«In un numero ormai lontano di Urania (Urania n. 469: “Metà A, metà B”) proponemmo accanto al nome prestigioso di Asimov quello ancora poco noto di Alfred Bester. Oggi ripetiamo l’operazione affiancando a quello dell’affermatissimo Silverberg il nome dell’oscuro Kit Reed. Ma, come allora, attenzione! Se alla prima lettura i racconti di Reed vi sembreranno sconcertanti e “difficili” riflettete che così parvero appunto, al principio, anche quelli di Bester, o di Ballard. Rileggeteli e non tarderete, passato il primo “choc”, a scoprire il marchio inconfondibile dello scrittore di razza».

Tanto «oscuro» è Kit Reed che Carlo Fruttero e Franco Lucentini, curatori di Urania dal 1964 al 1985, ignorano che non si tratta di uno «scrittore», ma di una scrittrice, alla quale è dedicata la metà del numero 517 della popolare pubblicazione (29 giugno 1969), intitolata Metà R, metà S, appunto dai cognomi Reed e Silverberg (autore ben più noto e più volte vincitore dei premi Hugo e Nebula).
Mezza antologia: è il massimo tributo assegnato nel nostro Paese a un’autrice certo anticonvenzionale e complessa, che attraversa i generi della scrittura dell’immaginazione — dalla science fiction, al weird, all’horror — , ma capace di esiti vertiginosi. La valutazione, purtroppo, è fondata sulla lettura di soli sedici racconti (otto dei quali trattati in questa sede), quanto è stato possibile riunire attingendo ai reperti più antichi della biblioteca familiare, al mercato alternativo, alla comunità degli appassionati di fantascienza, sempre generosi nel mettere a disposizione i testi in loro possesso.
Sedici racconti (compresi nel quarantennio tra 1958 e 1998, dunque rappresentativi dell’intera carriera letteraria di Reed) dispersi in tredici volumi o volumetti, uno e non più di uno per ciascuna antologia collettiva, con l’eccezione naturalmente di Urania n.517 che ne accoglie quattro; tredici volumi o volumetti ormai introvabili se non nei repertori di libri vintage, tranne uno: la raccolta Sister of the revolution, a cura di Ann & Jeff Vandermeer, che dedica un singolo racconto a ventinove autrici tra «fantascienza, fantasy e femminismo», pubblicata in Italia da Nero nel 2018 con il titolo, ben più opaco, Le visionarie (peraltro, il nome di Kit Reed non compare tra quelli di richiamo in copertina, ma è compreso nelle «altre»).
Un peccato. È sufficiente confrontare la voce Kit Reed sul database Isfdb, che presenta la produzione in lingua originale, e sul Catalogo Vegetti, che computa le traduzioni ed edizioni in lingua italiana, per rendersi conto di una sproporzione desolante: il primo conta sedici romanzi, dieci antologie e centoquaranta racconti (limitando il censimento alla sola scrittura creativa e al genere science fiction e dintorni), il secondo venticinque racconti, ai quali si aggiunge quello pubblicato dall’antologia Le visionarie e fanno ventisei. Punto.
A dire il vero, Kit Reed non ha ricevuto riconoscimenti neppure in patria, negli Stati Uniti: soltanto tre nomination ad altrettanti James Tiptree Jr. Award, espressione tangibile di una scrittura irriducibilmente femminile e per molti aspetti femminista, capace di cogliere con ironia che spesso sconfina nel sarcasmo le contraddizioni e le storture di una società (quella statunitense) mai a misura di donna, nella quale, anzi, le donne sono vittime sacrificali, talvolta di propria volontà, talvolta sconfitte in un inane tentativo di ribellione, oppure diventano esse stesse mostruose complici nel mantenere l’ordine ingiusto delle cose o nell’agire contro gli uomini vendette di spietata crudeltà; una scrittura capace di sondare gli spazi più oscuri della psiche, tra perversione e rassegnazione. Perché, come si vedrà, Kit Reed non è autrice da happy end.
Lillian (o Lilian) Hyde Craig nasce il 7 giugno 1932 a San Diego, California, da John R. Craig e Lillian Hyde (nome identico a quello della figlia): il padre, ufficiale della marina, fu comandante del sottomarino Grampus, impiegato dagli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale in rischiose azioni nel Pacifico contro la flotta del Sol Levante e scomparso poco prima della battaglia dello Stretto di Blankett, forse colpito da cacciatorpediniere giapponesi, il 5 marzo 1943; il Grampus, con tutto il suo equipaggio, fu considerato disperso il 22 marzo e Craig fu dichiarato ufficialmente morto il 23 marzo 1944.

A causa della professione del padre, durante l’infanzia la piccola Kitten (‘Gattina’, vezzeggiativo in cui si riconosce e che la porterà a cambiare il nome proprio in età adulta) vive con la famiglia a San Diego, Honolulu, New London, Washington DC, Panama, St. Petersburg, Parris Island e Beaufort South Carolina: «la prima cosa che ho imparato è stata come trovare la strada del ritorno, da qualsiasi luogo» dirà in una bella intervista rilasciata il 21 agosto 2013 a Scott O’Connor per la Los Angeles Review of Books. Sono gli anni in cui è «always the new girl in the school»: osserva, si mimetizza tra le compagne («devi imparare a parlare come loro, camminare come loro e vestirti come loro, o ti piomberanno addosso come uno stormo di uccelli su un ferito e ti beccheranno a morte»), elabora una visione della società americana disincantata e irriverente.

(Il lavello della cucina è noioso), in https://lareviewofbooks.org/article/the-kitchen-sink-is-boring-an-interview-with-kit-reed/
Dopo aver concluso gli studi in un istituto di religiose (che ne incoraggiano la vena creativa, dimostrata fin da bambina), lavora per cinque anni come giornalista al St. Petersburg Times di St. Petersburg, Florida, ove si è trasferita con la madre (memoria della società locale «with bridge club» è in alcuni memorabili racconti), fino al matrimonio (alla fine degli anni Cinquanta) con Joseph ‘Joe’ Reed, docente di letteratura angloamericana e artista, e al trasferimento a Middletown, Connecticut. E alla scelta della carriera di scrittrice, che riesce a coniugare con la maternità (negli anni Sessanta la coppia ha infatti due figli, Mack e John, e una figlia, Kate), grazie a un’organizzazione ferrea, scandita dai tempi di presenza della baby sitter: lavora a romanzi e racconti dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 12. All’attività creativa, affianca quella di insegnante presso la Wesleyan University, formando alla scrittura centinaia di giovani. Trascorre gli ultimi anni di vita prendendosi cura di Joe, malato di Alzheimer, di cui, a detta dei figli, è «unflagging caretaker» (instancabile custode); muore il 24 settembre 2017, a ottantacinque anni. «Fisicamente, era un po’ come un piccolo leone, eretta — così la ricorda Alexander Chee, a sua volta scrittore — perfetta nella postura, ben vestita, con un gusto spiccato per i colori vivaci e gli accessori, sempre con un po’ di rossetto e di mascara, i capelli rossi tagliati corti».
The wait (L’attesa, ripubblicato successivamente come To be taken in a strange country, Essere portata in un paese straniero, titolo con cui il testo — in Urania n.517 — è noto in Italia) è il racconto di esordio, datato 1958: vi è già tutta Kit Reed nel collocare al centro della vicenda di questa prima prova narrativa il rapporto madre-figlia, che percorre come un fiume carsico (e tossico) l’intera sua produzione, qui vissuto dalla parte della donna più giovane. « – Mamma, vedi quel palazzo? Che ne diresti che mi trovassi un lavoro in un posto come quello? – Stavano passando davanti a un drugstore, un edificio tutto d’alluminio e vetro. – Miriam, ti prego, non ricominciamo con questa storia. Quante volte ti ho detto che non voglio che tu vada a lavorare in un drugstore. […] Non voglio, lo sai, che tu debba lavorare per tutta la vita. Devi cercarti un buon impiego dove incontrerai un bravo ragazzo, lo sposerai e non dovrai più lavorare – ». Un rapporto disfunzionale, in cui la figlia è vittima del benpensantismo materno: il viaggio delle due donne, «il grande viaggio premio nel sud, per festeggiare la maturità di Miriam» approda a Babylon, Georgia, piccola immaginaria città di provincia, in cui esse sono costrette a fermarsi per un soggiorno che da una dimensione di tranquilla quotidianità si apre all’incubo, un incubo grottesco e incomprensibile di cui sono vittime per indiscussa tradizione le diciottenni, al quale Miriam tenta inutilmente di ribellarsi, chiedendo aiuto alla madre, che non le dà ascolto, tentando la fuga, senza riuscire, fino al finale implacabile e terribile.
«Never been able to think in terms of happy endings», afferma l’autrice nell’intervista già menzionata (dalla quale sono tratte anche le citazioni successive): «Non sono mai stata capace di pensare in termini di lieto fine». In effetti, gli scenari dei racconti di Kit Reed sono i peggiori possibili («worst-case scenarios»), in questo come in altri testi: la sensazione di ineluttabilità, il chiudersi di ogni via di fuga, il progressivo venir meno della resistenza della vittima sacrificale, (quasi) sempre donna, sono caratteri narrativi ricorrenti, espressi attraverso una straordinaria capacità empatica con i personaggi: «Vedo la persona. Sono nella testa della persona. Guardo fuori dalla persona e vedo cosa vede la persona»: ciò che Kit non esplicita è l’altrettanto straordinaria capacità di trasmettere i sentimenti e le emozioni che il personaggio prova a chi legge, soprattutto se donna.

The new you (Il vostro nuovo io, in Urania n.508 del 23 febbraio 1969) data al 1962: magistrale prova anticipatoria (e pienamente fantascientifica) del dilagare pervasivo dell’ossessione femminile, spesso mutuata dall’immaginario maschile, per la bellezza e la perfezione fisica del ‘corpo delle donne’, che i condizionamenti sociali, le riviste di moda, i modelli televisivo vogliono alta, snella, perennemente giovane. «Nei momenti di ribellione più intensa, Martha Merriam dimenticava completamente il suo corpo grosso e sgraziato, identificandosi nella flessuosa, impareggiabile Marnie, con quindici centimetri di altezza in più e diciotto chili di peso di meno». La svolta avviene quando, grazie una prodigiosa «scatola nera» acquistata a costo di vendere le azioni ricevute in dote, la protagonista diviene Marnie, «il suo nuovo io» che tuttavia, per aver dimenticato di leggere il libretto delle istruzioni, non riesce a liberarsi dell’ingombrante presenza di quello vecchio, paziente e rassegnato all’inferiorità. In un primo tempo, le cose vanno in direzione dello «splendido futuro» sognato dalla protagonista: dopo l’acquisto di un nuovo guardaroba per entrambi («giacché Marnie aveva letto, in almeno dodici riviste, che un uomo ben vestito è un accessorio importante»), i Merriam «furono attratti in un vortice di feste, e, per la prima volta, ebbero accesso alle case più eleganti della città; gli affari di Howard andavano a gonfie vele, e Marnie, attorniata da uno stuolo di ammiratori e più affascinante della più ammirata tra le sue rivali, era in pieno rigoglio. Feste, riunioni, appuntamenti a teatro, impegni pomeridiani con giovanotti brillanti». Fino al prevedibile cedimento di Howard, che confessa di essere innamorato della «ragazza che ho sposato. […] Una ragazza modesta, di tutta tranquillità» e all’imprevedibile finale al vetriolo, che – in particolare per la narrativa di Kit Reed – non va mai rivelato.
Un gustoso finale che rende giustizia alle sventure della protagonista presenta invece Cynosure (letteralmente Centro dell’interesse, titolo italiano Polo d’attrazione, in Uranian.927 del 19 settembre 1982), dato alle stampe negli Stati Uniti nel 1964. Norma è una donna divorziata, che è andata ad abitare in un nuovo quartiere con la figlia Polly Ann, una bambina che come tutte ama il gioco e la spensieratezza, il gatto Puff e il cane Ambrose: «aveva cominciato bene, perché la loro nuova casa assomigliava esattamente a tutte le altre, a parte il fatto che era rosa, e i mobili erano dello stesso stile di tutti gli altri, perfino il tinello in formica della zona pranzo; lo sapeva perché aveva fatto un giro, di sera, sbirciando attraverso le finestre.

e Isadora Spillman-Schappell (archivio Kit Reed), in https://www.latimes.com/books/jacketcopy/la-ca-jc-mentor-chee-20171116-story.html
E tuttavia lei e Polly Ann non avevano un papà che arrivava a casa alle cinque, come tutte le altre case, e anche se lei e Polly Ann avevano il numero civico in ferro battuto, e mettevano la spazzatura in bidoni color pastello, e avevano sistemato il lampadario migliore davanti alla finestra del salotto, e la cucina era proprio carina come diceva la pubblicità, la mancanza del papà che metteva fuori la spazzatura e curava il giardino il sabato e la domenica, come tutti gli altri, metteva Norma in netto svantaggio». Norma, dunque, deve dimostrare di essere «brava quanto qualunque casalinga delle riviste», all’altezza delle vicine benpensanti e ottuse, che agiscono rituali stereotipati e solenni, in un crudele gioco di società cui inizialmente la protagonista si sottopone e del quale l’implacabile Clarice Brainerd (che porta al collo un ciondolo a forma di cuore ottenuto «con le etichette della margarina Right Kind») rialza costantemente la posta: lavello immacolato, dolci «senza sapore di grasso», forno impeccabile… Per qualche accidente imprevedibile, però, la protagonista non arriva mai a superare l’esame cui è sottoposta dall’arcigna vicina di casa, a essere ammessa nel consesso delle signore del quartiere per il caffè o la canasta; ma grazie all’acquisto di «una piccola macchina color lavanda, smaltata, con attaccato un bocchettone e un tubo, pure color lavanda», per la quale ha dato fondo ai suoi risparmi, e grazie ai sorprendenti effetti di questa, la situazione si rovescia con esito di grottesca comicità.
Granny (Nonna) è uno splendido racconto del 1970, neanche a dirlo stampato in Italia (da Urania n.953 del 18 settembre 1983) come riempitivo in appendice al romanzo di copertina, per arrivare alle fatidiche 144 pagine. Una memorabile figura di centenaria, che per il suo secolo di vita riceve in dono un viaggio in Canada (per «tornare alla terra» e «rivedere i luoghi della giovinezza») con nipoti e pronipoti. «La nonna ricordava le mattine in Canada, fredde in maniera insopportabile; ricordava le fatiche fatte per il vecchio Sam, suo marito, che la maltrattava, a letto e in città, allo stesso modo; ricordava il dolore di dare alla luce i figli, e il dolore più profondo quando i figli erano cresciuti abbastanza da sentirsi imbarazzati per le sue maniere rozze; […] adesso i suoi occhi se n’erano andati, non poteva più rammendare o lavorare all’uncinetto, e così non serviva più a niente; sapeva che era tempo di andarsene, ma il suo corpo non era ancora pronto». In queste righe c’è tutta la sensibilità e l’amarezza per una vita scivolata via, una vita di donna come tante, eppure degna e unica, meritevole di piccole gioie e bei momenti, di una fine serena. E c’è tutta la grandezza di Kit Reed. Alla vista del paesaggio boscoso e alla visione della propria giovinezza, la nonna «pensò di alzarsi, di respirare l’aria, di sollevarsi le gonne e di mettersi a correre nel campo, ma quando mandò i messaggi al suo corpo, i muscoli erano gelidi, così alla fine rimase immobile»: la sua esistenza si congeda da quella dei nipoti Edna e Steve, si intreccia momentaneamente con quella dei due giovani criminali Tommy e Cheryl, per ricongiungersi infine, grazie a un nativo animista, con la grande, accogliente bellezza della natura.
Di un anno più tardo e di tutt’altra ispirazione e registro Dog days (Vita da cani, malamente tradotto come Costume canino, in Urania n.603 del 15 ottobre 1972): una distopia perfettamente compiuta in dodici colonne della rivista. In un futuro indeterminato — degrado e delinquenza inarrestabili, traffico paralizzato da settimane, insicurezza ovunque — vivono Robert e Myrna con il doberman Dirk: ma un giorno il sindaco annuncia «la creazione di quella che lui aveva chiamato eufemisticamente la squadra anti-polluzione» e il finale giunge inesorabile, non del tutto imprevisto. Giova ricordare che a questo agghiacciante racconto (apparso in Francia nel 1976 con il titolo Aujourd’hui les chiens) si ispirerà Franck Pavloff nello splendido Matin brun (Mattino bruno, 1997), «un apologo sulla nascita di un regime», edito in Italia nel 2003.
Onirico, guidato da gusto più surreale che fantascientifico, Great Escape Tour, Inc. (del 1974), per una volta è tradotto in italiano (con il titolo Grandi Evasioni S.p.A.) nell’ambito di un Oscar fantascienza che nel 1977 ripropone la scelta operata per l’antologia Final stage(Ultima tappa) da Edward L. Ferman e Barry N. Malzberg. Ancora un racconto di grandi anziani (come Granny), con tratti di autentica comicità, da pochade, che vira però in un finale malinconico. «Giorno dopo giorno, Dan Redford e i suoi amici, che non riuscivano a mettere insieme il denaro per la gita, sedevano in gruppo sotto gli alberi di Williams Park, in St. Petersburg, Florida, e rimuginavano per tutto il tempo in cui i turisti rimanevano assenti. Non che ce l’avessero con quei ricconi, in fondo, solo perché c’era chi aveva il denaro per togliersi quel genere di sciocchi capricci mentre altri dovevano tirare a campare con la pensione sociale e qualche assegnino dato un po’ a torto collo dai figli. Li angustiava, piuttosto, vedere quei pochi privilegiati entrare un giorno dopo l’altro nel chiosco dell’Agenzia Turistica GRANDI EVASIONI e poi, per Dio, fare ritorno». Perché il Great Escape Tour promette il ritorno al bel tempo andato, alla giovinezza perduta. Ed ecco dunque la combriccola di anziani intraprendenti elaborare un piano per riuscire a partire verso il sogno possibile, nonostante la mancanza di denaro, descritta con umorismo e affetto: Dan Redford e sua moglie Theda, «Hickey Washburn con la camiciola di maglia e il berretto a visiera, la grossa Marge, Tim e Patsy O’Neill (i quali, rispettivamente di ottantadue e ottant’anni, si tenevano ancora per mano ovunque andassero) e Iggy detto Casanova, personaggio molto noto e discusso in città, per le sue abitudini di arguto e incorreggibile gigolò». Ma il tempo non passa invano: «mi hanno sempre preoccupata i vecchi e il problema della vecchiaia. — scrive in nota al racconto l’autrice — Più passano gli anni, più la cosa mi riguarda da vicino, e anche questo è un fatto su cui meditare».
Nel 1992 Kit Reed ha sessant’anni e scrive The hall of new faces (L’atelier delle facce nuove, in Urania Millemondinverno 1993): riprende il tema già affrontato trent’anni prima in The new you, ma con la consapevolezza di una donna che percorre la via della vecchiaia e che vede nella società in cui vive (quella occidentale e statunitense in particolare) farsi più pressanti i condizionamenti che impongono di essere sempre giovani, belle, desiderabili. «Le donne risparmiano tutta una vita per l’Atelier delle facce nuove; per tutta la vita corriamo davanti al bisturi. Ci guardiamo allo specchio e sappiamo che un giorno verrà la nostra ora. Non per me, pensiamo. Non ancora. Ma perfino tu un giorno ti sveglierai, ti guarderai allo specchio e penserai: quella non sono io».

Magistrale il dialogo interiore di Maria, la protagonista, alla quale inutilmente si oppone con voce d’amore la figlia Molly, l’indagine che la scrittrice compie in profondità nella psiche di entrambe, ancora una volta senza via d’uscita, senza alternativa. «Per chi lo faccio? Per me stessa o per loro? […] Se non ci vai affatto la società ti getterà via. […] Perché dobbiamo sempre essere noi e non l’uomo? Perché non posso essere quella che sono? […] Non ancora. Io no. Siate maledetti». Eppure, ingannando Molly, Maria sceglie: «mettendo insieme i risparmi, […] vendendo i quadri e la casa in campagna», perché, oltretutto, la chirurgia plastica è costosissima, ma non garantisce nulla, se non l’illusione di cambiare non la propria faccia, ma la propria vita, che non si ama più. Il campionario delle ragioni addotte dalle donne, pur «deprimente», è da manuale: « – I ragazzi se ne sono andati di casa e lui è tutto il giorno in ufficio, mi sento così sola. – Io lo faccio perché sono tornata a casa e ho trovato il mio nuovo uomo a letto con mia figlia adolescente. – La gente si prende gioco di me. È accondiscendente. – È per il lavoro. Nessuno vuole comprare una polizza da una vecchia rimbambita. – Io non ho le rughe. Però non ho mai potuto sopportare il mio naso. – Lui dice di amarmi, però mi tratta come fossi sua madre. – È più semplice che divorziare». E Molly, che si introduce nell’atelier in cerca di Maria, comprende che «le storie di orrore cosmico» non sono quelle che ha visto al cinema, ma «riguardano ciò che le donne fanno a sé stesse». Il campionario delle operazioni mal riuscite che la giovane passa in rassegna non suscita orrore, ma pietà, fino all’incontro con la madre che «come un personaggio di Joan Crawford in un vecchio film, […] è seduta in una poltrona nella penombra». L’allusione è a What ever happened to Baby Jane? (Che fine ha fatto Baby Jane?) di Robert Aldrich (1962), thriller psicologico, noir violento e crudele, commedia sconcertante e ossessiva: proprio come il racconto di Kit Reed.

«I never wanted to write like a woman. I wanted to write like a witch» afferma Reed. «Non ho mai voluto scrivere come una donna. Volevo scrivere come una strega»: Kit ha scritto come una donna coraggiosa e trasgressiva, ironica fino alla causticità, consapevole della propria condizione individuale nella collettività di genere. Tutto questo in The Mothers of Shark Island, del 1998, Le madri di Shark Island, apparso in Italia, come si è detto, nel 2015. Un racconto di una bellezza che dà i brividi, muove alle lacrime, lascia senza parole e respiro. «A Shark Island, durante il giorno le prigioniere sono libere di vagare nel cortile; le mura sono alte e le scogliere ripide. Nessuno evade dallo Chateau D’If. Le poche madri che ci provano spariscono per sempre – divorate dai banchi di squali che risalgono il canale o ridotte in brandelli in fondo alla scogliera». A Shark Island sono deportate le madri anziane, che hanno concluso il proprio ciclo lavorativo e produttivo; e per quanto la maternità sia «una condizione irreversibile», a differenza della polmonite, «cos’altro avrebbero dovuto fare con noi?». La voce privilegiata non è più quella della figlia (The wait), o della madre (Cynosure), o di entrambe (The hall of new faces); la voce è di una donna che è sia figlia sia madre, nella quale convivono l’una e l’altra condizione: «Ne parlavamo, quando vivevamo nel mondo, noi figlie che eravamo a nostra volta madri di bambini piccoli. Parlavamo delle nostre madri. Ne parlavamo molto. Cospiravamo – Non diventeremo così, giuravamo. Facevamo comunella con le nostre figlie – Promettete di dircelo se iniziamo a diventare così. E loro giuravano – Lo faremo, lo faremo».
Racconto polifonico, nel quale si alternano presente di internamento rassegnato e passato doloroso da ricordare, frammenti di memorie individuali e cori di prigioniere (l’antica tragedia greca), sepoltura della madre ignota spirata nella cella accanto («Tutto ciò che feci fu di amarli troppo») e progetto di evasione destinato a fallire, non nella realtà contingente ma nello spazio interiore («La maternità non è un annuncio di lavoro, è una sentenza a vita»), e uno stesso comune destino di generazione in generazione, di madre in figlia, di donna in donna, come una maledizione ineluttabile, senza scampo («Sarai madre anche tu, un giorno. Capirai»), fino al finale che, ancora una volta, scatena affetti e singhiozzi, colpisce al cuore noi che abbiamo generato, abbiamo generato figlie femmine.
«Un ladro taglia il cuore a sua madre per venderlo al califfo che gli ha offerto una fortuna in cambio. Getta via il corpo e custodisce il suo tesoro in una scatola. Ansioso di incassare i soldi, il ladro corre troppo veloce. Inciampa su una pietra e cade a terra. La scatola gli sfugge dalle mani e si apre. Il cuore di sua madre rotola fuori. Quando si rialza sente il cuore che grida: ti sei fatto male, figlio mio?».
Amore mio, figlia mia.
In copertina: © Gino Andrea Carosini, Kit Reed.
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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.