Premessa
Questa non è una monografia sul G8 né una raccolta di atti processuali, ma una sintetica ricostruzione delle tragiche giornate dell’estate di vent’anni fa, con alcune considerazioni.
Quattro colori, un arcobaleno
Il movimento che riempie le piazze tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del Duemila, noto come “No Global” o come “Popolo di Seattle” (soprannome attribuito dai giornali per la città dove ha avuto luogo la sua prima manifestazione, nel 1999, contro il vertice del Wto, la World Trade Organization), costituisce di fatto, dopo il crollo sovietico, l’unica opposizione di massa alle politiche neoliberiste occidentali. È una realtà molto variegata ed eterogenea, un “movimento dei movimenti” composto da diversi gruppi, ognuno dei quali fa riferimento a un’area culturale e politica diversa.

Il “blocco rosa” (Pink bloc) è nettamente pacifista e si ispira alla nonviolenza gandhiana: vi convergono gruppi cattolici e del volontariato sociale come la Rete Lilliput e Mani Tese, le associazioni ambientaliste come Greenpeace e Sea Shepherd, numerose anziane femministe insieme a preti, suore e boy scout, cui si uniscono trampolieri, clown, musicisti, acrobate e giocolieri. I membri del blocco rosa sono riconoscibili per le mani dipinte di bianco in segno di pace, i volti scoperti e sorridenti, le manifestazioni totalmente pacifiche. Il pensiero del blocco rosa si può riassumere nella frase del sacerdote genovese don Andrea Gallo: «Signori del G8, non vi sembra una cinica pretesa quella di venirci a dire ancora una volta che l’unico mondo possibile è il vostro?».

Il “blocco giallo” (Yellow bloc) viene dai centri sociali d’Europa. Culturalmente, prende spunto dal movimento zapatista messicano, ma a portarlo nel vecchio continente sono state le “Tute Bianche” italiane. Con azioni molto sceniche, le Tute Bianche puntano a violare le “zone rosse” (aree della città interdette al pubblico in caso di vertici internazionali, un concetto giuridicamente nuovo e ambiguo) in maniera aperta e plateale servendosi di scudi di plexiglass, caschi e armature di gommapiuma, armi atte non a offendere ma ad attutire i colpi della polizia e ad attirare l’attenzione dei media. A volte gli scontri tra Tute Bianche e polizia sono concordati, qualche spinta e un numero di feriti molto contenuto. Portavoce indiscusso del blocco giallo in Italia è Luca Casarini. Alla vigilia del G8, le Tute Bianche cambiano nome in “Disobbedienti”.
Il “blocco blu” (Blue bloc) è il lato bellicoso del movimento. Proviene dagli squat di tutta Europa, dai collettivi anarchici ed ecologisti, dalla rabbia dei disoccupati. Uno dei suoi slogan principali è «No justice no peace, fuck the police». È da questo gruppo che ne nasce un altro, il “blocco nero” (Black bloc), una formazione anarchica, forte principalmente in Germania e in Scandinavia, con obiettivi mirati e precisi: attacca tutti i luoghi che incarnano il sistema neoliberista (banche, agenzie di assicurazioni e di lavoro interinale, fast food) ma non colpisce le persone, neanche se in divisa, e non attacca oggetti di uso privato come le automobili.
Tutte queste componenti sono parte di un movimento variegato e, nonostante usino pratiche diverse, non sono in contrasto l’una con l’altra. «Un mondo diverso è possibile» è lo slogan comune a tutte le realtà che si oppongono alla globalizzazione neoliberista.
A giugno del 2001, una circolare del Ministero dell’Interno (il cui titolare, appena insediato, è Claudio Scajola) informa dettagliatamente la Questura di Genova sulle componenti del movimento, le loro caratteristiche e tattiche i loro diversi livelli di pericolosità, affinché nulla sia lasciato al caso o a eventuali imprevisti.
Nei mesi precedenti al luglio 2001, tutte le componenti del movimento costituiscono il Genoa Social Forum (Gsf). Si tratta di un coordinamento che vorrebbe far dialogare tutte le realtà, dai cattolici agli anarchici passando per i partiti del centrosinistra e per i collettivi femministi e ambientalisti. Portavoce del Gsf è Vittorio Agnoletto, medico, esperto di Aids ma non abbastanza carismatico per tenere insieme gruppi così diversi tra loro. Il movimento è troppo eterogeneo per coesistere: conciliare realtà che vanno da gruppi cattolici a individualisti anarchici è cosa molto ardua; non si rivelerà possibile nemmeno creare un unico servizio d’ordine. Confluisce nel Gsf, oltre ai Verdi e a Rifondazione, più vicini ai movimenti, anche il partito dei Democratici di Sinistra (Ds), sperando con le manifestazioni imminenti di far cadere il governo Berlusconi.

Prima del G8 La decisione di svolgere a Genova il vertice del 2001 è stata presa nel 1999 dal presidente del Consiglio Massimo D’Alema (che nello stesso anno viene denunciato alla Corte Costituzionale da un gruppo di pacifisti genovesi per aver violato gli articoli 11 e 78 della Carta repubblicana ordinando l’intervento militare italiano nella ex Jugoslavia senza consultare le Camere).
Nel maggio 2001 si tengono le elezioni politiche, vinte dalla destra. Il governo Berlusconi si insedia a giugno: il ministro dell’Interno è Claudio Scajola e il vicepremier è Gianfranco Fini. I preparativi per il summit sono già stati fatti dal precedente esecutivo di centrosinistra, il cui titolare del Viminale era Enzo Bianco. A poche settimane dall’inizio del vertice, il nuovo governo può aggiungere ben poco a quanto già predisposto. Per volontà di Enzo Bianco, a Genova verrà autorizzato l’uso di armi da fuoco e dell’esercito (2700 soldati), oltre alle forze di polizia, e istituita la “zona rossa”, ovvero la chiusura di tutto il centro storico con grate metalliche alte quanto i palazzi, cosa non prevista da nessuna legge repubblicana. Non sta succedendo nulla, ma la città deserta e l’aria spettrale incutono timore (le Tute Bianche dichiarano che violeranno la zona rossa). Sono inoltre chiusi il porto, l’aeroporto e le frontiere, sospeso il trattato di Schengen (ma chi arriva dalla Germania non viene controllato) e sigillati tombini e bidoni della spazzatura. Il nuovo vicepremier chiede duecento bare di plastica per eventuali scontri particolarmente cruenti tra manifestanti e agenti, i quali sono dotati di armi fuori ordinanza (manganelli tonfa allungabili, metallici e con il manico a L, lacrimogeni al Cs (orto-clorobenziliden-malononitrile, gas considerato non letale ma che può danneggiare seriamente cuore e fegato), vietati nelle convenzioni internazionali sulle guerre, e idranti con acidi urticanti.

Il 17 marzo a Napoli una manifestazione analoga a quella che attraverserà Genova a luglio si conclude con un bagno di sangue. I giornali alzano il tiro e preparano un polverone mediatico, descrivono i manifestanti come violenti e pericolosi, parlano di possibili attentati terroristici e di fantomatiche catapulte con cui i manifestanti lanceranno palloncini pieni di sangue infetto contro le forze dell’ordine. Inutile dire che nulla di tutto ciò è mai stato considerato vero da nessuno, ma la tensione nell’aria è comunque alta.

L’ultima ordinanza emanata a luglio riguarda non l’ordine pubblico ma l’estetica: vengono attaccati limoni finti sugli alberi allestiti davanti al Palazzo Ducale che ospiterà il vertice (gli otto capi di Stato alloggeranno in una nave nel porto) e vietato a chi risiede in centro storico di stendere le mutande alla finestra per turbare il decoro (come è noto, nei vicoli del centro storico di Genova i fili per la biancheria sono quasi tutti esterni alle abitazioni). Scajola firma le ordinanze ma non decide granché, conferma però l’uso delle armi da fuoco già deciso dal suo predecessore. Nonostante Genova sia notoriamente una città complicata, tutti i responsabili genovesi della sicurezza vengono incaricati della zona rossa, mentre la gestione delle manifestazioni è interamente affidata a chi non conosce la città, rendendo così più facile il crearsi di incidenti.
Il Comune di Genova, con il sindaco Sandro Pericu, mette alcuni spazi a disposizione dei manifestanti: agli anarchici lo stadio Sciorba, ai Disobbedienti lo stadio Carlini, mentre il complesso scolastico Diaz-Pascoli-Pertini ospiterà i giornalisti indipendenti e un centinaio di manifestanti che non hanno dove dormire.
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Articolo di Andrea Zennaro

Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.