Sorellanza versus patriarcato

È Francesca Guiducci a introdurre il panel Fuori e dentro la società. Storie di donne, sorellanze, dalle radici alla contemporaneità, nell’ambito dell’VIII Congresso della Società Italiana delle Storiche La storia di genere, che parla di «quanto le donne aggregandosi e mobilitandosi nel segno della sorellanza hanno saputo lottare consapevolmente per i propri diritti, accendere il dibattito, silenziato per secoli e represso dalla società patriarcale».
Guiducci, dottora di ricerca in Scienze Storiche dal Medioevo all’Età Contemporanea all’Università di Perugia, attualmente impegnata anche nella sezione moderna del progetto “Donne al centro, protagoniste ieri e oggi”, è anche la prima relatrice, con “Quella pinzochera di vostra nonna!”. Strategie femminili contro il patriarcato in età moderna, titolo che riprende una frase detta a Teresa, la protagonista di Memorie di una ladra, il romanzo storico memoriale di Dacia Maraini. L’intervento sottolinea come nelle strutture femminili dell’età moderna, esistano zone d’ombra nella loro gestione, spesso allogata a gruppi femminili. Se è vero che le istituzioni patrocinanti erano maschili, come maschili risultano essere tutti i macrosistemi nel corso della storia, l’affidamento delle attività interne risulta essere spesso in mano a donne, affiliate a ordini religiosi con voti privati, nubili o vedove, ma comunque indipendenti e proprietarie effettive delle case che ospitavano altre donne. Suscettibile di diverse chiavi di lettura a partire dal particolare legame fra assistenza e genere, l’istituzione del Conservatorio femminile racchiude in sé manifestazioni di profonda sorellanza, che necessitano di essere messi in luce per riflettere sulle origini e gli sviluppi di cenacoli declinati esclusivamente per la donna nei confronti di una società più ampia a essa ostile. Questi luoghi ci appaiono essere eredi dei beguinage duecenteschi e si pongono come microsistemi femminili che appaiono una risposta di controcultura femminile, se così può essere definita, per ottenere dignità che sia religiosa (e conseguentemente di pensiero) rispetto alla dominante cultura patriarcale e ai costumi imposti alle donne. Armanda Guiducci in Medioevo inquieto la definisce una risposta necessariamente ribelle ma originale. Troviamo nei documenti della prima età moderna una nomenclatura vasta, per definire queste personagge: pinzochere, bizzocche, zitelle, terziarie… spesso sono vedove, ancor più spesso sono nubili che costellano il panorama peninsulare dell’Età moderna. Nella loro vita si assommano in modo esemplare e abile: religiosità, laicismo e autogestione della vita, e in ciò risulta evidente la radice di rapporti di sorellanza.
La ricostruzione dei profili di donne proposta da Guiducci punta l’attenzione sulle diverse formule di questo protagonismo femminile, che riuscì a confrontarsi con le strutture istituzionali del tempo mettendo in discussione la propria condizione indiscutibilmente subordinata e passiva, costantemente sottoposta ai sistemi repressivi di matrice patriarcale. La creazione di questi circuiti alternativi è stata elaborata da una popolazione di donne che effettivamente nel tempo è stata silenziata e deve essere letta come una nuova proposta di ricerca. Emblematico il caso di Perugia dove, dal 1390, si costituiscono dei piccoli cenacoli di terziarie domenicane. Iniziano poi a stratificarsi i testamenti di donne che vanno ad aumentare le case di proprietà e le casse di questi nuclei femminili, che piano piano vedranno queste donne sostentarsi del proprio lavoro: di solito sono tessitrici, ma vi sono anche donne benestanti, che vivono affittando altre case e appunto amministrano i propri beni in maniera indipendente. Da alcune ricevute si può risalire all’elenco che nel 1434 Caterina di Petruccio compie di queste sorores, sorelle, che vivono in una parrocchia, Santa Maria di Colle, vicina a un monastero domenicano, ma che è completamente nutrita di donne sole. Se non interpretiamo questi dati attraverso la solita chiave di lettura religiosa, ci possiamo soffermare sulla riflessione del peso economico e sociale che queste donne rivestono gestendo da sole i propri denari e patrimoni e di conseguenza anche le proprie vite.

Questo fenomeno semisommerso arriva fino al Settecento e all’alba dell’Ottocento, incrementando il volere femminile di rimanere indipendenti, di non sposarsi e non entrare in conventi dove le regole erano molto più ferree. Sono donne che creano una catena di solidarietà che definiamo appunto di sorellanza, perché il rifiuto, nel luogo in cui risiedono, del sistema che le vuole madri e mogli le porta, per esempio nel caso di Maria Chialli, a fuggire incinta da Città di Castello e arrivare a Perugia, dove troverà una rete di solidarietà fortissima che l’aiuterà a reinserirsi.
Si possono ricordare tantissime protagoniste, risalendo alle fonti di questi secoli: la contessa Caterina della Penna Oddi, le cortonesi Francesca Baldacchini, Maria Vittoria Angelica Ridolfini, Lucia Tartaglini, con la sorella e la madre, che, come donne più anziane, aiutano e salvano molte giovanissime, perché avendo superato i 40 anni, sono molto più svincolate a livello legislativo dal sistema patriarcale, e possono vivere da sole nel corso del Seicento, mentre sotto i 40 anni non era possibile.
Le fonti dicono anche che tanti istituti femminili non attuano tutta quella serie di leggi che, soprattutto fino alla metà del ‘700, si stratificano dichiarando di volere altro per queste comunità di terziarie; per esempio le donne affiliate ai Conservatori sono istruite, oltre che amministratrici dei propri beni, e sono unite allo scopo di dare strumenti ad altre donne dopo di loro, ciò che riusciranno a fare nel corso del Settecento Rosa Venerini e Lucia Filippini, istituendo le Maestre Pie; quindi cambiano i nomi, si modificano gli Statuti, ma sono tutti esempi di un’unica catena di rapporti prettamente femminili che tendono a realizzarsi e sfuggire al giogo maschile attraverso istruzione e lavoro, riuscendo, non sempre ma a volte, a raggiungere la propria indipendenza.
È ormai attestato che molte donne di ogni epoca intesero vivere in maniera indipendente da famiglie di origine o da uomini, sia laici che ecclesiastici, e fra coloro che vi riuscirono si può infine ricordare la fondatrice delle gesuitesse, Mary Ward. Come dice Armanda Guiducci, sono donne che «facevano il braccio di ferro con il clero delle parrocchie», che si arrogano una conoscenza teologica, che vanno e vengono per la città pur professandosi caste, che vivono del loro, sfuggendo la subalternità all’uomo o alla Chiesa, insomma tutti elementi che le rendono invise.

Si può aggiungere, poi, che dentro e fuori la chiesa, nelle rivoluzioni come nelle restaurazioni, gli uomini hanno sempre tentato capillarmente di sopprimere ed estirpare le forme di autodeterminazione femminili: questi microsistemi femminili autosufficienti sono scomodi e scandalosi sia per la chiesa che per il sistema patriarcale tanto da collaborare per cancellarne l’esistenza.

Prende poi la parola Puma Valentina Scricciolo, cultrice della materia Letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Perugia e dottora di ricerca in Scienze letterarie, librarie, linguistiche e della comunicazione internazionale. È anche membro della giuria specialistica del premio letterario Nazionale Clara Sereni, giornalista pubblicista e i suoi studi riguardano la letteratura italiana contemporanea con particolare interesse per le opere a firma femminile e l’autobiografia.


Il suo intervento, Di madre in figlia. Il Novecento attraverso gli scritti, pubblici e privati, delle donne di casa Sereni, parte dalla teoria dei libri di famiglia del professor Raul Mordenti per giungere ad alcuni importanti archivi come quello del Gramsci o il Gabinetto Vieusseux, nella convinzione che le lettere e i diari siano fondamentali per ricostruire il contributo che le donne hanno dato alla storia e che sia un modo per scoprire nomi, date, ma anche pensieri e azioni che altrimenti cadrebbero nell’oblio, perché ancora nel Novecento la parola femminile spesso non solo non è quasi mai pubblica ma neanche pubblicata.
La redazione dei libri di famiglia spetterebbe al capofamiglia, ma si scopre che la maggior parte è scritta dalla matriarca di casa, a cui è affidata la cura e l’educazione della prole, quindi questo filone è importante perché dà una codifica di una storia di genere orientata al recupero di tutto quel sommerso che affligge le protagoniste del Novecento. Moltissime scrittrici e studiose, soprattutto di origini ebraiche, hanno raccontato il secolo appena terminato attraverso le loro storie familiari; la più nota è Natalia Ginzburg, con Lessico famigliare e Famiglia; poi Ada Sereni con I clandestini del mare; Anna Foa con Portico d’Ottavia 13 e La famiglia F. Recentissimi Il racconto di una figlia di Paola Bassani, del 2016 e in questo 2021 La sola colpa di essere nati della senatrice Liliana Segre.

L’esempio principale portato da Scricciolo è quello di Clara Sereni e della sua famiglia. Nel 1993 esce Il gioco dei regni; attraverso questo libro l’autrice compie il passaggio dalle vecchie scritture del genere libro di famiglia al nuovo modello di ereditarietà trasmessa di madre in figlia. Di tutte le molteplici azioni e vicende delle donne di casa Sereni, riportate con precisione documentaria da Clara, possiamo ricordare qui il fatto che la madre Xenia, durante la clandestinità a Parigi, allo scadere degli anni Trenta, fu a capo della neonata Noi donne, che fondò con Teresa Noce. In conclusione si può affermare con certezza che una parte importante per comprendere con maggior chiarezza le vicende storiche si perde in assenza di una dimensione memorialistica e conservativa come quella dei libri di famiglia, in questo caso della famiglia Sereni, ma è applicabile a tante altre famiglie; questo circolo di scritture che si rincorrono lungo tutto il Novecento costituiscono una continua ricerca delle radici in quelle che Clara Sereni chiama «una genealogia femminile ininterrotta» e che narra sì la stessa storia dei padri, ma con molte altre storie da punti di vista non solo maschili.

La terza relazione «Siamo marea»: movimenti femministi, associazionismo e nascita dei centri antiviolenza a partire dalla fine del XX secolo. Un caso di studio è di Letizia Giovagnoni, dottora di ricerca in Scienze storiche, attualmente impegnata nella segreteria dell’Associazione Liberamente donna e nella formazione e progettazione sul tema della violenza di genere. Socia UDI, fa parte del consiglio di amministrazione della Cooperativa sociale Atena ed è impegnata nell’accoglienza e nel reinserimento lavorativo delle donne che subiscono violenza.

Il suo intervento parla dei centri antiviolenza, che nascono in seno ai movimenti femministi negli anni ’70 e che mettono in evidenza (soprattutto in ambito romano e in seguito al delitto del Circeo) la trasversalità della violenza maschile contro le donne, fino a quel momento collegata essenzialmente alle classi meno abbienti, al disagio sociale, alla tossicodipendenza. Sono soprattutto le femministe romane a prenderne forte consapevolezza e Beatrice Pisa, una ricercatrice dell’Università di Roma, nel 1977, all’interno della Casa occupata di via del Governo Vecchio propone un questionario che doveva portare poi a una proposta di legge in Parlamento che cambiasse i termini della violenza sessuale, in modo che passasse da reato contro la morale pubblica a crimine contro la persona (iter legislativo lunghissimo che si conclude soltanto nel 1996!). I risultati del questionario proposto da Pisa fanno emergere e mostrano all’opinione pubblica una realtà incredibile: moltissime donne avevano subito una qualche forma di abuso o violenza sessuale in ambito familiare. Nasce, quindi, l’idea di creare uno spazio di accoglienza per le donne vittime di violenza all’interno della Casa occupata. Le prime operatrici non hanno una preparazione specifica in merito, si rifanno all’esperienza dei gruppi di autocoscienza o di automutuoaiuto, ma le donne, provenienti da tutto il territorio nazionale, rispondo in modo sorprendente a questa proposta. Alla base di questa sperimentazione, c’è la convinzione che il centro antiviolenza non debba essere un centro assistenziale, in quanto la violenza maschile sulle donne sarebbe dovuta diventare un fatto politico in modo da rendere lo Stato responsabile della ricerca e del finanziamento degli strumenti adatti ad affrontare il fenomeno.
L’esperienza di via del Governo Vecchio finisce nel 1983, una volta terminata l’occupazione, ma i semi avrebbero dato frutti: altri spazi simili si sviluppano; nel 1989 viene costituita la Casa Internazionale delle Donne a Roma, tuttora esistente, che dà il via a una prima rete di centri antiviolenza che negli anni prende forma e si costituisce nel 2008 con la fondazione della Associazione Nazionale DiRE, donne in rete contro la violenza, che attualmente racchiude 82 associazioni con più di 100 centri antiviolenza. Il suo operato si basa sull’esperienza delle realtà locali e ha lo scopo di costruire un’azione politica nazionale.
Il caso di studio affrontato è quello dell’Umbria, regione in cui fino al 2014 non vi erano dei centri antiviolenza residenziali. Nel 1989 viene istituito un Telefono Donna, con operatrici formate da esperte che da decenni lavoravano sulla violenza di genere, come quelle del centro Artemisia di Firenze. Il servizio viene attivato sia a Perugia che a Terni per coprire tutto il territorio regionale, ma con reperibilità telefonica e accesso all’accoglienza molto limitati. Dopo il brutale femminicidio di Barbara Cicioni, nel 2007, uccisa dal marito incinta, tutto il territorio umbro sentì l’esigenza di avere un centro antiviolenza attivo e se ne fece carico il Comitato internazionale 8 marzo. Il progetto ebbe successo, anche se dopo poco meno di un anno dovette chiudere perché i finanziamenti avevano una durata limitata e le istituzioni non seppero intervenire per sostenerlo. Le iniziative, però, si radicarono sempre di più e tanti altri centri sorsero, come L’albero di Antonia a Orvieto, tuttora in attività e il primo centro antiviolenza regionale ad entrare a far parte della rete DiRE. Nasce poi nel ternano l’associazione Liberamente Donna, che, in collaborazione con i Comuni di Perugia e Terni, con la Regione e sfruttando i fondi messi a disposizione in seguito alla firma della convenzione di Istanbul, propone il progetto Umbria antiviolenza, portando all’inaugurazione dei due centri residenziali Catia Doriana Bellini a Perugia e Libere tutte a Terni, che offrono accoglienza telefonica h24, ospitalità per le donne che sono in difficoltà o in situazione di pericolosità molto grave, insieme a minori, anch’essi vittime di violenza assistita. I due centri, tuttora in attività, hanno accolto dal 2014 a oggi, secondo gli ultimi dati, circa 3300 donne e ospitato quasi 300 donne, molte con minori. Attualmente esistono in Umbria 11 centri antiviolenza, che contribuiscono a una rete e soprattutto a un’accoglienza sempre più estesa delle donne che subiscono violenza.
La commistione fra centri antiviolenza, movimenti femministi e associazioni è molto grande, basti pensare all’esperienza di Non Una di Meno, e si può dire che è cresciuta la riflessione sui diritti delle donne e l’esigenza di parlarne nelle piazze, con manifestazioni, il 25 di novembre o l’8 marzo, che hanno visto la partecipazione anche delle donne e delle operatrici che lavorano all’interno dei centri antiviolenza. Ci sono molte realtà che danno voce politica a dolore, rabbia, solitudine, paure delle donne maltrattate, e un’ultima realtà che la relatrice menziona è la RU 2020, la Rete Umbra per l’autodeterminazione, nata spontaneamente dopo l’attacco frontale che la nuova giunta regionale aveva dato alla Legge 194.

La discussione è aperta da Tommaso Rossi, dottore di ricerca in Storia contemporanea, attualmente cultore della materia presso il Dipartimento di Lettere dell’università di Perugia e docente a contratto all’Università degli Studi di Sassari.

Inizia dicendo che le tre relazioni, che spaziano in epoche molto lontane tra loro, dal mondo medievale a oggi, parlano da un lato di tracce di sorellanza presenti anche in epoche in cui non ce le saremmo aspettate, dall’altro evidenziano quanto queste realtà siano precarie e soggette a tutta una serie di tensioni e questioni spesso irrisolte. Individua come punti di contatto presenti nelle tre relazioni il fatto che si è parlato di forme, modi e tempi di assunzione di responsabilità delle donne verso altre donne; il fatto che si tratti di cura e trasmissione della memoria familiare, dove si coglie anche in realtà uno scavalcamento di una preminente posizione e ruolo maschile, e infine che si tratti appunto di tutela o meglio azione, assistenza e accompagnamento verso una vita normale, al sicuro dalla violenza subita a prescindere da quanto questa violenza sia stata lunga, intensa e reiterata.
Un altro spunto di riflessione viene proprio dal titolo del panel Fuori e dentro la società, fuori e dentro per più o meno tempo ma soprattutto fuori e dentro per costrizione o per scelta, tenendo conto di quanto la condizione della donna possa in molte circostanze essere anche sensibilmente peggiore di quella maschile. L’esperienza che viene ricordata a questo proposito è quella dell’ospedale psichiatrico di Perugia, fondato nel 1824, che passa abbastanza rapidamente da una gestione religiosa a una gestione laica, e viene citato nelle cronache di viaggiatori della seconda metà dell’800 come particolarmente innovativo anche nei modi in cui veniva trattata la malattia. Nel 1965 la sua gestione passa alla provincia e vengono assunti nuovi medici, dottori e dottore che cominciano a entrare ampiamente nell’ospedale psichiatrico di Perugia e inizia un processo parallelo a quello che accade in molte città italiane, a partire dall’operato di Franco e Franca Basaglia, con una progressiva uscita dei e delle pazienti; che chiaramente in quella realtà erano fuori dalla società sia per una presunta o reale condizione di salute, sia anche e soprattutto le pazienti per colpe non loro. Due esempi si possono portare: uno è particolarmente noto nella nostra storia ed è quello della prima signora Mussolini, Ida Dalser, divenuta troppo “scomoda” per i continui strali che lanciava contro colui da cui si sentiva ingannata, sedotta e abbandonata, e per questo rinchiusa più volte in manicomio, dove avrebbe poi perso la vita.
Ma rimanendo al caso dell’ospedale psichiatrico di Perugia, Tommaso Rossi ricorda anche un’altra donna, figlia di NN, nata in una famiglia contadina e in seguito adottata. Sfruttata come una serva, viene messa incinta dal capofamiglia; per mettere a tacere lei e tutte le malelingue, viene “nascosta” in manicomio, dove passa tutto il resto della sua vita. Muore a 92 anni e a questo punto un ex infermiere, che ebbe modo di conoscere bene la sua storia, volle fortemente che almeno da morta potesse essere ricordata fuori dal manicomio e le fece fare un funerale in un quartiere periferico di Perugia, da cui la donna proveniva, raccontando nel passaggio la triste e ingiusta emarginazione di cui era stata vittima.
Un discorso analogo a quello sui manicomi si può fare per l’istituzione carceraria, pensando al dentro e alla difficoltà del reinserimento nel fuori, nella società; studi attuali stanno indagando, per esempio, sulla sezione femminile del carcere di Perugia, che soprattutto negli anni del regime aveva visto entrare moltissime detenute politiche.

Impossibile rendere tutta la ricchezza delle ricerche storiche e delle discussioni racchiuse nel panel, per quanto lungo possa essere questo nostro articolo, per cui rimando alla registrazione del video (che a breve sarà qui disponibile), per chi, avendolo perso, volesse risentire e approfondire quanto qui riportato.

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Articolo di Danila Baldo

Laureata in filosofia teoretica e perfezionata in epistemologia, coordina il gruppo diade e tiene corsi di aggiornamento per docenti, in particolare sui temi delle politiche di genere. È referente provinciale per Lodi dell’associazione Toponomastica femminile. Collabora con con Se non ora quando? SNOQ Lodi e con IFE Iniziativa Femminista Europea. È stata Consigliera di Parità provinciale dal 2001 al 2009 e docente di filosofia e scienze umane sino al settembre 2020.

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