«Profondamente convinta che la vita sia un’occasione splendida (il che depone a favore di un sostanziale ottimismo della razza umana di cui faccio parte), e consapevole che il tempo che ci tocca è disperatamente limitato, ho cercato di vivere più vite: in parte cadendo dentro racconti e romanzi, e in parte cercando di vivere più lati e sfaccettature possibili, in più luoghi.
Non so se ci sono riuscita, ma comunque ho abitato in sedici città diverse, in tre continenti e ho almeno tre vite che sto continuando a portare avanti in parallelo: in una sono consulente aziendale a progetto e gestisco corsi di comunicazione. Nell’altra scrivo fantascienza e fantasy. E nell’altra ancora dipingo strani paesaggi pieni di colori».
È Daniela Piegai, scrittrice attiva tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Duemila, a raccontare sé stessa e le proprie tre vite sul n. 41 di Futuro Europa del gennaio 2005, che comprende, oltre a questa nota autobiografica, la ristampa di due racconti e un romanzo inedito. Va da sé che in questa sede sarà privilegiata la seconda esistenza di Daniela, quella di autrice, straordinaria quanto difficilmente riconducibile a un genere codificato, sospesa tra sogno e stupore. Sospesa no, in cammino nella vita, tra le vite che non sono la sua eppure le appartengono grazie alla narrazione; dopo aver rinunciato, e da un pezzo, a credere che «per percorrere più velocemente la distanza da un punto A a un punto B, si debba per forza tracciare una rigida retta» (Dieci giorni per Lucrezia), nella sua opera Piegai suggerisce che la vita, appunto, divaga, seguendo percorsi imprevedibili, e per compiersi si nutre di buona sorte e soprattutto disgrazia: può essere felice e magnifica, ma è comunque segnata dall’esperienza del naufragio e della perdita, perché nell’atmosfera terrestre «l’elemento che in percentuale è più abbondante […] non è l’azoto, è il dolore. Se esistessero rilevatori del dolore sarebbero sempre sovraccarichi» (Fai che la morte ti colga vivo).
L’esordio di Daniela Piegai avviene nel 1978, quando Nord pubblica nella collana di fantascienza Cosmo, a cura di Sandro Pergameno, il primo romanzo, Parola di Alieno, cui segue, a due anni di distanza, per lo stesso editore e nella stessa serie, Ballata per Lima. Il pianeta del riscatto. La scrittrice ha trentacinque anni: la molteplicità delle esperienze e la curiosità per il mondo non le hanno consentito e non le consentono dedizione assoluta alla science fiction, o comunque all’attività letteraria, che di fatto sarà progressivamente abbandonata negli anni Duemila a vantaggio della pittura. Daniela Piegai, infatti, nasce a Parma l’11 gennaio 1943, vive nella giovinezza a Firenze e compie gli studi all’Università di Pisa; è corrispondente del glorioso quotidiano Paese Sera, collabora con Il Corriere dei Piccoli, Intrepido, Il Monello, e, come lei stessa scrive, è formatrice nell’ambito della comunicazione; viaggia in Italia e in Medio Oriente (di atmosfere mediorientali sono densi i suoi testi) fino all’approdo a Cortona, ove lavora e vive con la famiglia e (nel 2005) «quattro gatti, cinque camaleonti, tre tartarughe, un orsetto lavatore».
In Parola di alieno la Terra del XVI millennio, 448° anno dalla fuga, è rappresentata come scenario di un gioco interstellare di cui quattro esseri umani sono inconsapevoli protagonisti, sfuggendo però al destino di pedine che altri vorrebbero per loro: Crel, proletario insoddisfatto e risentito, uno dei tanti, inquieti «pellegrini della notte»; Djallard, pastore iraniano (ai margini dei centri abitati stazionano greggi di pecore, utilizzate come depuratori viventi perché in grado di scindere le molecole complesse responsabili dell’inquinamento ambientale), che la città ha «intimidito e deluso» e che sogna e rimpiange «il suo deserto sotto il sole»; Tinía, giovane orfana cresciuta nel culto della virtù da genitori integralisti religiosi, che non ha «mai baciato un uomo, nemmeno di primavera»; Ander, poliziotto «dalla faccia dura e disperata, uno dei pochi che si impegnavano sul serio» nel proprio lavoro. Protagonista del romanzo è anche la città, rappresentata nella propria impietosa decadenza: «la folla sembrava procedere a branchi, verso i teatri, i night clubs, le sale corse, e giù giù fino alle taverne, ai cubicoli di pornovisione, alle salette semiclandestine dove si scommetteva la vita per quattro soldi e dove si beveva un vino pesante e drogato. Ogni ritrovo era stipato di umanità che voleva dimenticare». Quattro sono anche le specie le cui vicende si sono intrecciate nell’universo: i Dumbar, «grande evolutissima razza galattica», popolo di «disarmati sognatori» che cede al «fascino della bellezza» fino a perdersi; i feroci Llanta, che portano «alle estreme conseguenze un istinto di morte che avrebbe finito per annientare anche loro stessi»; i Ghita, «folletti dello spazio», che hanno elaborato «una filosofia tutta giocosa dell’esistenza»; i Krieg, dalla «strategia bellica spietata», che lasciano dietro di sé «rovine in fiamme e campi calcinati dal fuoco chimico». E ci sono i Terrestri, che hanno esasperato «un progresso tecnologico sempre più freddo e irrazionale», condannandosi all’infelicità senza rimedio in «quella commedia che chiamano vita».

Madj, un Dunbar sfuggito al massacro, e Umperskayler, un Ghita di cui non c’è troppo da fidarsi, sono i giocatori della partita nella quale saranno intrecciati vite e destini umani: sarà «il margine di libero arbitrio delle pedine» a rendere «unica e inimitabile la trama della partita». Il romanzo, molto ben costruito, si articola nella scomposizione e ricomposizione delle vicende dei quattro personaggi umani, in cui risulta determinante l’entrata in scena dei cosiddetti «Invasori», i Dumbar, alla ricerca del proprio pianeta perduto (tra loro il sensibile Madj); procede poi lungo due piani, quello della vita nella città degradata e senza nome e quello del sogno, o meglio della proiezione «di una seconda realtà, sovrapposta a quella consueta, dotata di vita autonoma», nella quale Tinía diviene Eva, archeologa spaziale in un pianeta desolato e sabbioso. È Tinía, nella quale si riflette l’autrice, il personaggio chiave di Parola di alieno: curiosa del nuovo (nonostante l’educazione ricevuta), sceglie infine e non è scelta, assecondando la vitalità capricciosa e ribelle dell’esistenza, dimostrandosi capace di accogliere l’altro, dando prova del coraggio di amare e sognare che è caratteristica femminile. La prosa è evocativa, a tratti sontuosa, nelle atmosfere palpabili, nelle emozioni sottotraccia, nei protagonisti problematici e proprio per questo umanissimi: la fantascienza si intreccia con la filosofia e con l’etica, nella ricerca del senso profondo della vita, nello sguardo capace di stupore e compassione, nell’attenzione per chi è indifeso e diverso.
Ballata per Lima sembra riprendere il filo (provvisoriamente) interrotto dal finale di Parola di alieno: altri i protagonisti, ma ancora una volta la centralità è riservata a una donna, Anna («Anna quarantotto barra dieci, aggiunta di terza classe»), che per istinto sfugge alla rieducazione e al condizionamento, al regolamento e all’obbedienza, attraendo a sé il capitano Vantek di Antares, che vede in lei «la fragile civetta albina che aveva posseduto da ragazzo: sì, la stessa aria leggera e assorta, lo stesso modo di piegare la testa, la stessa impressione di qualcosa di delicato e pallido…» e che coglie l’occasione di diventare un uomo capace di scegliere, un uomo libero.

Al percorso narrativo della coppia, si intreccia quello di una piccola comunità di giovanissimi umani, bambini e bambine, orfani dopo la “Notte dei Fuochi” (nuova e terribile Kristallnacht), che virano all’adolescenza: Capitano, Cicciona, Roccia, Acciuga, Pipistrello, Grillo, riuniti in piccola comunità fuorilegge nei boschi e nelle paludi di Comacchio, ove il Po si apre in delta salso per perdersi in mare, una comunità che sperimenta la scommessa della sopravvivenza e la resistenza al condizionamento della Macchina «piena di orgoglio», divenuta «divinità, incontrastata e serena». Quello di Lino, diciassettenne irregolare che lascia il gruppo in cerca di cibo, è scoperto in città, a Ravenna, ed è deportato ai lavori forzati sull’inospitale pianeta Tanek, ove sono internati (quasi) senza possibilità di fuga devianti e ribelli e ove la mortalità è altissima, come in ogni istituzione totale di novecentesca memoria. E quello dell’Olandese, ingaggiato dal Rosso e dalla sua ciurma di pirati spaziali, un po’ eroe salgariano e un po’ avventuriero galattico, pioniere delle rotte dello Spazio Interno, che il destino porta a Lima (con Anna, Vantek, Lino), ultimo baluardo della libertà, città dalla fisionomia levantina, dai mille vicoli e dalle mille taverne, luogo dell’appuntamento con il destino, ove «per un attimo tutti i fili» saranno «stretti in un solo nodo». «È in bilico l’acqua, sul culmine di una giogaia: quale sarà il filo d’erba che la farà deviare verso le vallate del nord? O quale capra di montagna sposterà il sasso che la farà invece rimbalzare sulle rocce tiepide del sud?»: donne e uomini saranno liberi o schiavi? E «cosa sarà tutto questo tra mille anni, se non una leggenda?».

a Montepulciano nel 1987, in occasione di Italcon 13 (https://www.fantascienza.com/mffi/foto/1987-95.html)
Dopo altri due romanzi (Alla fonte del re, del 1985, e Nel segno della Luna bianca, con Lino Aldani, pure del 1985), ecco Il mondo non è nostro, forse l’opera di punta di Daniela Piegai: edita da La Tartaruga nel 1989, nella collana “Blu” che ha accolto Diario di una astronauta di Naomi Mitchison e Il richiamo di Judith Merril, è oggi pressoché introvabile (ed è davvero un peccato). Ancora una volta, nello spazio di un’avventura fantastica più che fantascientifica, vite e destini di uomini e donne di un presente post apocalittico (un centinaio di anni prima, un’oscura «Tragedia» ha sconvolto la terra) e di un passato che non può passare si incontrano in un altrove senza tempo e senza futuro, sullo sfondo una città nella quale convivono fianco a fianco «l’agglomerato brillante di vetri dei grattacieli e la sequenza delle tozze case giallastre di mattoni crudi», e «verso nord, sul fianco dell’altipiano, sullo sfondo lontano di alte montagne innevate, una quantità di tende testimonia la persistenza di una vocazione nomade, e i lati delle tende, gonfiati dal vento, sbattono come stracci grigi e scoloriti, in sintonia col respiro dell’inverno». Ancora una volta, la capacità descrittiva di Piegai evoca paesaggi fisici e interiori suggestivi, lasciando senza fiato. Qui la voce narrante è quella di Capitano (il giovanissimo di Ballata per Lima divenuto adulto? o la reincarnazione dell’Olandese del medesimo romanzo?), epigono di una schiera di eroi maschili in ambito di science fiction e non solo, apparentato non tanto a Conan the Barbarian o John Stark, quanto a Northwest Smith (che — nota Giuseppe Lippi — «lascia un brandello di sé stesso» in ogni avventura che vive) e, in altro genere, a Philip Marlowe «invecchiato e ammorbidito dagli anni» (così Nicoletta Vallorani); ma la vera protagonista, adolescente mutante e telepata suo malgrado, è Tenera — in cui si travasano Tinía, Anna e (certamente) Daniela — «dolce bambina bionda dagli occhi che fanno specchio all’universo», elemento determinante e salvifico per la piccola spedizione di eslegi che penetrano nella «fortezza vecchia», in cerca di preziosi reperti dell’antica tecnologia che gli umani del presente non sono in grado di produrre. A Capitano e Tenera si uniscono Biondo, ladro e ricercato, Archimede, scienziato benpensante, e Mimosa, ambiguo sensitivo, pure dotato della capacità di entrare nelle menti altrui. L’impresa è letteralmente fuori del tempo, perché in conseguenza di un’antica esplosione di crononi la fortezza e i suoi abitanti vivono in una distorsione temporale, sospesa e infelice: se entrarvi è possibile, uscirne, superandone i sette livelli a partire dal più profondo, risulta difficilissimo.

dall’omonimo romanzo di Dino Buzzati (1940)
Un po’ castello incantato e un po’ fortezza Bastiani, il luogo dell’azione del romanzo è pervaso da un’atmosfera «svagata e soffice», che a tratti sembra spegnere o quanto meno attutire «l’esultanza di vivere» soprattutto di Capitano, che tra gli ufficiali (una donna tra loro, il tenente Ara) e i soldati del presidio ha portato il «contagio della vita», laddove il desiderio più grande è quello della morte, epilogo naturale del corso di un’esistenza che non sia strozzata nel suo fluire. E la percezione di un destino ineluttabile si fa via via più forte a mano a mano che il gruppo di avventurieri e sopravvissuti, superando trappole temporali e fragilità psicotiche, sale da un livello all’altro, fino al primo, fino all’apertura della porta sul reale, ove il tempo riprende il suo scorrere incessante: «… non ci dite / che la luna nel pozzo è illusione: / lo sappiamo. / Ma siamo inarrestabili falene, / gazze ladre, incantate / da tutto ciò che scintilla…».

Parola di alieno (1978), Ballata per Lima. Il pianeta del riscatto (1980), Il mondo non è nostro (1989).
Le immagini testimoniano il temporaneo abbandono della ‘vena provolona’ ma nulla hanno a che fare con i contenuti delle opere
Nel 1997 la casa editrice La Tartaruga è costretta a vendere marchio e catalogo: e così il secondo (e ultimo) episodio della saga del Capitano, il romanzo Fai che la morte ti colga vivo, è pubblicato su Futuro Europa, l’ambiziosa rivista diretta da Lino Aldani e Ugo Malaguti, n. 23 del luglio 1998. Protagonisti sono nuovamente Capitano («Adesso ho accumulato tempo sulle ossa, ferite nell’anima e lotte perdute. Ma non ho perso la voglia di sfidare gli dèi, chiunque essi siano») e Tenera («E infine sono riuscita a convivere con la mia imbarazzante capacità, che in più di una occasione, tutto sommato, mi ha salvato la vita: è difficile essere una donna in questa specie di giungla»), cui la scrittrice concede pari opportunità di narrazione, alternandone resoconti e riflessioni a margine di una nuova avventura in «un’angolo d’Asia» dove «galleggiano i rifiuti della storia», nella quale «marceremo ancora dietro le bandiere dell’ideale, a farci ammazzare come è sempre successo» (Capitano), esercitando però «l’eroismo quotidiano, quello che serve semplicemente a vivere» (Tenera). Anche in questo romanzo, come in Ballata per Lima, Piegai tratteggia un memorabile gruppo di bimbi: Occhi blu, che, protetto da Tenera, dà inconsapevolmente inizio a rapimenti e riscatti, fughe e inseguimenti; e poi Alì, Ben Sufi Achmir Medha, Sadhi, Dattero, piccoli innocenti come tutte le bambine e i bambini che nel mondo sono resi schiavi, venduti, battuti, violati, prostituiti… L’umanità che si accalca nella narrazione vive una condizione di mezzo, ha ancora, in qualche modo, la possibilità di scegliere da che parte stare, a quale destino andare incontro nel mondo: un mondo che affida la propria speranza di salvezza proprio ai bambini e ai ribelli. Tenera, già efebica Peter Pan, abbandona L’Isola che non c’è e sceglie il mondo adulto, diventando donna e madre adottiva dei piccoli: sono lei e Irina, la compagna di Archimede che viene aggregato all’impresa, a volerli salvare, costi quel che costi (e nel finale anche Mimosa si riunirà al gruppo). Tenera diventa donna e accetta il rischio dell’amore, che può essere perdita, ma è irrinunciabile: «E ogni tanto mi sento perfino attirata verso le profondità pericolose del passato, quando le mogli, le madri, le nonne, si annullavano per i compagni, i figli, i nipoti; e mi domando se una maniera così bastarda di amare possa aver marchiato fino a questo punto i nostri circuiti mentali, da aggredirmi a tradimento, con la voglia di cedere, di smettere di lottare. Perché questo continuo stare in guardia è terribilmente pesante, e sarebbe piacevole, ogni tanto, lasciarsi semplicemente vivere, e al diavolo questa umana fatica di essere coerenti».

edito da L’Ippocampo (2020)
Parola di alieno, Ballata per Lima, Il mondo non è nostro e Fai che la morte ti colga vivo: quattro romanzi tra fantascienza e fantasy uno più bello dell’altro, scritti in una prosa fluida, elegantissima, nella quale i pensieri si rincorrono in flussi e gorghi, con un’aggettivazione ricca e connotativa, i dialoghi sono mimetici del parlato, capaci di esprimere talvolta lirismo, talvolta ironia, con echi di fiabe e reminiscenze letterarie. Quattro romanzi che meritano lettura appassionata e dunque ostinata ricerca nelle biblioteche che li custodiscono e nei circuiti del mercato alternativo che li offrono in vendita. Quattro romanzi che meritano di essere ristampati (è un appello? sì, è un appello! e ringrazio la generosità di Valter Casiraghi che me ne ha donati alcuni). Anzi, cinque: Dieci giorni per Lucrezia, presentato sul n. 41 di «Futuro Europa» del gennaio 2005, è altrettanto bello. I dieci giorni dell’avventura di Lucrezia, antico nome romano per una giovane donna della contemporaneità, sono scanditi dal ritmo di una filastrocca materna e vissuti sul limine tra reale e irreale, tra amore e dolore: «onirico, spiazzante, in bilico tra sogno, incubo e realtà — scrive Ugo Malaguti — questo gioiello di Daniela Piegai non appartiene a nessuna classificazione letteraria». Come Alice attraversa lo specchio, la protagonista del romanzo breve si addentra in una terra incognita con la «disperata, struggente speranza che nulla sia davvero impossibile»; e il risveglio, il ritorno alla normalità, è soltanto dolore, perché «la vita è diversa dalle favole, e il lieto fine non è contemplato».
«Racconti: Un centinaio, da Urania a Rinascita, ecc.»: così la stessa Daniela Piegai in calce allo scritto autobiografico Le mie tre vite (nel menzionato Futuro Europa n. 41). Tra i racconti degli anni Ottanta e Novanta, si segnalano Moriranno (1986), Le lacrime della Luna (1986), Chi ha cervello di vetro (1998), che hanno per protagoniste giovani donne irregolari dalla sorte malevola e ingenerosa, donne solitarie, talvolta (come altri personaggi femminili di Piegai) in dialogo interiore con la madre: una gitana cantora e citarista, una ladra adolescente che per solo premio dalla vita vorrebbe un filo di perle, una strega che si perde per amore; struggente Solo per amicizia (1988), narrato in prima persona (come anche i precedenti) da un’anziana dimenticata che prima di scivolare via dal mondo dona la vita a chi, inanimato, non potrebbe averla.
Ma il racconto più bello di tutti — dà i brividi e smuove gli affetti — è L’imbianchino di anime, che la stessa autrice ha eletto a rappresentarla (gli «sono affezionata» ha scritto): pubblicato su Urania n. 1565 del dicembre 2010, in appendice a Lazarus di Alberto Cola, «era nato come romanzo e, in corso d’opera, è diventato un racconto», per questioni di tempo (così racconta a Romina Braggion, che riporta l’affermazione nel suo blog Diario di Erre Bi). L’idea di partenza è che i luoghi conservino memoria delle persone che li hanno abitati, delle vicende che vi sono state vissute, e che le emozioni e i sentimenti siano in qualche modo rimasti invischiati, come veli sovrapposti gli uni agli altri, alle pareti delle stanze che li hanno visti nascere e sfiorire. «Nessuno capisce davvero cosa significa bonificare una casa dalle tracce di tutte le anime che ci sono transitate», dice Cecco, «uno dei più vecchi imbianchini della zona», che ha la connotazione familiare delle colline toscane; «Ed è un lavoro terribilmente delicato, perché sono sottili come bucce di cipolla, e come le bucce delle cipolle devono essere sfogliate a una a una, facendo attenzione perché non si strappino». Significa, anche, rinunciare alla propria vita, per vivere, con distacco, quelle degli altri. La svolta per Ceccaccio — non solo tra i più anziani, ma anche tra i più esperti nella professione — avviene quando l’amico di sempre Pietro gli commissiona la bonifica della villa sulla collina dei cedri: qui per il settantacinquenne imbianchino risuona il canto antico di una sirena.

«Io ti ho amato e, ricordalo, quando sarai stanco, quando non ne potrai proprio più, non avrai che da sporgerti sul mare e chiamarmi: io sarò sempre lì, perché sono ovunque, e il tuo sogno di sonno sarà realizzato» dice Lighea al giovane amante nel racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa intitolato La sirena: «Un uomo ha diritto di scegliere come morire, anche se molto spesso non può scegliere come vivere», dice a sé stesso Cecco, vecchio e stanco. Come in Fai che la morte ti colga vivo, la narrazione assume un ritmo binario grazie all’ingresso in scena di Piccolina (due lunghi assolo per ciascuno dei due protagonisti), altro memorabile personaggio di adolescente (ha diciannove anni), sul limitare dell’età adulta, rappresentato dall’esame di stato che la qualificherà “imbianchina”, a dispetto dell’essere «la più giovane, […], la meno alta, […] l’unica donna tra quindici studenti» (ma anche «la più brava»). Piccolina che dopo aver liberato una prima volta l’anziano collega compie una scelta dolorosa, la scelta giusta.
Da alcuni anni Daniela Piegai — «persona con una luce caldissima» come appare a Francesca Cavallero — non pubblica più: dipinge meravigliosi, suggestivi, coloratissimi quadri, ove volpi, gatti e civette sembrano colloquiare con bambine e bambini in paesaggi incantati, alla luce della luna. «Ho almeno tre romanzi nei famosi cassetti — confida — Ma ci restano, perché ho voglia di scrivere, ma non di andare in giro a cercare di pubblicare».

(https://www.facebook.com/GalleriaDPiegai, per gentile concessione dell’autrice)
«Avevo quattro anni quando nacque mio fratello. Pare che fossi molto possessiva nei suoi confronti e che lo considerassi il mio bambolotto, così mi spedirono da una zia. E quando, dopo tre mesi, mi dissero che mi riprendevano a casa, io decisi di fuggire. La zia stava in campagna, in una villa bianca, alla fine di uno stradone.
Mi trovarono dopo quattordici chilometri, dei contadini che tornavano col carro pieno di fieno, al calare del sole. Mi chiesero chi ero e che facevo tutta sola. Io, sincera, risposi che stavo scappando da casa.
Così mi caricarono sul fieno e mi riportarono all’ovile. E la sera che diventava viola, il frinire dei grilli, il dondolio ipnotico del carro, l’odore del fieno, la sua scricchiolante leggerezza, me li ricordo ancora come un incanto sospeso».
Grazie a Daniela Piegai per aver reso noi, lettori e lettrici, partecipi di questo incanto.
In copertina: quadro di Daniela Piegai (https://www.facebook.com/GalleriaDPiegai, per gentile concessione dell’autrice).
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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.