Articolo scritto a partire da rielaborazione di Feminist Attachments, capitolo 8 di The Cultural Politics of Emotion, di Sara Ahmed, accademica femminista anglo-austrialiana che si occupa di femminismi, teoria intersezionale e studi post-coloniali.
Cosa spinge le femministe a denunciare e combattere forme di potere, di violenza e di ingiustizia? E cosa accade quando provano a farlo? Che ruolo hanno le emozioni all’interno di queste dinamiche?
Solitamente le donne, nel dibattito pubblico, vengono concatenate a una serie di associazioni semantiche e concettuali, che si aggravano più le donne sono lontane dal centro dello standard mediatico e rappresentativo, ovvero l’uomo bianco benestante e cisgender. Sara Ahmed riporta il caso di Sunera Thobani, sociologa e attivista originaria della Tanzania, e della reazione al suo discorso anti-imperialista e anti-razzista fatto a poche settimane dall’11 settembre 2011. Fioccano accuse di anti-americana e dalla parte dei terroristi, in parte in quanto sta ripetendo il trauma dell’attentato e in parte in quanto non-bianca e quindi più vicina alla minaccia che alla soluzione, almeno per certa parte dell’opinione pubblica. Segnala così la forte polarizzazione, innescata dalla war on terror, di chi è all’interno di un gruppo e chi invece ne è considerato al di fuori. Ma ciò che suscita maggiore interesse in Ahmed, oltre alle verità imperialistiche su cui si fondano gli Stati Uniti e il loro schietto sciovinismo, è l’ondata di delegittimazione compiuta dai detrattori di Thobani che connotano il suo discorso come “delirante”, “malato” e “pieno d’odio”, spostando velocemente il fuoco delle critiche dai contenuti alla persona e al corpo stesso di Thobani, evidenziandolo come animato da passioni esclusivamente negative. Questo scadimento nell’emotività si lega quindi fortemente all’identità di genere e alla nazionalità, e l’emotività è stata spesso utilizzata per screditare il “corretto giudicare”, la razionalità e l’imparzialità di un argomento. Eppure, si chiede Ahmed, perché dovremmo rassegnarci di fronte alla gerarchizzazione ragione/emozione che si trasfigura nel maschile/femminile, bianco/non/bianco? Soprattutto se si pensa al fatto che non solo si escludono certi corpi dal dominio della razionalità, ma soprattutto gli aspetti emozionali e incarnati del pensiero e della ragione.
Per questo rigetta la dicotomia ragione-emozione come opposizione necessaria e utilizzata per liquidare il femminismo e imporre la subordinazione della femminilità. Ahmed inoltre propone di rivalutare la nostra comprensione dell’emozione come parte integrante della ragione, in quanto sono proprio le emozioni il primo terreno dove avviene la politicizzazione delle soggettività. Sono le traiettorie emotive a trasportarci verso il terreno della critica, delle lotte e della visione di mondi alternativi. Su cosa si baserebbe altrimenti il desiderio di un mondo femminista se non su una forma di speranza? E la rabbia che guida la più feroce delle critiche? O la gioia nel riscoprire la propria storia e le donne cancellate tornare alla memoria collettiva?
A questo proposito l’antropologa Michelle Rosaldo propone una forma di pensiero incarnato/incorporato che costituisce sia le motivazioni di una persona femminista sia il coinvolgimento emotivo che il femminismo mette in gioco nel suo divenire lotta e legame, riorientando la persona rispetto al mondo.
Rabbia, dolore, amore, gioia, meraviglia, speranza compongono il movimento di politicizzazione che rianima il rapporto tra il soggetto e la collettività, il femminismo si irradia e crea nuove forme di vita su quest’asse che connette l’individuale al collettivo, sebbene quest’ultimo passo sia mediato da una lettura e interpretazione ulteriore di quel movimento emotivo di fondo.
Ma questo legame e attaccamento femminista come si relaziona con gli altri legami di cui è composto il mondo di tutti i giorni? Certa letteratura femminista critica questi legami di tutti i giorni, rapporti sociali in generale in famiglia o negli spazi pubblici, che riproducono l’ordine dominante e vanno lasciati andare, mentre Ahmed propone al posto di un approccio anti, una visione del non, ossia di svuotamento del presente per costruire mondi alternativi, piuttosto che di ridursi a una semplice opposizione (che come ci insegna Ursula K. Le Guin, proprio l’opposizione rafforza la polarità che osteggia). Cerca dunque di porre le basi per effettuare il passaggio difficilissimo tra ciò in cui siamo investiti (le cose stesse che critichiamo) e quello che potremmo essere (che si muove con il nostro spostarsi degli investimenti emotivi). Ciò che ancora non siamo e ciò che non vogliamo più essere, piuttosto che sradicare direttamente, quindi smettere di nutrire e alimentare nuovi tipi di rapporti.
Sarah Ahmed identifica, quindi, attraverso il proprio percorso di militanza una serie di emozioni cruciali nel plasmare la lotta politica femminista: la rabbia (e il dolore sottostante), la meraviglia e la speranza. Premessa ma non condizione sufficiente nei percorsi emotivi è, infatti, il dolore: il dolore per le violenze subite e per la miriade di piani su cui avvengono, che non possono essere assolutamente ridotti a un piano fisico, sebbene in questa dimensione possano raggiungere le manifestazioni più cruenti. La militanza femminista trova necessariamente nel dolore un passaggio critico fondamentale che collega violenze individuali a crisi sistemiche. Eppure, Sara Ahmed segnala come esista un rischio di feticizzare il dolore in quanto unica forma di espressione e rappresentazione di problemi sistemici, ignorando le complessità e le mediazioni sociali in discorsi che affondano nella costruzione dei soggetti collettivi politici e nella storia culturale e politica. Questo perché il dolore bisogna imparare a leggerlo e la rabbia funziona come veicolo per indirizzarlo in un orizzonte di senso, collegando reazione alle ingiustizie con l’azione per costruire mondi alternativi. La rabbia connette e contagia, e, se inquadrata nella mediazione e politicizzazione femminista, può diventare momento di coscienza critica e militante. Inoltre la rabbia può avere una funzione ambivalente che sta tra la creatività e la negazione.
In questa ambivalenza la forza della meraviglia si inserisce perfettamente come tentativo di andare oltre l’affilata ma stretta dimensione della rabbia e vedere il mondo con occhi nuovi. Lo stupore per la potenza del quotidiano nel processo del cambiamento, ad esempio. La meraviglia permette di aprire il femminismo all’alterità e non rimanere bloccato in una semplice negazione dell’esistente. Questa emozione è fondamentale per vedere con occhi nuovi ed è legata alla capacità di vagabondare (to wander in quanto strettamente intrecciato a to wonder (meravigliarsi, chiedersi)) nel mondo dei “come se”, dei possibili, riscoprendo il già conosciuto in quanto storico e quindi trasformabile. La meraviglia dunque svela la mutevolezza straordinaria dell’ordinario e cessa di dare per scontato le cose.
Infine è inevitabile che in qualsiasi percorso politico non esista la speranza. Inquadrata come un sentire emotivo da Sara Ahmed, la speranza è funzione suprema e indispensabile della politica. Radicata nel rapporto con il presente in quanto disegno di rottura delle aspettative, cessazione del ripetersi del passato. La speranza come emozione germoglia spontaneamente nelle domande sul futuro del femminismo, su cosa si vuole cambiare e sul rapporto con i progressi delle femministe del passato. Indirizzata verso un oggetto, allarga allo stesso tempo l’orizzonte di una persona e proietta le persone a radicali impulsi di gioia e al desiderio. Ben oltre la speranza intesa come categoria cristiana di salvezza (e quindi in effetti in una defezione continua dalla realtà), la speranza risulta invece concreta e immanente domanda sul futuro che si riflette sul presente, che innerva le stesse pratiche quotidiane sebbene viva di orizzonti ancora inattuali.
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Articolo di Riccardo Vallarano

Attualmente studente di Gender Studies all’Università Ucl di Londra, si è laureato all’Università La Sapienza di Roma in Storia moderna e contemporanea. Adora la lettura più della scrittura. È attivo in più campi della cultura ma continua a restare nelle retrovie. Indubbiamente interessato al mondo che verrà.