Anna Banti racconta in Noi credevamo le memorie del nonno, Domenico Lopresti, sottoforma di un romanzo idealmente collegabile al filone degli “anti-storici” (come Il Gattopardo, Le confessioni d’un italiano, I Viceré) e la sua mano si immedesima con quella del protagonista. Per Domenico Lopresti sono le memorie di un “Risorgimento tradito”, per Anna Banti è il meta-racconto di una “Resistenza tradita”. La scrittrice, infatti, a un secolo dalle esperienze del nonno Domenico e con alle spalle il ventennio del Dopoguerra, sembrerebbe soffrire allo stesso modo per un tradimento da parte della sua nazione.
Il protagonista è ormai settantenne, malato e allettato, ripensa a tutta la sua vita e cede al «bisogno di parlare sulla carta». Riscopre una vita dedicata a combattere per l’Italia unita, per la quale è stato smoderatamente punito attraverso trent’anni di carcere. Dall’esecuzione a L’Aquila al bagno di Procida, dalle mura di Montefusco e quelle di Montesarchio allo sbarco a Livorno e all’incontro con Garibaldi, la narrazione si riempie di sfumature: pur rimanendo nei parametri della letteratura carceraria, lo si può definire un romanzo storico, documentario, di formazione, politico e d’avventura. Egli stesso paragona a un tratto le sue avventure con quelle di Don Chisciotte. Attraverso la sua scrittura, mentre guarda indietro all’Unità d’Italia fatta, si interroga sul senso della sua vita, affondando la penna nei ricordi più remoti della sua infanzia, cercando delle risposte. Eppure, l’unica risposta certa che troverà, sarà quella di un doloroso fallimento.
Come in una sorta di struttura chiastica, all’inizio del romanzo compare la figura del medico, la quale ritorna sul finale per rivelare, inaspettatamente, che la scrittura del protagonista non è altro che un gesto involontario della mano su carta, mosso da un cervello che non funziona più. Il punto di vista del lettore è, così, capovolto: la narrazione potrebbe essere considerata per intero pura immaginazione? Oppure, potrebbe man mano sfumare nella fantasia dello scrivente a causa di una malattia che lo sta conducendo alla morte?

L’Unità in Italia c’è stata, è vero. Ma a che prezzo? Le masse, quelle per cui Lopresti ha lottato, sono rimaste fuori. In Noi credevamo emerge chiaramente quanto si diversifichi il sud dell’infanzia e della maturità del protagonista rispetto a quel nord e a quella Torino di sua moglie e degli ultimi suoi anni di vita; lì decise di trasferirsi con la famiglia nel 1881, anche se servì a poco, nulla era cambiato: «Siamo napoletani, noi, soggetti da guardarsene, da sorvegliare, qualcosa di mezzo fra il brigante e l’imbroglione». Sotto il velo ironico di un’affermazione paradossalmente “tipica”, si nasconde un’amara e sottile consapevolezza. In altre parole, la contraddizione di fondo della nascita dello Stato italiano risiede nell’espressione moderna del Risorgimento mista ai tratti oligarchici e accentratori che volevano invece accentuarsi sempre più.
«I ricordi del carcere agiscono come il carcere stesso, aboliscono il tempo»: la narrazione non è lineare, ha continui andirivieni tra passato e presente; è una meta-narrazione: come già detto, la prima persona è anche il protagonista, che è anche il lettore, che si immedesima con il suo modo di ragionare e con la sua esperienza di vita, associazioni e nessi che rapportano ogni età e che lo trasportano in un ambiente dal tempo indefinibile, senza orologi e senza qualsiasi altra forma di elaborazione cronologica, solo la luce del giorno e il buio della notte.
«Ridotti ad un’unica persona»: la prima persona plurale compare spesso e identifica ormai un bisogno che è a metà fra speranza e umanità. Mentre prima ci credeva davvero in quel “noi”: lui e i suoi erano un tutt’uno, i quali, attraverso una “social catena” leopardiana sarebbero potuti riuscire a liberare il popolo dalla dominazione borbonica. Il carcere, infatti, non lo cambiò: si rimise subito all’opera, alla ricerca di esponenti del partito mazziniano, in un corpo che voleva avere trent’anni in meno per fare le stesse cose di trent’anni prima. A quel “noi” ha sempre offerto un “patto di fedeltà” sottinteso: «il sentimento che ci univa, dopo anni di prigionia era qualcosa di più alto della comune amicizia». Il sentimento in questione era una fraternità concepibile solo dopo aver vissuto il carcere. Lì si vive in unanimità, nessuno è geloso della propria individualità.
«In questo silenzio che mi abita, ho la testa piena di parole»: Domenico Lopresti appare sin dal primo capitolo come una persona dall’anima disillusa, delusa, amareggiata, cinica, diffidente; un uomo vecchio, troppo per i suoi figli giovani, alle prese con una vita che non gli appartiene, in una stanza e in una città che sembra non gradire abbastanza. La somiglianza con lo stato d’animo di Salvatore Quasimodo che si sente su una “torre d’avorio” sembra evidente. Allora proprio a quel “noi” che ha smesso di avere la valenza iniziale, violerà il “patto” segreto di non raccontare, cederà alle esigenze della sua interiorità: «Respiro, mi sento libero di abbandonarmi in tranquillità a questo tardo innocente vizio di chiacchierare muto». La chiama «grafomania», si chiede se è un segno di demenza. Nella storia della letteratura carceraria si incontrano spesso persone che hanno sfruttato l’uso della scrittura per “sopravvivere” a quella condizione di reclusione. Pur volendo, lui non avrebbe potuto: non gli si concedeva nessuna modalità di scrittura. Nel suo carcere, l’unico sollievo ai mali sembrava essere il silenzio: godeva preziosamente di quella sensazione “ultraterrena”, piacere accentuato nel periodo in cui visse accoppiato con il «buio di velluto», dove si credeva e lo credevano tutti cieco e vicino alla morte, fin quando per caso si accorse di non esserlo. Da quel momento ritrovò una strana e velata felicità data dalla coscienza dell’essere in vita e della libertà di cui era in possesso, l’unica che gli “conveniva” e che rimpiangerà: il carcere.
«Coerenza»: il protagonista pronuncia più volte dentro di sé questa parola in forma di imperativo, sperando di trovarla, in un certo senso, in quel mare di pensieri che gli inondavano la mente e che lo spingevano a scrivere le sue memorie: a metà, fra ragione e sentimento. Nel mondo, incoerente, riusciva a vedere solo sé stesso, coerente. Più o meno. Ma un disegno di coerenza si può trovare anche in quella morale che mantenne durante tutta la pena e per tutta la vita. A differenza dei suoi compagni, non ha mai guardato alla tentazione di chiedere la grazia sovrana, tutti coloro che avevano ceduto avevano anche accettato una “deportazione”, lui, invece, l’avrebbe persa la vita, per le sue idee.
In copertina: scena del film del regista Mario Martone Noi credevamo, tratto dal libro di Anna Banti.

Anna Banti
Noi credevamo
Mondadori, Milano, 2010
pp. 348
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Articolo di Marlene Ursini

Studentessa magistrale di Italianistica a Roma Tre. Vive a Roma ma è nata in un paesino sul mare in Abruzzo. Innamorata dell’Italia, della sua cultura, della sua arte e della sua letteratura; dei suoi paesaggi, cibi e dialetti. Fa della curiosità il suo più grande talento. Ha un sogno nel cassetto: lavorare nel mondo della radio.