donna reagisce attivando soprattutto il sistema limbico e il cervelletto che la rendono più attenta al vissuto emotivo. Gli uomini avrebbero anche maggiori connessioni cerebrali nell’emisfero destro, quello preposto alle attività motorie.
In sintesi, la neuroscienza sembra suggerire che il cervello maschile sia strutturato per facilitare la connettività tra percezione e azione coordinata, quello femminile per facilitare la comunicazione tra modalità di elaborazione analitica e intuitiva.
A diverso cervello corrispondano anche differenti effetti di uno stesso farmaco e differenti propensioni allo sviluppo di particolari malattie.

E del cervello esiste una malattia in particolare, destinata nei prossimi decenni a diffondersi sempre di più a causa dell’aumento dell’aspettativa di vita di cui hanno goduto le generazioni da quella dei cosiddetti boomers in poi (mentre sulle aspettative di vita delle prossime generazioni è ancora tutto da vedere, data la pessima situazione climatica planetaria che potrebbe benissimo invertire la tendenza alla longevità). Parliamo dell’Alzheimer, una malattia che secondo le ricerche americane vanta una percentuale di pazienti donne pari ai 2\3 del totale.
L’Alzheimer è una malattia degenerativa che deriva dalla distruzione dei neuroni, causata dalla presenza della proteina beta-amiloide. Si tratta di una sostanza neurotossica che, per ragioni ancora sconosciute, si forma a partire da un metabolismo alterato della proteina App. La beta-biloide si deposita tra i neuroni fino a creare un collante, inglobando placche e fasci di fibre aggrovigliate. Le placche amiloidi e gli ammassi neurofibrillari che si vengono così a creare sono la caratteristica tipica di questa malattia, insieme alla diminuzione del neurotrasmettitore acetilcolina che determina una minore comunicazione dei neuroni. Col tempo le cellule cerebrali – già compromesse dalla beta-biloide – perdono quindi la capacità di trasmettere impulsi nervosi, portando all’atrofia progressiva del cervello.

Perché i malati di Alzheimer perdono la memoria? Perché tra le parti del cervello più colpite c’è proprio l’ippocampo, la zona in cui si concentrano i processi fondamentali di apprendimento e memorizzazione. Col tempo la compromissione della memoria si accompagna a ulteriori criticità come i problemi di linguaggio e di orientamento, incapacità di giudizio o alterazioni della personalità. Tutti sintomi di cui aveva sofferto una paziente dello psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer (1864-1915), che nel 1906 aveva voluto studiarne il tessuto cerebrale dopo l’autopsia. Era stato così che aveva potuto rilevare la presenza delle macchie anomale e dei fasci di fibre che oggi conosciamo come le placche amiloidi e gli ammassi neurofibrillari di cui sopra, scoprendo in tal modo la malattia che oggi porta il suo nome.

Un morbo per tanti versi ancora misterioso e che aumenterà drasticamente il proprio impatto sulla società; nei prossimi anni l’Italia potrebbe avere non poche difficoltà, poiché il nostro Paese predilige una medicina d’intervento ospedaliera e acuta, e deve ancora incrementare la medicina territoriale, di supporto e sussidio, decisamente più indicata per una gestione efficace. La grande scommessa che l’Italia deve vincere è quella di creare una medicina territoriale permeata di cultura di genere, per garantire cure efficaci a tutti e tutte in generale, e nel particolare per intervenire con puntualità sul trattamento dell’Alzheimer che è una malattia prevalentemente femminile. Si presenta come sbilanciata a (s)favore delle donne a causa della tendenza del corpo femminile all’infiammazione – che inizia in adolescenza e caratterizza tante malattie in diverse fasce di età – e a causa della ridotta produzione degli estrogeni in menopausa, che può aumentare le possibilità di sviluppare il morbo sotto predisposizione genetica. La minore quantità di estrogeni altera la produzione dei neurotrasmettitori specifici del cervello, influendo quindi sulle capacità cognitive che proprio l’Alzheimer va ad alterare.

Come si può intervenire per prevenire l’Alzheimer? Certamente ci sono fattori di rischio non modificabili: parliamo del genere femminile, della menopausa, della fascia di età – dai 65 anni in poi – e dell’etnia caucasica che sembra essere quella più colpita, senza dimenticare i fattori genetici come la presenza dell’allele apoE4 che predispone allo sviluppo della malattia. Ma ci sono anche ambiti su cui si può intervenire: diabete, obesità, ipertensione, fumo, traumi cerebrali. Evitare o prevenire questi fattori, soprattutto nelle portatrici dell’allele apoE4, aiuta a combattere l’insorgere dell’Alzheimer. Si pensa inoltre che l’alterazione del metabolismo della proteina App – quello da cui dipende la formazione della beta-biloide – potrebbe avere non solo cause genetiche ma anche ambientali o dipendenti dallo stile di vita. Quindi, come sempre, svolgere attività fisica e aumentare l’informazione sul tema restano le due azioni che possono fare la differenza.
Ma c’è ancora tanto da fare per conoscere e curare l’Alzheimer. Ricordare le nostre differenze genetiche, anche quelle del cervello, può aiutarci a colmare il vuoto creato da studi mirati finora al trattamento della specificità maschile, adottata come “norma”. Le conoscenze di genere saranno utili per identificare sempre meglio trattamenti diversificati e finalizzati alla prevenzione e alla cura delle malattie, anche del declino cognitivo.
Perciò è vero, per tante cose come per il cervello, che le dimensioni non contano.
Contano le persone, e il modo di curarle.

Per saperne di più:
http://www.alzheimer.it/notiz23.pdf
Alzheimer: che cos’è