In principio Dio era femmina o, come recita nel 2000 il titolo del libro dello storico spagnolo Pepe Rodriguez, Dio è nato donna. La donna è presente tra i primi oggetti creati dall’essere umano e incarna una forma di divinità primigenia, capace di generare la vita e riprodurre la specie. È una Grande Madre, l’archetipo femminino, maturato nell’inconscio collettivo ai primordi dell’umanità, il principio assoluto della vita e della creazione, corrispondente al Dio della Bibbia, una divinità onnipotente, onnisciente e partenogenica, capace di creare da sé stessa, simbolo della fertilità e della perenne palingenesi delle stagioni.
Le numerose statuette note come “Veneri preistoriche” sono l’espressione più evidente del culto della Dea Madre (o Grande Dea), Signora del Tempo, che presiede all’eterno ciclo di vita-nascita-morte-rinascita. Il suo culto si ritrova in forme differenti tra diverse popolazioni in un periodo molto esteso che, almeno in Europa, va grosso modo dal 35.000 a.C. al 3.000 a.C. circa.
La più antica rappresentazione del corpo femminile risalirebbe a 35.000 anni fa, agli inizi del periodo Aurignaziano. È la Venere di Hohle Fels, la statuina paleolitica scolpita nell’avorio di un mammut, lunga appena 6 centimetri, ritrovata nella grotta di Hohle Fels, nei pressi di Schelklingen, in Germania, nel 2008. Prima di tale ritrovamento, il più celebre esempio di scultura paleolitica era la Venere di Willendorf, una statuetta di 11 cm risalente a 25mila anni fa, rinvenuta un secolo prima, nel 1908. Entrambe rappresentano una donna grassa, con seni spropositati, natiche grandi e prominenti e una vulva accentuata. Se per millenni la divinità principale è stata femmina, il ruolo delle donne era certamente non inferiore a quello dei maschi. Si è ritenuto a lungo che la donna avesse come compito esclusivo quello di procreare, dato che in molte sculture vengono evidenziati gli organi connessi alla riproduzione. A scapito delle altre parti del corpo, il ventre e i fianchi sono prominenti, e il seno voluminoso.

Le Veneri paleolitiche, dette steatopigie ovvero “dalle grandi natiche” o callipigie “dalle belle natiche”, statuine le cui dimensioni variano dai 20 ai 4 centimetri, diffuse in un’area molto vasta dall’Atlantico alla Siberia, dal Marocco a Israele, e risalenti mediamente a un arco di tempo compreso tra 10.000 e 20.000 anni fa, sono l’icona di un “dio femmina” primordiale. Hanno tutte in comune la rappresentazione accentuata ed estremamente realistica degli attributi sessuali, mentre le altre parti del corpo sono sommariamente abbozzate. Queste Veneri si richiamano al culto della Dea Madre e celebrano la femminilità secondo i canoni estetici dell’epoca, che è possibile rinvenire ancora oggi a livello tribale. Ad esempio, la steatopigia come ideale estetico femminile si ritrova nel Sudafrica fra i Boscimani e gli Ottentotti.
Ma le Grandi Madri sono anche l’espressione artistica delle strutture ginecocratiche che si perdono nella notte dei tempi. Il primo a formulare autorevolmente la teoria sul matriarcato agli albori del genere umano è stato nell’Ottocento lo storico svizzero Johann Jacob Bachofen (1815-1887), secondo il quale ad un’originaria organizzazione sociale matriarcale, nel cui contesto le donne erano le detentrici del potere in ambito familiare, politico e religioso, presumibilmente tra il 3500 e il 2500 a.C., sarebbe succeduta una società patriarcale da quando gli uomini cominciarono a usurpare alle donne il potere religioso. Successivamente, la studiosa italiana Momolina Marconi (1912-2006) confermò la tesi del matriarcato secondo la quale dalla Sardegna alle coste africane e anatoliche sarebbe esistita una civiltà matriarcale, quella dei Pelasgi, che credeva in una Grande Madre mediterranea, un’età dell’oro, caratterizzata dalla parità fra i due sessi e da un equilibrato bilanciamento dei ruoli. Dal canto suo, l’antropologa lituana Marija Gimbutas (1921-1994), attraverso gli oggetti venuti alla luce in decine di campagne di scavo, convalidava l’ipotesi di Bachofen, deducendo che nel bacino del Mediterraneo, e non solo, prima degli Egizi e dei Sumeri, avrebbe imperato il matriarcato in una società egualitaria e pacifica, che professava il culto di una dea madre, progenitrice dell’umanità e dispensatrice della vita sulla Terra. Secondo la ricostruzione di Gimbutas, in tre ondate successive, tra il 4500 a. C. e il 3000 a. C., popoli indoeuropei provenienti dall’Est dilagarono in Europa e nel Vicino Oriente, spingendosi fin sulle rive dell’Indo. Sarebbero stati essi ad orientare verso il patriarcato i popoli sottomessi sconvolgendo la vecchia organizzazione ginecocratica. «Fu un processo lento che, sebbene giunto dall’esterno, trovò l’appoggio di diversi maschi delle popolazioni matriarcali. Si iniziò a pretendere che le mogli si trasferissero nel villaggio dei mariti e che i beni familiari e del clan si trasmettessero per linea maschile», spiega l’antropologa Luciana Percovich, autrice del libro Oscure madri splendenti pubblicato nel 2007. Alla base di questa autentica rivoluzione ci fu la guerra, e con essa l’importanza crescente assunta dalla forza maschile.
I ritrovamenti e le scoperte degli ultimi decenni hanno confermato che la civiltà del Paleolitico era incentrata sulle donne. Decine di etnie matriarcali con un’organizzazione sociale matrilineare, in cui cioè discendenza, eredità e successione avvengono in linea materna, sopravvivono oggi tra piccoli gruppi etnici che vivono in aree isolate, come tra i Mosuo dello Yunnan cinese, gli indiani Cuna nelle isole al largo di Panama o i Trobriandesi della Nuova Guinea.
La francese Claudine Cohen, eminente filosofa e storica della scienza, nel suo libro Women of Prehistory del 2003, getta nuova luce sul ruolo strategico delle donne prima dell’invenzione della scrittura.Nel Paleolitico, durante la remota epoca del nomadismo, gli uomini si dedicavano alla caccia, le donne alla raccolta dei vegetali commestibili (erbe, bacche, radici e frutti) secondo un’equilibrata spartizione, o meglio ancora, specializzazione dei ruoli e con la pratica acquisirono una notevole (per quei tempi) cultura erboristica, tramandata poi di madre in figlia.

Musei archeologici di Istanbul
«Le donne contribuiscono molto alla sussistenza del gruppo e non è ardito ritenere che l’invenzione dell’agricoltura sia attribuibile proprio alle donne», asserisce Cohen. L’economia di raccolta garantiva, infatti, un nutrimento sicuro molto più della caccia affidata agli uomini. Dunque per un lunghissimo periodo di tempo fin verso il 10.000 a.C., quando si data la fine del Paleolitico superiore, le donne raccoglitrici-riproduttrici hanno mantenuto un ruolo preminente all’interno delle comunità. Hanno lavorato la pietra allo stesso modo dei maschi, come dimostrano molti arnesi forgiati per il proprio uso personale. Da un’attenta analisi dei graffiti e delle pitture rupestri dell’Europa occidentale si scopre, inoltre, che le mani impresse non sono solo di uomini, ma anche di donne mature e ragazze.Quindi le donne hanno iniziato a fare arte in prima persona.
Un’accurata ricostruzione contraddice e ribalta il cliché che vuole la donna preistorica sedentaria e perpetuamente incinta, impegnata esclusivamente nell’attività procreativa. Erano le donne a viaggiare e a percorrere enormi distanze, mentre lo stanzialismo diventava una caratteristica prevalente degli uomini che tendevano per lo più a vivere nel territorio dove erano nati. Secondo una recente ricerca del Max Planck Institute di Jena e dell’Istituto di Preistoria e Archeologia di Monaco di Baviera pubblicata sulla rivista scientifica Pnas, per un periodo di circa 800 anni, tra il 2.500 e il 1.650 avanti Cristo, le donne con i loro spostamenti individuali avrebbero contribuito a trasmettere conoscenze e a scambiare informazioni su utensili, usi e costumi di altri gruppi etnici.
Le statuette paleolitiche di donne incinte furono probabilmente create dalle donne stesse non per esaltare la propria maternità bensì come amuleti e pendagli per proteggere la gravidanza.

A partire dal VII millennio avanti Cristo, con il passaggio al Neolitico e quindi ai gruppi stanziali che “inventano” l’agricoltura, la Grande Madre sopravvive in alcune delle prime civiltà storiche, pur rigorosamente patriarcali, come Cibele nell’area anatolica nel II millennio a. C., Gea e Rea in area ellenica, Mater Matuta nella civiltà etrusca, Bona Dea o Magna Mater nel mondo romano.
Cambia radicalmente il ruolo della donna. Con l’utilizzo dei primi rudimentali utensili per lavorare la terra, richiedenti un’energia muscolare che le donne non avevano, viene meno il loro ruolo primario e indispensabile ai fini della sopravvivenza e del cibo. Di fronte ad una crescente domanda di generi alimentari e alla conseguente necessità di coltivare campi lontani dai villaggi, difficilmente raggiungibili dalle donne impegnate nella cura della famiglia, esse si videro costrette a cedere progressivamente all’uomo la gestione delle attività produttive, primo passo verso la loro millenaria subordinazione. D’altra parte, però, la donna consolida e rafforza il suo ruolo di madre poiché ha più tempo per dedicarsi alla prole e accudirla e, nello stesso tempo, intraprende una serie di lavori che, utilizzando e trasformando i prodotti della terra e dell’allevamento, sono riconducibili ad un embrionale artigianato. Con l’Età del ferro alla fine del II millennio a.C. l’evoluzione sociale in senso patriarcale era definitivamente compiuta.
In copertina: la Venere di Willendorf, risalente a 25mila anni fa.
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Articolo di Florindo Di Monaco

Docente di Lettere nei licei, poeta, storico, conferenziere, incentra tutta la sua opera sulla Donna, esplorando l’universo femminile nei suoi molteplici aspetti con saggi e raccolte di poesie. Tra i suoi ultimi lavori, il libro La storia è donna e le collane audiovisive di Storia universale dell’arte al femminile e di Storia universale della musica al femminile.