La civiltà dei Fenici, signori del mare e inventori dell’alfabeto, stanziati nell’attuale Libano per poi espandersi e fondare colonie lungo le sponde del Mediterraneo in Nordafrica e in Sardegna fino alla penisola iberica, ci ha lasciato purtroppo scarsi documenti. Secondo il mito che risalirebbe all’VIII secolo a.C., l’intera stirpe fenicia ha origine dalla principessa Europa, figlia del re di Tiro, sedotta da Giove sotto le sembianze di un toro bianco. Il dio la vede mentre coglie i fiori in un prato e se ne adorna insieme alle ninfe, e se ne innamora all’istante. Trasformatosi in un toro, la prende e la conduce fino a Creta, cavalcando le onde del Mediterraneo.

Non sono molte le fonti di cui disponiamo per ricostruire nei minimi particolari la condizione della donna nel mondo fenicio. Le notizie in nostro possesso riportate dai classici o nella Bibbia ci danno pochissime informazioni sulla vita quotidiana e queste sono spesso inficiate da pregiudizi.
L’Antico Testamento e, successivamente, gli autori greco-latini raccontano le storie e la vita di donne particolarmente importanti, regine o dame dell’alta aristocrazia.
Sono quattro le figure di cui abbiamo dovizia di particolari: la principessa Gezabele, Elissa, più nota come Didone, ovvero la leggendaria fondatrice e prima regina di Cartagine (sorella di Pigmalione, re di Tiro), la cartaginese Sofonisba e la moglie di Asdrubale (di cui non conosciamo il nome), ultimo capo delle armate cartaginesi nel 146 a.C.
Le vicende di Gezabele, figlia del re di Tiro (oggi Sidone) Ithobaal I, sono narrate nel Vecchio Testamento nel Primo libro dei Re e, successivamente, da Flavio Giuseppe nelle Antichità Giudaiche. Siamo nel IX secolo avanti Cristo. Per suggellare la pace fra Tiro e il regno di Israele, Gezabele ne sposa il re Acab. Con questo matrimonio la donna, divenuta regina, introduce in Israele il culto del suo dio fenicio, Baal, in onore del quale viene innalzato un tempio anche sul monte Carmelo, mentre la popolazione locale fa capo al tempio di Gerusalemme, capitale del regno di Giuda. Gezabele nomina 450 sacerdoti di Baal e stermina quelli di Yahweh.

Contro il nuovo culto ― come racconta la Bibbia ― Dio manda il profeta Elia, che con miracoli e prodigi convince il popolo che i sacerdoti di Baal sono dei ciarlatani e devono essere uccisi. L’ira della sovrana, che nel frattempo consolida il suo potere partorendo un figlio maschio, l’erede al trono Acazia, si accanisce contro Elia. Dopo la morte in guerra di Acab, sale sul trono di Giuda il figlio, poi, morto anche lui per una caduta, diventa re Ioram, marito di Atalia, l’altra figlia di Gezabele. Un tragico destino attende Ioram dopo un anno di regno. Muore vittima di un colpo di Stato ordito dai sacerdoti e dal generale Ieu, così Atalia diviene regina nell’anno 842. Ma il generale Ieu non ci pensa due volte a detronizzarla e a spodestare Gezabele, muovendo con un potente esercito verso il palazzo reale. Sprezzante del pericolo, Gezabele si trucca gli occhi con l’antimonio, si abbiglia e si acconcia i capelli e aspetta l’arrivo del nemico guardando da un’alta finestra. Da lì prende a insultare Ieu, mentre passa nella strada, chiamandolo anziché sovrano, «assassino del suo signore». Subito i suoi stessi servi, all’incitazione di Ieu «Chi è con me?», per ingraziarsi il nuovo re, la gettano giù dalla finestra del palazzo, facendola morire. Il suo corpo è lasciato temporaneamente insepolto all’aperto, per spregio, e viene ridotto a brandelli dai cani che ne divorano tutte le carni, lasciando solo il cranio e le ossa, come aveva predetto il profeta Elia. Anche Atalia fa una brutta fine e, con lei, il sacerdote di Baal, mentre vengono distrutti tutti i templi degli dei stranieri.

Alla perfidia della regina la Bibbia contrappone la buona vedova fenicia di Sarepta (città fra Sidone e Tiro), che riconosce Elia come profeta e condivide con lui un pugno di farina e quel poco di olio che le sono rimasti in un periodo di grande carestia.
Sono donne fiere, coraggiose, forti. Lasciando da parte la figura mitologica di Didone, immortalata da Virgilio nell’Eneide, è invece storicamente esistita Sofonisba di Cartagine (etimologicamente “Città nuova”, ovvero Nuova Tiro, uno dei più importanti insediamenti sulla costa del Mediterraneo), figlia di Asdrubale di Giscone. La nobile Sofonisba, celebrata per la bellezza e la vasta cultura, sposa Siface, re dei Numidi. Questi, dopo il matrimonio, rompe l’alleanza con Roma e si allea con Cartagine. Dopo le sconfitte subite negli scontri con Roma, decide di trattare con l’esercito invasore. Sofonisba, però, memore dell’atavico odio cartaginese verso il popolo romano, persuade il marito a proseguire la guerra. Ma la potenza avversaria è di gran lunga superiore all’esercito di Siface che viene sconfitto definitivamente. Fatto prigioniero, al cospetto del legato di Roma, il re riversa tutta la colpa sulla moglie, la quale preferisce sacrificare la sua vita bevendo una tazza di veleno piuttosto che finire in catene nelle mani dei nemici e vivere fino alla fine dei suoi giorni come una schiava. È il 203 a.C.

Un altro episodio di coraggio e di sprezzo del pericolo viene dall’anonima sposa di Asdrubale, la quale, dopo la definitiva sconfitta del 146 a.C. che porta alla distruzione della città, si butta insieme ai figli tra le fiamme del tempio di Eshmun sull’acropoli di Byrsa, scegliendo la morte pur di non consegnarsi al vincitore, Scipione l’Emiliano. L’epilogo tragico della vicenda non è dissimile dalla tragica fine di Didone e di Sofonisba, e sta a dimostrare la grande forza d’animo delle donne fenicie disposte a tutto, fino a dare la vita, pur di salvaguardare il proprio onore.

Sebbene raramente abbiano potere politico, le donne sono attente agli affari della comunità e prendono la parola nelle assemblee popolari che cominciano a diffondersi in alcune città-stato. Non ci sono prove di regine che governano da sole, ma un’iscrizione a Sidone descrive la regina Unmiashtart regnante come reggente per suo figlio Yatonmilk durante il V secolo a.C.
Secondo la legge punica, tutte le donne libere possono lavorare, possedere beni, gestirli e trattare con gli uomini da pari a pari sulle questioni economiche, perfino consigliare i propri mariti. Le donne di un rango sociale elevato accedono all’istruzione, giocando un ruolo importante anche nel campo politico. Esse hanno diritti e prerogative che nel mondo greco-romano sono considerate appannaggio esclusivo dell’universo maschile.
Questi diritti sono riconosciuti alle donne di famiglia benestante o ricca, che appartengono all’oligarchia. Chi invece è sposata con un uomo di ceto medio-basso, ha i compiti tradizionalmente assegnati alle donne: prendersi cura della casa, educare la prole, filare la lana, tessere, fare il pane, ecc. Gli uomini di norma sono monogami, nonostante la poligamia non sia proibita. Il padre è il fulcro della famiglia e di essa fanno parte coloro che vivono con lui e cioè solitamente moglie, figli, figlie, concubine e schiavi/e.
I più antichi documenti rinvenuti menzionano sacerdotesse. Le donne appartenenti alla più alta aristocrazia cittadina, per la maggior parte figlie e mogli di suffeti (i due magistrati che a Cartagine annualmente ricoprono la carica di capi dello Stato, come i consoli dell’antica Roma), hanno incarichi molto precisi e specializzati all’interno dei templi, secondo una scala gerarchica: hkhnt “sacerdotessa”, hkhnt s rbtn “sacerdotessa di nostra signora”, e rb khnt “guida delle sacerdotesse”.
Nelle lettere dell’archivio di El Amarna (XIV sec. a.C.) è nominata una certa Ummahnu, definita “serva della Baalat di Biblo”, un’interpretazione locale della dea Astarte. Geratmilk, sacerdotessa della dea, si trova menzionata in un’iscrizione incisa su un cratere funerario dell’VIII sec. a.C.
Tra le testimonianze legate alle donne appartenenti alle famiglie più influenti, si ricorda «Saponbaal la sacerdotessa, figlia di Azorbaal, figlio di Magone, figlio di Bodashtart, sposa di Hanno sufeta e sommo sacerdote, figlio di Abdmelqart sufeta e sommo sacerdote».
Astarte, la Ishtar del popolo Assiro-Babilonese e la Afrodite greca (che compare spesso nei primi libri dell’Antico Testamento nella forma plurale di Astaroth, fino a quando il re d’Israele Salomone la chiama al singolare Asthoreth), è la regina delle divinità femminili, dea della fecondità e del piacere sessuale e progenitrice del genere umano. Simboleggia il principio femminile in tutti i suoi aspetti, omologa di Baal che rappresenta quello maschile.

La vita delle donne e di bambini e bambine si svolge principalmente all’interno delle mura domestiche. La partecipazione femminile alla vita pubblica è limitata, mentre assume maggiore importanza nell’ambito delle cerimonie religiose. Le donne in Fenicia prendono parte a eventi pubblici e processioni sacre, partecipano ai banchetti, sedute o sdraiate con disinvoltura vicino agli uomini, mentre altre ballano e suonano. Le figure femminili di suonatrici e danzatrici attestano che la musica e la danza accompagnano tutte le feste religiose.
In mancanza di testimonianze iconografiche, si può ipotizzare che verosimilmente gli abiti del popolo fenicio non offrano particolari spunti di originalità, imitano infatti le fogge delle popolazioni confinanti e risentono moltissimo l’influsso dell’abbigliamento egizio e mesopotamico. Le donne più agiate indossano lunghe tuniche lisce riccamente decorate con maniche corte, fermate e arricciate in vita, con bordi ricamati a motivi floreali. Sul capo sfoggiano scialli dai colori sgargianti. Assai elaborate le acconciature. I capelli sono avvolti a spirale intorno a grandi anelli oppure raccolti in crocchia sulla sommità della testa. Baalat, signora di Biblo e dea della fecondità, appare con un alto copricapo a due corna che le avvolge la chioma. Piuttosto diffusi i gioielli come amuleti, anelli e orecchini d’oro, argento e bronzo. In particolare, le donne delle colonie occidentali sono solite portare un anello al naso chiamato nazem.
La sensibilità estetica è molto sviluppata. È tenuta in grande considerazione la cura del corpo e della bellezza: vi sono stabilimenti termali, e nei bagni si fa largo uso di oli profumati, unguenti e pomate a base di erbe aromatiche. Dagli scavi archeologici, soprattutto a Cartagine, sono venuti alla luce numerosi oggetti di toeletta, come specchi in bronzo, flaconi per profumi, cofanetti per il trucco, che oggi chiamiamo trousse, dallo stile orientale, egiziano o ellenistico, spatole in osso o avorio utilizzate per stendere sul volto creme e belletti di vari colori, comprese le sfumature delicate dell’azzurro e del rosa.
In copertina: La morte di Didone, di Andrea Sacchi.
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Articolo di Florindo Di Monaco

Docente di Lettere nei licei, poeta, storico, conferenziere, incentra tutta la sua opera sulla Donna, esplorando l’universo femminile nei suoi molteplici aspetti con saggi e raccolte di poesie. Tra i suoi ultimi lavori, il libro La storia è donna e le collane audiovisive di Storia universale dell’arte al femminile e di Storia universale della musica al femminile.