Da anni gli studi di genere hanno evidenziato quanto sia univoca e limitata una narrazione storica che cancella e tacita presenze e voci femminili, orientando una lettura del passato incentrata su categorie discriminanti; tuttavia nella pratica didattica quotidiana siamo ancora distanti dal proporre agli e alle studenti una visione aperta, il più possibile libera da presupposti vincolanti, che alimenti un desiderio di ricerca e in grado di osservare quanto per secoli è rimasto nascosto.
Spesso gli stessi manuali, nonostante alcune eccezioni, faticano ad allontanarsi da un’impostazione tradizionale, limitandosi ad aggiungere qualche pagina dedicata alla presenza delle attività femminili, ben lontani dunque dal tentare una rilettura, supportata da una adeguata ricerca documentaria, che sappia guardare la Storia da un altro punto di vista, promuovendo nuove, più ampie, scale di valori.
Appare dunque quanto mai utile la proposta di una formazione rivolta alle e agli insegnanti, finalizzata a fornire competenze e strumenti originali a coloro che hanno la responsabilità di costruire sin dai primi anni l’orizzonte dei saperi dei nostri giovani.
La prima delle sei lezioni, che spazieranno dal Paleolitico al Novecento, è stata proposta da Enza Spinapolice, archeologa del Paleolitico, docente presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza, la quale ha affrontato il tema della preistoria, dell’affermarsi della nostra specie e della probabile distinzione di ruoli maschili e femminili.
Lo studio di un passato remotissimo pone numerosi problemi legati al numero e alla tipologia dei reperti. È estremamente complesso ricostruire le condizioni di vita dei nostri progenitori e delle nostre progenitrici, e anche il raffronto con le società che attualmente sembrano vivere come nel Paleolitico, per quanto utile, può solo fornire generiche indicazioni, poiché anche questi gruppi umani, sebbene in modo isolato e autonomo, si sono evoluti ed hanno subito influenze esterne.
Può essere interessante, affrontando tali tematiche soprattutto nella scuola superiore, proporre una riflessione sulla distanza tra il dato e la ricostruzione paleontologica, da cui emerge in modo evidente il problema epistemologico tipico dell’antropologia e, a maggior ragione, della paletnologia: lo sguardo muta l’oggetto della sua osservazione. La lettura dei reperti e dei ritrovamenti, spesso parziali o mal conservati, può essere costantemente orientata dall’insieme dei saperi che caratterizzano la nostra cultura.
Di certo le prime società umane sono state composte da cacciatori e raccoglitrici, organizzati in gruppi familiari estesi, patrilineari, esogamici. Le due attività fondamentali sembrano indicare una divisione di genere e una diseguaglianza: mentre la caccia era praticata prevalentemente dai maschi, in modo isolato o cooperativo, la raccolta era un’attività femminile. Anche quando le donne venivano coinvolte nella caccia, probabilmente non utilizzavano armi da taglio, mentre gli uomini potevano dedicarsi alla raccolta, per esempio di un unico prodotto, come il miele.
Sebbene la gran parte delle calorie necessarie alla sopravvivenza derivasse proprio dalle attività di raccolta, questa non godeva di prestigio, mentre la caccia doveva avere un forte riconoscimento sociale ed essere considerata eroica.
Tale distinzione di ruoli e di funzioni potrebbero essere stati motivati dalle necessarie attività di cura e da un dimorfismo sessuale molto presente nelle grandi scimmie ma ancora oggetto di studi per quanto riguarda gli e le ominini. I reperti aiutano il riconoscimento della appartenenza sessuale attraverso l’analisi della pelvi e del cranio, ma raramente i ritrovamenti sono completi.
Nell’Australopithecus Afarensis, specie alla quale apparteneva anche la famosissima Lucy, il dimorfismo doveva essere piuttosto significativo, considerando la cosiddetta “camminata di Laetoli”, in Tanzania, un insieme di impronte conservate nella cenere vulcanica, da cui si rileva il passaggio di un individuo di notevoli dimensioni (165 centimetri di altezza per 48 chili di peso) accanto ad impronte più piccole, probabilmente di femmine e di un piccolo. Nei fossili più recenti si osserva un processo di femminilizzazione dei caratteri che appaiono meno marcati e più gracili.
L’umanità nasce in Africa e lentamente colonizza altri spazi, ma non vi è ancora certezza su poligenesi o monogenesi dei primi gruppi umani. La scoperta ad Herto, nella piana del fiume Afar in Etiopia, in una zona ricca di fossili anche animali, di un cranio umano quasi completo risalente a circa 170.000 anni fa, fino ad allora la più antica testimonianza Homo Sapiens, ha alimentato la tesi di una origine riconducibile alla zona dell’Africa sud-orientale.
Tuttavia il ritrovamento di pochi resti fossili, attribuibili alla nostra specie e risalenti a circa 300.000 anni fa, a Jebel Irhound, in Marocco, ha autorizzato l’ipotesi che l’origine dei e delle Sapiens sia più antica e non possa essere confinata nell’Africa subsahariana ma piuttosto si possa immaginare un multiregionalismo africano.
La scoperta della genetica e gli studi sul dna mitocondriale, che si trasmette solo in linea femminile, hanno permesso di identificare una sorta di antenata comune, una Eva mitocondriale, che sarebbe vissuta in Africa circa 200.000 anni fa. Egualmente è stato possibile riconoscere un cromosoma Y ancestrale, trasmesso di padre in figlio, appartenente a un maschio teorico che rappresenta il più recente progenitore comune di tutti i maschi attuali.
Questi studi, ricostruendo le successive modificazioni degli aplogruppi mitocondriali e cromosomici, hanno inoltre permesso notevoli passi avanti nella comprensione del processo di popolamento della terra da parte della nostra specie: molto probabilmente pochi ceppi usciti dall’Africa hanno dato origine ai gruppi che hanno lentamente conquistato i continenti e ciò sembra testimoniato dalla presenza in Africa subsahariana dei due aplogruppi più antichi, mentre il 90% del resto della popolazione mondiale sembra discendere da un unico aplogruppo.
Il primo Out of Africa fu opera di Homo Ergaster e di Homo Erectus che colonizzarono zone dell’Eurasia dove, tra i 300.000 e i 40.000 anni fa si diffusero due specie umane distinte, Neanderthal e Denisova.
Solo in un secondo momento Homo sapiens lasciò l’Africa, in una successiva ondata migratoria, per stanziarsi in Europa, dove incontrò Homo Neanderthalensis, e in Eurasia, dove incontrò Homo di Denisova. Nonostante queste popolazioni appartengano a specie diverse, l’analisi del dna operata su alcuni resti ha testimoniato episodi di incrocio diretto della specie Neanderthal con Denisova e Sapiens.
Una riflessione, attenta alla presenza femminile, su di un passato lontanissimo e di difficile decifrazione rischia seri travisamenti: rimangono tutto sommato incerte le relazioni e i ruoli sociali all’interno dei gruppi dei nostri più lontani antenati. Tuttavia questo tema può condurre ad alcune considerazioni riguardo al rapporto tra natura e cultura nella definizione degli spazi sociali e simbolici riconosciuti ai due sessi. Se da un lato le caratteristiche fisiche, la riproduzione e la cura della prole devono aver imposto obblighi specifici alle donne, allontanandole dalla dimensione eroica della caccia, man mano che si andava definendo un orizzonte culturale la funzione procreatrice femminile dovette assumere nuovo significato. Homo Sapiens, in grado di cooperare in modo complesso, di padroneggiare tecniche, di costruire monili e amuleti, di praticare l’inumazione con corredi funebri, riconobbe nella fertilità femminile un principio di sacralità.
Le Veneri paleolitiche rinvenute in diverse località europee, risalenti per la gran parte al periodo gravettiano (29.000-20.000 anni fa), rappresentano figure femminili stilizzate in cui sono evidenti caratteri sessuali estremamente pronunciati mentre non sono definiti i tratti del volto. Sebbene non si conosca esattamente il significato di tali rappresentazioni, si ritiene che possano essere ricondotte ad una dimensione religiosa che vedeva nel femminile l’origine della vita.
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Articolo di Tiziana Concina

Ho insegnato per molti anni italiano e storia negli istituti tecnici e italiano e latino nei licei, mi interesso di letteratura femminile italiana e straniera, in particolare mi sono occupata di Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Attualmente rivesto la carica di vicesindaca e di assessora alla cultura in un comune in provincia di Rieti.