In Sardegna è nato e vive uno scrittore che si ama totalmente, oppure si rifiuta e non si capisce: non ci sono vie di mezzo. Si tratta di Salvatore Niffoi, barbaricino di Orani (Nuoro), ex insegnante, che dalla sua prima prova narrativa, Collodoro, pubblicata quasi cinquantenne nel 1997, ha continuato ad affascinare lettrici e lettori non solo sardi, ovviamente, con l’arrivo puntuale di altri romanzi e raccolte di racconti. Nella produzione spiccano La leggenda di Redenta Tiria (2005) e La vedova scalza (2006 – premio Campiello), entrambi pubblicati da Adelphi come buona parte dei successivi, che lo fecero conoscere e apprezzare da un pubblico sempre più vasto. Personalmente faccio parte delle estimatrici assolute per una serie di motivi, gli stessi che possono respingere chi lo trova di “difficile” lettura. Intanto bisogna calarsi nel suo mondo appartato ed entrare nei luoghi dove sempre ambienta le sue storie; i nomi di fantasia lasciano comunque trasparire i ben riconoscibili paesi dell’entroterra dell’isola, quelli che gli sono familiari e dove ha scelto di rimanere, nonostante la notorietà. Realtà difficili, talvolta respingenti e poco ospitali, non è la Sardegna “facile” del turismo, del mare limpido, delle spiagge assolate. Questa è una terra aspra, dove la vita era ed è dura, dove si trovano paesaggi incontaminati fra rocce, monti, pascoli, foreste, sentieri impervi; dove ogni giorno è una conquista e una battaglia con la natura; dove resistono tradizioni e usanze ancestrali; dove la violenza, i sequestri, il sangue ― umano e animale ― non appartengono solo al passato. Se non ci si spoglia dei nostri pregiudizi di continentali, questo mondo non si comprende, come del resto non si comprende pienamente la lingua utilizzata.

Niffoi, infatti, usa l’italiano come base della narrazione, ma assai spesso, con una sapiente efficacia espressiva, inserisce frasi, costrutti, parole (come un cane arrajolato, strumpava a terra, sbarriolati), esclamazioni e modi di dire (Limbas malas!), proverbi nel “suo” sardo, non sempre poi di séguito tradotti o spiegati. Sua caratteristica risaputa è quella di rifiutare un glossarietto a cui talvolta chi legge potrebbe ricorrere, se in difficoltà; no, impossibile. O si capisce e ci si immerge nel flusso di questa bellissima prosa corposa, tangibile, arcaica ma fluente, arricchita da frequenti paragoni, oppure si rinuncia e ci si priva di una sfida avvincente. Anche le vicende narrate possono piacere o no: per lo più ci troviamo in tempi sospesi, vaghi, già trascorsi, in situazioni favolose fra realtà e fantasia, fra miti e magia (come nel Venditore di metafore, titolo ideale per calarsi in un microcosmo onnicomprensivo grazie alle storie di Agapitu), in cui sono implacabili tutte le passioni: amore, violenza, odio, disamistade. E forti sono i personaggi, con il loro carico di dolori, di rimorsi, di peccati da scontare.
Nel romanzo pubblicato nel 2020, Le donne di Orolé, Niffoi in realtà unisce due storie al femminile che in comune hanno il paese in cui si svolgono, Orolé appunto, nome fittizio, da non cercare sulla cartina, come pure Gonnospò, Ordiana, Boroddì, Ispinarva, Ortakos, che tuttavia richiamano nel suono luoghi realmente esistenti. Nella prima parte, più breve, la protagonista è Isoppa Licanza che, a 84 anni, si racconta, reclusa per scelta nell’eremo di Monte Muzzu; nella seconda sarà Sidora Puntera al centro delle vicende, narrate da una voce che non è la sua.
Isoppa apparteneva a una famiglia di “balentes”, gente pronta all’azione, rispettata e temuta; possidenti e grandi lavoratori, i genitori educano a loro modo con affetto la bambina, ma la abituano a veder morire gli animaletti più cari, a non temere il coltello o la presenza di armi, a montare a cavallo con sicurezza, ad assistere a qualsiasi operazione si debba svolgere in campagna, nell’ovile o nella stalla, anche la più cruenta. Cresceva docile e molto bella, aveva capelli chiari con i boccoli morbidi e indossava nelle feste abitini profumati di bucce secche di mandarino. È anche andata un po’ a scuola dalla brava maestra Lidia a cui i fascisti uccisero il marito con inaudita crudeltà, ma non ha imparato granché, quando firma ancora oggi fa una croce, e le dispiace perché c’è un libro di poesie che ha conservato con cura, che vorrebbe leggere e di cui ricorda a distanza di tanto tempo alcuni versi. Glielo regalò l’amore di una sera, un giovane geometra arrivato da fuori che la conquistò, sotto una sottile pioggia, recitandole passi dall’Alcyone di D’Annunzio. Da quella breve unione le nacque il fragile figlio prediletto, Mucreddu, l’unico che sia però sopravvissuto alle violenze che hanno decimato l’intera famiglia, una volta numerosa e forte. Zelleddu e i cinque figli sono scomparsi e mai più ritrovati, i resti del padre Felle Licanza «ci potevano stare in una sacca di tela. Chi lo aveva portato lì, per squartarlo e darlo in pasto ai corvi, sapeva che i Licanza sarebbero morti con lui, che la guerra sarebbe finita all’antica, senza resa e senza disonore». Custode di segreti terribili, testimone di fatti di sangue, colpevole di adulterio, spietata nemica di ogni ingiustizia, ma anche brava figlia, sorella comprensiva, moglie devota e grande lavoratrice, chiede ora perdono e spera di trovare pace in quel paradiso dove se n’è andato il nonno, mannoi Genesiu, l’unico familiare a morire centenario nel suo letto.
Mi rendo conto che una semplice sintesi della trama è poco efficace, perché il lessico e la prosa non si possono spiegare, e neppure la forza dei dialoghi o il fascino delle descrizioni, dovrei copiare interi passi dal testo per dare solo un’idea dello stile unico di Niffoi. Sceglierò dunque dei brevi esempi.
«Nella radura il profumo dei garofanini selvatici si era impastato con i resti degli addomi squarciati e l’odore selvatico della menta puleggia. […]
Io ricordo solo che babbu Felle Licanza quando salì a cavallo si rivolse a tutti i parenti e disse a voce alta: “Custa er gherra! Dae como issusu, o noi o issos!”».
E ancora due descrizioni con metafore e paragoni: «In un mare di nuvole striate di rosso il sole annegava lentamente»; «Era un imbrunire settembrino, il sole era esploso nel cielo come una bomba di luce, che sparava sulla piana di Sos Graviglieddos chiarori rossastri e tremolanti come quelli gassosi delle anime in pena nelle notti d’estate».
La seconda parte del volume è più ampia e corale, comprende quindi una ricca gamma di vicende, personaggi, legàmi che ruotano intorno al paese e a Sidora, simile ad un angelo dai magnifici occhi verdi, tanto dotata per l’arte da essere definita “sa pittora”. A ogni capitolo, quasi un racconto a sé, corrisponde una storia: la tomba misteriosa e senza nome nel cimitero, la bella figura di mannoi Crapitta, detto Carnera per la sua forza e le sue notevoli dimensioni, il timido nipote Bore, ragioniere esperto, innamorato perso di Sidora fino dall’infanzia, la vita operosa dei genitori della ragazza, e così via. Che la tragedia incomba si capisce dal sesto capitolo quando Martine, il fidanzato geloso, picchia selvaggiamente la futura moglie, sbattendole la testa sul muro 18 volte, quanti sono i suoi anni; il giorno triste delle nozze Sidora avrà il volto deturpato da cicatrici e i capelli corti, avrà pure perso a suon di calci il figlio che aspettava. Sarebbe da riportare per intero il capitolo successivo in cui viene descritta la figura di tziu Antoneddu che aveva un rapporto quasi amoroso con la sua vigna, abbellita da rose e altri fiori, che curava le piante e accarezzava i grappoli succosi, ottenendo un ottimo cannonau. Possedimenti senza muri né recinti, con alberi carichi di frutti profumati: tanto, diceva, se qualcuno vuole rubare entra lo stesso! Eppure, meschineddu, fu trovato affogato in un vascone, se per disgrazia o altro non si seppe mai. Un bel podere acquistato poi da Bore e riportato a nuova vita. «Quel mattino d’agosto il cielo era un ordito di piccoli batuffoli di nuvole che salivano in alto come mongolfiere abbandonate». Nonostante la serena atmosfera, sta avvenendo un fatto terribile, pensato dalla mente acuta di Bore per punire il rivale Martine, stupido e crudele. Sidora, «vedova fresca come un grappolo di moscatello raccolto all’alba», profumata di nocciole e ciclamini, è in breve pronta a unire la sua solitudine a quella dell’eterno innamorato. Il futuro che li attende non sarà tuttavia l’idillio sperato; dopo la passione iniziale e tre figli, arriveranno morti, infelicità, rimorsi, disgrazie a cui né i soldi né l’alcol né un bel disco sul grammofono daranno sollievo. Novella Medea, Sidora fa quello che deve fare: la tragedia si sta compiendo inesorabile. «Stanca di andare/ dove la porta il vento», la donna sceglie una strada senza ritorno; «Brucia, maledetta vita mia, brucia!» è l’ultimo suo grido. Solo alla fine sapremo di chi è quella tomba “kenza numene” al cimitero di Chirilai. Vendetta (o giustizia?) è stata fatta.
Che dire di più? Leggete e lasciatevi andare al magico flusso del racconto.

Salvatore Niffoi
Le donne di Orolé
Giunti, Firenze, 2020
pp. 180
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Articolo di Laura Candiani

Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume Le Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.