Il nome di Atalanta Baglioni, esponente di spicco di una nobile famiglia perugina, è legato a un’opera di Raffaello, ora conservata nella Galleria Borghese di Roma, la Deposizione Baglioni, appunto, detta anche Borghese, dal luogo dove è conservata. Datata e firmata 1507, fu commissionata da Atalanta, in lutto dopo la morte del figlio Grifonetto ucciso nel 1500.

La sua committenza trae origine da una pagina di cronaca nera tra le più cruente che la storia di faide familiari ricordi. Siamo agli inizi del XVI secolo, un secolo di conflitti continui: alcune città molto ricche, caratterizzate da un florido commercio, sono mira di famiglie potenti che vogliono prenderne il dominio. A Perugia c’è la famiglia Baglioni, forte e temuta. Grifonetto, all’anagrafe Federico Baglioni, era nato a Perugia nel 1477, lo stesso anno in cui il padre Grifone, signore di Perugia, fu ucciso da parenti usurpatori. Federico fu chiamato Grifonetto in memoria del genitore e crebbe nella certezza d’esser il legittimo erede della locale Signoria, e nel desiderio di vendetta. Ricco, aitante, impavido, viveva insieme alla madre e alla sua famiglia nel sontuoso palazzo lasciatogli in eredità dal nonno Braccio; intorno ai diciotto anni sposò la bella Zenobia Sforza, dalla quale ebbe tre figli. L’occasione per vendicarsi si presentò con un solenne matrimonio fra cugini, tra Astorre I e Lavinia Colonna, nozze che sarebbero passate alla storia come le “nozze rosse”. Il 14 luglio 1500 con alcuni compagni Grifonetto trucidò gli sposi e tutti i maschi della casata, tranne Giampaolo, che era riuscito a mettersi in salvo. Saputo dell’eccidio, Atalanta maledisse il figlio e condannò apertamente il gesto, ma la storia non finisce qui. Grifonetto regnò un solo giorno insieme a Carlo I il Barciglia, perché il giorno dopo l’eccidio, il 15 luglio, Giampaolo lo sorprese sulla via principale della città e l’uccise. Si racconta che negli ultimi istanti di vita, tra le braccia di Zenobia, sua moglie, e sotto lo sguardo della madre Atalanta, accorse prontamente, Federico si pentì del male fatto e chiese perdono.

Disegno preparatorio per la Deposizione Baglioni, Raffaello (a destra)
La sua tragica fine è stata ricordata da molti scrittori. Oscar Wilde nel romanzo Il ritratto di Dorian Gray così racconta: «Grifonetto Baglioni col suo giustacuore trapunto, il berretto gemmato e i ricci in forma di acanto, che uccise Astorre con la sposa e Simonetto col suo paggio, era di una tale bellezza che quando giacque morente nella piazza gialla di Perugia coloro che l’avevano odiato non potevano trattenere le lacrime e Atalanta, che l’aveva maledetto, lo benedisse». Alcuni anni dopo la madre, che non si era rassegnata al dolore, commissionò, per la cappella di famiglia, una grande pala al giovane Raffaello. Atalanta voleva che quest’opera fosse una sorta di riparazione, una preghiera all’Eterno che perdonasse i peccati di quanti erano stati coinvolti nel misfatto, anche quelli del figlio. Nel 1507 Raffaello non aveva ancora compiuto venticinque anni, ma già aveva al suo attivo molti incarichi a Perugia, tra cui la Pala degli Oddi, i cui committenti appartenevano alla famiglia rivale dei Baglioni. Si lanciò con fervore nell’impresa, elaborando anche tanti disegni preparatori. In un primo tempo, e lo si evince appunto dai disegni, aveva pensato a una classica Deposizione, col Cristo sdraiato per terra, circondato da diversi personaggi, tra cui la Vergine e la Maddalena, sul modello della Deposizione del Perugino, suo maestro.

Poi però si decise per una scena più attiva, con tanti personaggi in movimento, più che una Deposizione aveva in mente di fare un Trasporto di Cristo al sepolcro: sollevò il corpo del Cristo e divise il gruppo in due parti, in mezzo alle quali collocò un giovane, aitante e dalle belle fattezze, ritenuto il ritratto di Grifonetto, nei panni di Giuseppe d’Arimatea o di Nicodemo.

Lo stupendo nudo del Cristo risulta molto simile, per la posizione, la perfezione anatomica, la resa di un corpo senza vita, e per quel braccio abbandonato, a quello che il suo grande rivale Michelangelo aveva realizzato a Roma nella Pietà di S. Pietro una decina di anni prima. Braccio abbandonato che imiteranno Caravaggio nella sua Deposizione e J.L. David nella Morte di Marat.


A destra il gruppo delle donne circonda la Vergine Maria/Atalanta, che, non reggendo al dolore, sviene, mentre una donna inginocchiata si gira indietro per sorreggerla: anche questa curiosa posizione assomiglia molto alla Vergine accovacciata che si volta per prendere il Bambino dalle mani di Giuseppe nel Tondo Doni, altro capolavoro di Michelangelo Buonarroti. Zenobia sarebbe invece raffigurata nella Maddalena che solleva la mano di Cristo.

La pala era composta dalla tavola centrale, su cui è raffigurato il Trasporto di Cristo al sepolcro, da una cimasa con Dio Padre benedicente e Angeli, da un fregio a grottesche, entrambi conservati ancora presso la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, e da una predella con una decorazione monocroma a grisaille raffigurante le virtù teologali Fede, Speranza e Carità, affiancate da putti, conservata ai Musei Vaticani.



Con quest’opera Raffaello abbandonò i modi della tradizione umbro-toscana e si aprì a un nuovo linguaggio espressivo, perfetto equilibrio tra idealizzazione formale ed espressione del sentimento. L’opera rimase nella cappella della famiglia Baglioni nella chiesa di San Francesco al Prato a Perugia fino a una notte del marzo 1608, quando papa Paolo V, con la complicità dei frati, fece sottrarre la pala per donarla al nipote Scipione Borghese che l’aggiunse alla sua collezione. Il Papa poi, per placare gli animi della cittadinanza perugina, fece realizzare una copia del quadro di Raffaello. Passano decenni, secoli e arriva Napoleone. La pala prende la via di Parigi in mezzo a centinaia di altre opere d’arte italiane. Ma, tramontato l’astro napoleonico, il Papa manda in Francia Canova che riesce a recuperare la maggior parte delle opere trafugate, tra cui il quadro di Raffaello, che torna a Roma, alla Galleria Borghese.
A riprova di quanto l’immagine fosse rimasta sempre viva nel ricordo della popolazione locale, furono realizzate molte copie. Nella Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia ne sono conservate due: la prima replica importante fu realizzata per la chiesa di S. Agostino da Domenico Alfani, amico di Raffaello, e da suo figlio Orazio nel 1554, quindi più di mezzo secolo prima del colpo di mano che privò Perugia di una delle sue opere più celebri; la seconda è quella dipinta dal Cavalier d’Arpino nel 1608, voluta da Scipione Borghese che in questo modo cercò di riparare il torto commesso. Sassoferrato realizzò intorno al 1630 una replica per S. Pietro in Perugia e numerosi pittori rimasti anonimi ne fecero altre per chiese e palazzi.
In copertina: particolare della Deposizione Baglioni, Raffaello.
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Articolo di Livia Capasso

Laureata in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ha insegnato Storia dell’arte nei licei fino al pensionamento. Accostatasi a tematiche femministe, è tra le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile.