La donna romana. Usi e costumi dall’età monarchica all’Impero 

Nei primi secoli della storia di Roma e durante l’epoca repubblicana, all’interno di una società rigidamente patriarcale, l’uomo è il capo indiscusso del nucleo familiare e come pater familias ha potere di vita e di morte sulla moglie, sulla prole e sulla servitù. Soltanto l’uomo gode dei diritti politici (votare, eleggere e farsi eleggere, intraprendere la carriera politica), la donna ne è del tutto esclusa: non può, infatti, votare nei comizi elettorali. Anche per esercitare i diritti civili (sposarsi, ereditare, fare testamento) ha bisogno del consenso maschile: prima il padre, poi il marito e, se resta vedova, il parente maschio più prossimo.  

Le romane non hanno neppure diritto a un vero nome proprio. Mentre i maschi hanno tre nomi, le femmine hanno solo il cognomen, cioè il titolo della famiglia o gens di appartenenza, usato al femminile (per esempio, Tullia, Fabia, Sestia, Valeria). Se le figlie sono più di una, vengono denominate come Prima, Secunda, Tertia, Maxima, Maior, Minor (cioè Prima, Seconda, Terza, La più grande, Maggiore, Minore). Il nome proprio di una donna, inoltre, è conosciuto unicamente dai più stretti familiari, non va mai pronunciato in pubblico e non viene riportato neppure sulla sua tomba.  
Le fanciulle ricevono in casa un’istruzione che riguarda per lo più l’economia domestica fin verso i 12-14 anni, quando vengono considerate adulte e pronte per il matrimonio, contrattato dal padre con il futuro marito.  
Nella cerimonia degli sponsali, alla promessa sposa, ancora bambina, viene messo un anello al dito (per questo detto “anulare”) dal quale si ritiene che parta un nervo che arriva fino al cuore. Da allora la bimba aspetta il matrimonio come l’evento più importante della vita, con cui darà inizio alla sua funzione riproduttiva e di salvaguardia dei valori romani, tramite l’educazione della prole.  
Durante la cerimonia nuziale viene pronunciata la formula rituale «Ubi tu Gaius, ibi ego Gaia» (“Dove tu sarai [Gaio], lì io sarò [Gaia]”), che vuol dire: “Dovunque sarai tu, là sarò io”, una formula che implica la totale sottomissione e devozione della donna allo sposo. Nel rito solenne del matrimonio, la sposa si impegna ad assumere il nome dello sposo e a coabitare con lui, alla domanda: «Qual è il tuo nome?» la giovane risponde con il cognomen dello sposo, che sostituisce o si va ad aggiungere al precedente cognomen paterno. La donna maritata, matrona, deve essere fedele al marito, occuparsi delle faccende domestiche, partorire i figli maschi, curarli, istruirli ed educarli ai principi del patriottismo romano fino all’età di sette anni, allorché passano sotto la tutela del padre e la madre non ha più nessuna influenza su di essi. La matrona è pure responsabile della corretta manutenzione della casa e della crescita della prole; esente dal lavoro domestico e agricolo, tranne che per la filatura della lana e la tessitura; in quanto madre di famiglia ha un certo potere all’interno della casa, dirige la servitù, gli schiavi e le schiave, viene quindi chiamata domina (padrona). 
Le matrone hanno anche una loro festa appositamente celebrata a Roma, durante le Calende di marzo, denominata Matronalia.  

La figura esemplare a cui tutte sembrano richiamarsi è Cornelia, la madre dei Gracchi, archetipo e modello di nobildonna che disprezza gli ornamenti e la ricchezza, e ostenta come suoi unici gioielli i propri figli, Caio e Tiberio.  
Molto stimata è anche la madre del famoso eroe Coriolano. La leggenda narra che nel 490 a.C., il figlio, per vendicarsi di essere stato cacciato da Roma per non aver sfamato il popolo durante una carestia, si allea con i suoi vecchi nemici, i Volsci, e marcia su Roma con il nuovo esercito. Invano si cerca di fermarlo e di placarne la collera. Quando si trova minacciosamente nei pressi della città, solo la madre e la moglie Volumnia riescono a farlo tornare indietro e desistere dall’attaccare la capitale. 

Veturia e Volumnia scongiurano Coriolano
dal marciare contro Roma 

Un altro fulgido esempio di donna è Lucrezia, per quanto avvolta a metà nelle nebbie della leggenda. Nei tempi della Roma arcaica, Lucrezia, anche senza imbracciare le armi, resta la più affascinante tra tutte le eroine del mondo antico e la “madrina” della Roma repubblicana. Durante l’assedio di Ardea, i figli dell’ultimo re, Tarquinio il Superbo, insieme ai nobili, per ingannare il tempo, tornando di nascosto in città, si divertono a curiosare come se la passano le loro mogli durante la propria assenza. Collatino conosce bene l’indole della moglie Lucrezia, imbattibile e incorruttibile quanto a devozione e fedeltà coniugale. Così porta con sé gli altri nobili, tra cui Sesto Tarquinio, a visitarla nel pieno della notte e constatare con i propri occhi che Lucrezia sta tessendo la lana con le ancelle, mentre le nuore del re si danno a banchetti e orge. Secondo il racconto dell’autorevole storico Tito Livio, Sesto Tarquinio, invitato poi a cena da Collatino, vedendo di nuovo Lucrezia, viene fulminato dalla sua bellezza e, preso dalla smania di possederla a tutti i costi, non tarda a mettere in atto il suo perverso proposito. Un giorno, all’insaputa del marito, si reca in casa di Lucrezia che, ignorando le sue reali intenzioni, lo accoglie in modo ospitale poiché lui è il figlio del re. Dopo cena, Sesto se ne va a dormire nella stanza degli ospiti, ma nel pieno della notte entra furtivamente nella camera della donna con la spada sguainata e la trattiene con una pesante minaccia: «Lucrezia, chiudi la bocca! Sono Sesto Tarquinio e ho una spada in mano. Una sola parola e sei morta!».  

Lucrezia è terrorizzata e, pur vedendo la morte davanti agli occhi, cerca di resistere finché può alle profferte dell’uomo. Costui ricorre allora a un’altra minaccia: se lei non gli si concederà, con la spada sgozzerà un servo e glielo metterà nudo accanto, facendo poi credere che abbiano avuto un rapporto. La donna alla fine è costretta a cedere e a farsi stuprare da Sesto Tarquinio, il quale se ne va soddisfatto di aver portato a termine il suo turpe e scellerato progetto. Lucrezia invia immediatamente un messaggero al padre a Roma e al marito che si trova in guerra ad Ardea, pregandoli di raggiungerla al più presto, insieme ad un amico fidato, poiché è rimasta vittima di un fatto terrificante. In presenza dei suoi familiari, scoppia a piangere. Il marito le chiede: «Tutto bene?». Lei gli risponde: «Come fa ad andare tutto bene a una donna che ha perduto l’onore? Nel tuo letto, Collatino, ci sono le tracce di un altro uomo: solo il mio corpo è stato violato, il mio cuore è puro e te lo proverò con la mia morte. Ma giuratemi che l’adultero non rimarrà impunito. Si tratta di Sesto Tarquinio: è lui che ieri notte è venuto qui e, sotto le mentite spoglie dell’ospitalità, armato e con la forza ha abusato di me. Se siete uomini veri, fate sì che quel rapporto non sia fatale solo a me ma anche a lui». Uno dopo l’altro giurano tutti. Cercano quindi di confortarla argomentando che la colpa ricade sul delinquente che l’ha violentata, non su di lei che ne è stata la vittima; poi non è il corpo che pecca ma la mente e quindi, se manca l’intenzione, non si può parlare di colpa. Ma lei replica: «Sta a voi stabilire quel che si merita. Quanto a me, anche se mi assolvo dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l’esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!». Afferrato il coltello che tiene nascosto sotto la veste, se lo conficca con quanta forza può nel cuore e, piegandosi sulla ferita, cade a terra esanime tra le urla del marito e del padre. Collatino, il padre e il suo grande amico Lucio Giunio Bruto ne vendicano la tragica fine, mettendosi alla testa di una sommossa popolare che caccia i Tarquini da Roma e, con essa, viene sancita la fine dell’età regia insieme alla nascita della repubblica. Collatino e Lucio Giunio Bruto, non a caso, sono i primi due consoli. È così che dal gesto disperato di una donna offesa nel suo onore i Romani trovano la forza per insorgere, cacciare i corrotti sovrani e dare inizio alla gloriosa età repubblicana. 
Le reminiscenze scolastiche ci portano poi a Clelia, un’eroina della Roma dei tempi più remoti, subito dopo la monarchia, che, presa in ostaggio insieme ad altre otto ragazze da Porsenna, re degli Etruschi, nemico di Roma, riesce a fuggire con le compagne dal campo avversario e con estremo coraggio arriva fino a Roma attraversando a nuoto le fredde acque del Tevere. 

Lucas Cranach il Vecchio, Lucrezia, 1538 

Le donne sono soggette a molte limitazioni legali. Non possono fare testamento e sono sottoposte vita natural durante alla tutela maschile per l’esercizio di qualunque atto giuridico. In alcuni casi non possono ereditare né disporre dei propri beni in favore dei figli. Tale emarginazione dura per tutta la storia di Roma, come sottolinea nel III secolo d.C. il giurista Ulpiano: «Le donne sono escluse da tutte le funzioni civili e pubblichee per questo non possono essere giudici, né ottenere una magistratura, né esercitare come avvocate, né intervenire in rappresentanza di alcuno, né essere procuratrici». 
La subordinazione giuridica e politica delle donne è giustificata in vari modi. Secondo il più grande filosofo dell’Urbe, Seneca, «i due sessi contribuiscono allo stesso modo alla vita comune, perché uno è fatto per ubbidire e l’altro per comandare». E proprio perché è tenuta a dedicarsi anima e corpo esclusivamente alla famiglia, alla donna è preclusa la partecipazione alla vita politica. Altri studiosi di diritto si appellano all’inferiorità naturale delle donne e più precisamente alla loro “debolezza di giudizio” (levitas animi). «Gli antichi vollero che le donne, anche se in età adulta, fossero poste sotto tutela a causa della leggerezza del loro spirito», scrive il giurista Gaio in riferimento alla Legge delle XII tavole, il codice più antico di Roma. 

Molte donne, tuttavia, trovano delle scappatoie legali per far valere i propri diritti, e in alcuni casi arrivano a sfidare apertamente la supremazia maschile, come nel caso delle severe leggi suntuarie mirate a limitare il lusso e il consumismo femminile. C’è una ribellione di massa contro la Lex Oppia, promulgata nel 215 a.C., durante la Seconda guerra punica, che impedisce alle donne di fare sfoggio di lusso e di gioielli, non potendo possedere più di mezza oncia d’oro, né indossare un abito dai colori troppo vivaci, né andare in carrozza a Roma o in un’altra città, se non per partecipare a una cerimonia religiosa. Durante la discussione in Senato, le donne si riversano in strada per chiedere ai loro uomini di discutere della proposta nel Foro, dove anch’esse avrebbero potuto intervenire. Il giorno successivo al dibattito, un numero ancora maggiore di donne va a casa dei due tribuni contrari all’abrogazione e vi rimane finché le loro richieste vengono accolte e la legge è abolita nel 195 a.C. 

Di fronte a tanta ostinazione femminile Catone il Censore osserva con la sua abituale misoginia: «Ciò che vogliono veramente è la libertà senza restrizioni; o, per dirla tutta, il libertinaggio. Ma se vincono adesso, cosa le tratterrà in futuro?». 

Nell’Urbe dei consoli e dei Cesari è diffusissima l’omosessualità maschile. Tuttavia, durante la repubblica e nei primi decenni dell’età imperiale poco o nulla sappiamo delle relazioni sentimentali tra donne, che certamente vengono avvolte dall’ombra del silenzio perché ritenute disdicevoli e degne del pubblico biasimo. I Romani, come i Greci, praticano a iosa l’amore e il sesso tra uomini, considerato una faccenda del tutto normale, un iocus, per dirla con Ovidio, un passatempo, una gradevole alternativa alla routine della vita matrimoniale.   

Nei primi secoli della Repubblica, le matrone, che devono brillare come fari di virtù e onestà, centro del focolare domestico e custodi dei Lari, le divinità protettrici della famiglia, non possono partecipare alla vita pubblica e non godono di una loro vita di relazioni. Perciò, se anche amano un’altra donna, non possono certo esibirlo pubblicamente, dal momento che la loro eventuale omosessualità sarebbe biasimata come la peggiore depravazione, un atto contro natura e criminale. Ci saranno state probabilmente, non sappiamo fino a che punto, relazioni lesbiche, ma di nascosto, avvolte nel buio della clandestinità. Se una donna viene punita severamente nel caso di adulterio, immaginiamo quanto sia ancora più precaria la sua situazione nel caso si trovi a cascare tra le braccia di una donna. Un desiderio che deve essere vissuto senza che nessuno lo venga mai a sapere, altrimenti c’è la pena di morte dietro l’angolo. Ogni relazione al di fuori del matrimonio, anche se intrapresa da donne vedove o non impegnate, è considerata un reatoe può essere punita dal capofamiglia senza alcun processo. 

Nel II secolo a.C. Catone afferma, con un certo compiacimento, che se il marito sorprende la moglie in flagrante adulterio «può ucciderla impunemente». Se, invece, è la moglie a sorprendere il marito, «non può sfiorarlo nemmeno con un dito», secondo quanto annota più tardi Aulo Gellio. Inoltre, il pater familias ha la piena facoltà di costringere la moglie ad abortire contro la sua volontà. 

Nella Roma dei primi secoli la donna che vive secondo i mores e lo ius degli antenati gode, all’interno della famiglia, di un ruolo educativo e amministrativo che le dà comunque una discreta autorità. 
Le puellae patrizie hanno precettori privati. Le aristocratiche, come Cornelia Metella, vissuta nel I secolo a.C., ricevono una buona istruzione, meritando la lode degli storici per la loro capacità di apprendimento e l’impegno nello studio. Le ragazze del ceto medio frequentano la scuola pubblica, il ludus, equivalente alla nostra scuola elementare.  

Joseph-Benoit Suvée, Cornelia e i suoi figli,
1795 circa 

Oltre alle Vestali, che fanno voto di castità per i trenta anni di durata del servizio, anche i culti misterici per la custodia dei morti e il culto di Cerere sono affidati alle donne. Dal II secolo a.C. s’importa dall’Egitto il culto di Iside, a cui aderisce un gran numero di romane e straniere. Iside è venerata dalle donne come loro patrona: la invocano le maritate durante il parto e le nubili per proteggere la loro verginità. Il culto di Iside, che nei miti è descritta come devota al marito e al figlio, costituirebbe una prima forma, sia pure embrionale, di autonomia e indipendenza femminile. 
La corruzione, il rischio che accompagna costantemente la gestione del denaro, è considerata particolarmente dannosa per le donne.  

Col passare dei secoli diventa più facile per i figli, sia femmine che maschi, accedere all’amministrazione del patrimonio familiare. Molti capifamiglia perdono la vita, ad esempio durante le guerre puniche, e s’infittisce la schiera di donne ricche e dedite al commercio. Questo comporta una maggiore presenza femminile nel mondo degli affari e dell’impresa, e perfino della politica, come evidenziano decine di cartelli elettorali ritrovati a Pompei, firmati da donne. Secondo la Lex Voconia, promulgata nel 169 a.C., chi nel testamento lascia un’eredità superiore al valore di centomila assi non può istituire come erede una donna. Le donne trovano ad ogni modo degli stratagemmi legali per evadere la restrizione, con la collaborazione di uomini appartenenti a classi diverse. 
Le più intraprendenti per sbarazzarsi della potestà maschile si scelgono per tutori dei familiari o amici condiscendenti che assecondano le loro scelte, suscitando le critiche di alcuni conservatori, come Cicerone: «I nostri antenati stabilirono che le donne, per la loro debolezza di giudizio, fossero sottomesse alla potestà dei tutori, ma i giuristi hanno inventato una specie di tutore sottomesso alla potestà delle donne». 

In età imperiale le donne cominciano ad acquisire maggiori diritti anche se continuano ad essere ritenute inferiori agli uomini. Godono di una sufficiente libertà d’azione e di pensiero, escono per fare spese o per andare a trovare le amiche, partecipano a banchetti, feste e spettacoli, frequentano le terme e i bagni pubblici e godono di maggiore rispetto anche da parte di figli e figlie. Le patrizie seguono attivamente la carriera politica del marito. Numerose donne si dedicano alla letteratura e alla grammatica. Solo le nobili tuttavia possono ricevere un’educazione musicale, ma è consentito loro di suonare e cantare solamente in privato. Si usano strumenti a corda, come la cetra e la lira, e a percussione: timpani, tamburi, cimbali, sistro e crotali (specie di nacchere). Ci è stato tramandato il nome di una compositrice, Calpurnia, terza moglie di Plinio il Giovane, che mette in musica i versi del marito. Ma non ci è giunto nulla della musica romana.  
Sempre nel I secolo d. C. si assiste alla crisi, fino alla definitiva scomparsa, della famiglia tradizionale, sottoposta al pater familias. Il vecchio modello di famiglia patriarcale perde colpi a favore di un nuovo modo, più libero e meno coercitivo e autoritario, di intendere la vita domestica. 
Ci sono famiglie composte da un solo genitore divorziato o vedovo, altre da coniugi senza prole, altre ancora sono “plurigenitoriali”, riuniscono cioè figli nati da differenti matrimoni e di età molto diverse. Questo senza contare i vari rapporti di concubinato o i nuclei composti da coppie omosessuali. 

Augusto promulga leggi in favore della natalità che prevedono importanti benefici legali per le donne, poiché risultano emancipate dalla tutela maschile le ingenuae (nate libere e mai state schiave) che partoriscono almeno tre figli, nonché le liberte, ovvero le schiave liberate, con almeno quattro figli. 
Ma a poco servono le leggi augustee in difesa dell’istituto matrimoniale e gli sforzi per promuovere l’ideale della matrona fedele al marito e prolifica.  
Sotto l’Impero, parecchie donne dell’aristocrazia fanno fortuna e accumulano ingenti somme di denaro. Molte di esse si trovano a essere titolari di grandi patrimoni e di cospicui capitali che amministrano autonomamente al di fuori di qualsiasi ingerenza maschile. 
In quest’epoca lo statuto legale delle donne migliora anche da altri punti di vista. Per esempio, gli imperatori Severi (193-235 d.C.) concedono alle madri divorziate il diritto di esercitare la custodia dei figli, anche se solo in caso di provata negligenza (nequitia) del padre. Le vedove possono gestire da sole il loro patrimonio. Antonia minore, nipote dell’imperatore Augusto e nuora dell’imperatrice Livia, una volta compiuti i suoi doveri nei confronti dello Stato partorendo tre figli (Germanico, Livilla e il futuro imperatore Claudio), non si risposa e può, così, accedere ai benefici legali di cui godono le vedove: restando univira (moglie di un solo uomo) e fedele alla memoria del marito, Antonia si guadagna il rispetto e l’ammirazionedi tutta Roma e può amministrare in prima persona gli immensi beni di cui dispone. 
In questo periodo le romane godono di una conquistata dignità e autonomia. Molte imperatrici ricevono quel titolo di Augusta dato a Livia solo dopo la morte del marito. Grande figura di donna è Plotina, moglie di Traiano, che accompagna il marito nella guerra contro i Parti e dispone così bene le sue segrete volontà testamentarie che, dopo la morte dell’imperatore, Adriano sale al trono senza contrasti. A sua volta, la moglie di Adriano, Sabina, è celebrata in numerose iscrizioni dalle persone che hanno ricevuto benefici da lei e immortalata da statue che la divinizzano ancora in vita.  

Durante l’Impero le grandi signore dell’aristocrazia seguono i loro mariti nella buona e nella cattiva sorte. Così sotto Tiberio, come racconta Tacito, «Emilio Scauro, con gesto conforme all’antica dignità degli Emili, prevenne la condanna, col sostegno della moglie Sestia, che gli fu insieme ispiratrice e compagna nella morte». Allo stesso modo quando «Pomponio Labeone, il già citato governatore della Mesia, si tagliò le vene e morì dissanguato, la moglie Passea ne seguì l’esempio». E quando Seneca riceve da Nerone l’ordine di togliersi la vita, Paolina, la sua giovane moglie, si taglia anche lei le vene, anche se non muore per intervento dello stesso imperatore che la vuole salva a tutti i costi. È noto l’episodio di Arria Maggiore, una donna eroica vissuta nella prima metà del I secolo d.C., che intenzionalmente precede nella morte il marito, il console Cecina Peto, dando lei, donna, un magistrale esempio di coraggio. 

François-André Vincent, Arria e Peto, 1784 

Plinio il Giovane racconta nelle sue Lettere che Peto e il figlio si ammalano gravemente. Il ragazzo muore. Arria organizza da sola i funerali, senza informare il marito della disgrazia per non dargli un brutto colpo che potrebbe ritardarne la guarigione. Anche quando va a trovarlo ammalato, nasconde le lacrime e finge, come se niente fosse accaduto. Proprio quando non ce la fa più a trattenere il pianto, esce per un attimo dalla stanza del marito per poi tornarvi subito dopo e, lasciato il lutto fuori dalla porta, atteggiare il viso a una composta serenità giusto per non turbare lo stato d’animo del coniuge. Dopo il fallimento della rivolta di Scriboniano contro l’imperatore Claudio in Dalmazia, Peto, che vi ha preso parte, viene condotto prigioniero a Roma. Arria implora i soldati di essere imbarcata insieme a lui, almeno come sua schiava. Di fronte al rifiuto, noleggia da sola una piccola barca da pesca e segue la nave dov’è il marito in catene fino a destinazione. Quando, al cospetto dell’imperatore, la moglie di Scriboniano è sul punto di compiere una rivelazione, Arria le si scaglia contro dicendo: «Come posso dare ascolto a te, tra le cui braccia hanno ucciso Scriboniano, mentre tu sei ancora viva?». Plinio interpreta questa frase come sintomo dell’intenzione di Arria di morire con Peto, consapevole della condanna che l’attende. I familiari provano in tutti i modi a dissuaderla. Il genero Trasea Peto le chiede se mai volesse che sua figlia, la moglie di lui Arria minore, compisse lo stesso gesto; ma Arria risponde di sì, se ella un giorno si troverà a vivere tanto a lungo e felicemente con Trasea quanto lei con Cecina. Quando poi si accorge di essere sorvegliata dai familiari, ribadendo ad alta voce che niente e nessuno può impedirle di morire, si avventa contro il muro, batte violentemente la testa fino a cadere a terra priva di sensi; ripresasi, aggiunge: «Vi avevo detto che avrei trovato comunque un modo difficile, se me ne aveste negato uno facile». Infine, allorché è il momento per Peto di togliersi la vita, vedendolo esitante, Arria prende il pugnale, se lo conficca nel cuore, lo estrae e, prima di esalare l’ultimo respiro, glielo mette in mano dicendo: «Peto, non fa male». 
Dal canto suo, Tacito la ricorda nell’episodio della morte di Trasea, quando questi invece persuade la moglie Arria minore, che lo supplica di lasciarla morire insieme a lui, a non seguire l’esempio della madre. 

Queste eroine aristocratiche sono delle eccezioni. Sia per il voluto controllo delle nascite che per un cambiamento operato dagli stessi costumi si assiste tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo a una diminuzione delle nascite. Gli stessi imperatori ne danno l’esempio: Nerva rimane celibe, e Adriano e Traiano, pur sposati, non hanno figli legittimi. Così il console Plinio il Giovane, felicemente sposato con la terza moglie, Calpurnia, non ha figli dai suoi tre matrimoni. 

Ci restano anche numerose stele funerarie della piccola borghesia nelle quali i defunti che non hanno figli sono rimpianti dai loro liberti. 
Marziale ritiene una cosa eccezionale degno di un epigramma il fatto che Claudia Rufina abbia avuto tre figli e commemora il ricordo di una matrona onorata ai giochi secolari del 47 e dell’88 d.C. perché ha avuto ben cinque figli dal proprio marito. 

Se le donne romane dell’Impero, secondo i censori dei costumi, trascurano il loro compito di mettere al mondo figli hanno, però, il vantaggio di conquistare quei privilegi che in età repubblicana sono stati per secoli appannaggio degli uomini. Giovenale nella Satira sesta prende in giro quelle donne che si danno alla professione forense o che si appassionano di politica interna ed estera osando dare consigli a generali su come condurre la guerra contro i Parti. Altre si dedicano alla letteratura ostentando giudizi perentori anche a tavola e mettendo in imbarazzo grammatici e retori.  

«Eppia, moglie di un senatore, segue una compagnia di gladiatori sino a Faro, fino al Nilo e alle mura malfamate di Lago, facendo inorridire persino Canopo per l’incredibile immoralità romana. Dimenticati casa, marito e sorella, senza un pensiero per la sua patria, quella scellerata abbandona i figli in lacrime e, ciò che più stupisce, persino il suo Paride e i giochi. Pur allevata tra le piume di una culla intarsiata e nel lusso della casa paterna, non ebbe paura d’affrontare il mare: del resto aveva già disonorato il suo nome, di cui poco importa a chi è avvezzo alle molli poltrone. Navigando di mare in mare, ha attraversato i flutti del Tirreno e la distesa fragorosa dello Ionio con cuore intrepido: son donne, queste, che solo se devon correre un rischio per una causa onorevole e giusta cadono in preda alla paura, si agghiaccia il loro cuore nel petto, le gambe tremanti non le reggono più; solo osando le loro turpi imprese ostentano un grande coraggio.  

Se lo vuole il marito, è un dramma salire sulla nave: il tanfo della stiva le sconvolge e svengono. Ma quella che segue l’amante ha stomaco di ferro. La prima vomita addosso al marito, questa mangia coi marinai, scorrazza per il ponte e gode a maneggiare le ruvide gómene. Ma per quale bellezza, per quale mirabile giovinezza bruciava d’amore Eppia? Cosa ha mai visto in lui per sopportare di essere chiamata gladiatrice? In verità il suo Sergino ormai aveva cominciato a radersi la barba e a sperare nel congedo per quel suo braccio rotto; senza contare gli sfregi del viso, il naso escoriato dall’elmo con una grossa protuberanza nel mezzo, e uno sgradevole malanno che gli faceva lacrimare di continuo gli occhi. Ma era un gladiatore! Quanto basta per farne un Giacinto, per preferirlo a figli, patria, sorella e marito: è il ferro che amano le donne. Se il suo Sergio avesse già ricevuto il bastone del congedo, all’istante non le sarebbe apparso diverso da un qualsiasi Veientone». 

Giovenale apprezza la donna all’antica «che non usa un lambiccato stile…  non conosca le istorie tutte: poche cose sole sappia dai libri, e che neppur capisca». Gli strali del poeta satirico colpiscono anche un’altra categoria di donne: quelle che gareggiano con gli uomini nelle attività sportive, vanno a caccia di cinghiali d’Etruria, vestite da uomo assistono alle corse delle bighe e si appassionano alla lotta o alla scherma, per cui si allenano assestando colpi a un palo come un rude gladiatore. «Quale pudore aver potrà la donna che il suo sesso rinnega e cinge l’elmo?» si chiede Giovenale che nota come ormai la donna romana assuma gli atteggiamenti peggiori degli uomini da cui sinora ha preso le debite distanze: così s’ingozza nei banchetti come gli uomini e come questi si abbandona al libertinaggio essendosi ormai abituata a vivere non più come compagna ma come coinquilina del marito. 

Le donne romane dell’epoca imperiale pretendono di vivere la vita come pare e piace loro e proclamano spudoratamente la loro parità di diritti nei confronti degli uomini: «Eravamo d’accordo che tu facessi quel che volevi, ma che anch’io potessi darmi al bel tempo. Grida quanto ti pare, sconvolgi pure mare e cielo: sono un essere umano anch’io!». 

***

Articolo di Florindo Di Monaco

Florindo foto 200x200

Docente di Lettere nei licei, poeta, storico, conferenziere, incentra tutta la sua opera sulla Donna, esplorando l’universo femminile nei suoi molteplici aspetti con saggi e raccolte di poesie. Tra i suoi ultimi lavori, il libro La storia è donna e le collane audiovisive di Storia universale dell’arte al femminile e di Storia universale della musica al femminile.

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