Le sorelle Francesca e Concetta Grimaldi

È ormai noto che la cosiddetta “monacazione forzata” ha attraversato parecchi secoli. Varie erano le ragioni di questa vera e propria forma di violenza: una dote insufficiente per il matrimonio, per non sminuire il valore del patrimonio familiare che con la legge del maggiorascato spettava al primogenito, fallimenti economici o scandali che avevano intaccato l’onore della fanciulla, per la presenza di lievi difetti fisici o semplicemente per non essere considerate “attraenti” secondo i canoni estetici di un determinato periodo. La stessa sorte era riservata alle ragazze con carattere definito “ribelle o prepotente”.

La letteratura ci riporta alcune di queste storie. Basti pensare a Gertrude, la Monaca di Monza dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni che, nella realtà, era suor Virginia Maria de Leyva, costretta dal padre a prendere i voti. Ma anche altri scrittori ci raccontano casi analoghi come Giovanni Verga nella Storia di una capinera, Denis Diderot con La religiosa e Guido Piovene con Lettere di una novizia, solo per citarne alcuni. Tra le tante vicende che invece sono rimaste nell’oblio, una in particolare ci ha colpito: quella delle sorelle Francesca e Concetta Grimaldi.

Siamo nella seconda metà del Settecento e non aver generato un figlio maschio, a cui far ereditare titolo e patrimonio, era decisamente una disgrazia, e ancora più disgraziata era stata la sorte del Governatore dell’allora Contea di Modica, la cui moglie, Antonia Nicolaci , principessa di Villadorata, aveva messo al mondo ben otto figlie. Una di loro morì appena nata, per sei, il padre decise che dovevano monacarsi, così l’unica rimasta avrebbe ereditato una dote dignitosa. Le prescelte furono dunque inviate in un monastero. Non tutte però accettarono supinamente la decisione paterna, ed in particolare due di loro, Concetta e Francesca, si ribellarono all’imposizione.
La prima era nata nel 1763 e la seconda nel 1767.
Condotte in convento, già durante il noviziato iniziarono ad assumere atteggiamenti ostili verso le altre consorelle e le superiori e a disobbedire sistematicamente alle regole imposte, comprese quelle dell’abbigliamento. Loro non volevano assolutamente diventar monache e abbandonare la vita mondana ma il padre fu inflessibile, le costrinse a prendere i voti e per quell’evento organizzò addirittura una festa. Le due sorelle iniziarono a piangere, a dimagrire, a soffrire e si ammalarono. Concetta e Francesca chiesero di poter uscire dal convento e intentarono un processo di “smonacazione” (gli atti sono stati pubblicati dalla storica Teresa Spadaccino che ha recuperato dagli archivi questa storia).

Lo vinsero e, sfidando le convenzioni sociali e soprattutto quelle del rango di appartenenza, non ebbero alcuna intenzione di ritornare a vivere in famiglia. Quando riuscirono finalmente a uscire da quel convento-prigione, Concetta aveva trent’anni e Francesca ventisei. Si sposarono ma nessuna delle due ebbe figli e restarono entrambe vedove con patrimoni molto consistenti.

Forse anche questo uno strano disegno del destino.

Modica. Corso Crispi

Si ritrovarono così libere da qualsiasi obbedienza maschile e decisero di utilizzare il proprio patrimonio per far rifiorire la loro città in campo culturale e sociale. Diventarono generose benefattrici nella costruzione di due chiese, di orfanotrofi, di istituzioni caritative, di scuole di ogni ordine e grado, con particolare attenzione a quelle professionali che consentivano l’apprendimento di un mestiere. Con una fetta dei loro beni istituirono pure un Monte di Pietà.

Furono loro che, con intelligenza e lungimiranza, decisero cosa realizzare, rendendosi protagoniste assolute della rinascita di Modica. Avrebbero potuto diventare delle pie donne e la loro ricchezza sarebbe confluita nel patrimonio ecclesiastico, come era d’uso a quei tempi. Invece no, Concetta e Francesca decisero autonomamente come arricchire e trasformare la loro città.

Proprio per questo ardire, l’oblio ne ha ricoperto le azioni e neanche l’odonomastica del luogo le ricorda. Solito dazio da pagare per le donne disobbedienti e autonome.

***

Articolo di Ester Rizzo

Laureata in Giurisprudenza e specializzata presso l’Istituto Superiore di Giornalismo di Palermo, è docente al CUSCA (Centro Universitario Socio Culturale Adulti) di Licata per il corso di Letteratura al femminile. Collabora con testate on line, tra cui Malgradotutto e Dol’s. Per Navarra edit. ha curato il volume Le Mille: i primati delle donne ed è autrice di Camicette bianche. Oltre l’otto marzoLe Ricamatrici e Donne disobbedienti.

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