Al bivio

Avevamo conosciuto Tiziana Robbiani – fotografa, scrittrice e poeta − nel 2005, quando vinse il secondo premio del I Concorso letterario “Lella Razza” Emozioni, indetto dall’Associazione culturale Donne&Donne di Sant’Angelo Lodigiano, proprio come autrice del racconto Al bivio. Negli anni successivi moltissimi i premi letterari vinti e le mostre fotografiche allestite, anche in luoghi autorevoli come lo Spazio Guicciardini a Milano.

Tiziana era anche educatrice e molto attiva nel volontariato, soprattutto nei gruppi di auto-mutuo-aiuto con/per genitori di ragazzi e ragazze disabili. Quando nel 2011, con la classe 4B del Liceo socio-psico-pedagogico, stavamo trattando il tema della disabilità, venne in mente a noi docenti di filosofia e scienze dell’educazione di far toccare con mano e cuore alla classe l’argomento, per non lasciarlo relegato in uno studio teorico manualistico.
Così ci tornò in mente Tiziana e la invitammo in classe con Serena, sua figlia, protagonista del racconto. Fu un incontro emozionante, ricco di significati ed esperienze di vita che ragazze e ragazzi porteranno con sé per sempre, come faro nei momenti difficili. Alcune/i di loro piansero e abbracciarono Serena.

 

Troppo bello e toccante il racconto, tanto che la classe decise di realizzare una rappresentazione teatrale da donare alla scuola e alla cittadinanza, per far cogliere aspetti – spesso ignorati o sottovalutati – di ciò che vive chi si trova in quelle situazioni, che richiedono scelte difficili. La classe rappresentò il racconto Al bivio al teatro “Giannetta Musitelli” di Lodi, interpretandone ciascuna/o una parte, con uno studente alla chitarra e una studente alla pianola a intervallare i momenti salienti suonando piccoli brani musicali. Vi furono molti complimenti: alla classe per l’impegno, profuso anche in molti momenti extrascolastici, e a noi docenti per un’iniziativa che metteva in relazione la scuola con il territorio e con il mondo reale, esistente al di là delle quattro mura dell’aula scolastica. 

Al bivio

Ciao piccola, 
so che ti arrabbi se ti chiamo così, mi dici: «Sono una donna io», ed è vero. 
Sei una donna. 
Ormai hai trentacinque anni, hai superato mille ostacoli, hai raggiunto mille traguardi, hai sbalordito tutti con la tua forza, la tua voglia di vivere, il tuo coraggio forse inconsapevole ma immenso. 
Hai superato anche i limiti che la medicina ti aveva affibbiato, che la nostra conoscenza aveva stabilito, sei riuscita ad andare “oltre”.  
Dovevi vivere solo pochi anni, non potevi superare il quarto anno di vita, non lo aveva mai fatto nessuno prima di te, nessuno con i tuoi problemi ha mai superato quello scoglio… almeno questo è quanto dicono i nostri sapienti libri. 
Ma tu sei qui, caparbia, combattiva, sempre in lotta ma soprattutto serena. Hai imparato che, come tutti e tutte hai il diritto di esistere, hai delle esigenze, ami alcune cose e altre non le sopporti, qualche volta ti arrabbi ma, forse non come tutti e tutte, spesso sei felice, e canti. 
Sai, non esiste suono più meraviglioso al mondo della tua voce quando sussurra cantando le parole del quotidiano, le parole che racchiudono la tua vita. 
Ma quante lotte, quanti momenti brutti sono incastonati nel tuo cammino come diamanti che in un primo momento appaiono grezzi, opachi e sporchi ma, una volta lavorati e vissuti, splendono di una luce unica. 
Ricordi, figlia mia? 
Ricordi quel giorno?  
Avevi tre anni e non si capiva molto dei tuoi problemi, quando – pensata geniale – uno dei tanti “esperti” che ti giravano intorno decise di somministrarti dei test. I test per me rappresentano la nostra incapacità di capire, la nostra inadeguatezza rispetto ai mille misteri della nostra meravigliosa umanità. I test avrebbero dovuto “farci capire”, dare una risposta ai tanti perché che costituivano la tua vita, che non rientrava nei nostri canoni. 
Tu eri molto piccola e anche se crescevi lo facevi sottovoce, molto lentamente, in ritardo rispetto alle nostre meravigliose tabelle dove tutto è stabilito, tempi, modi… quasi fossero Vangelo, verità assoluta uguale per miliardi di esseri umani uno diverso dall’altro, ognuno/a coi suoi tempi e coi suoi modi… ma se non rientri in questi canoni standardizzati allora, beh allora bisogna provvedere al più presto e a qualunque costo, bisogna riportarti nei “canoni”, ci fa troppo paura la diversità, ci fanno paura le cose che non capiamo e non sappiamo gestire. 
Tre giorni andammo avanti e indietro in questo luogo asettico, tutto bianco, popolato da camici bianchi che, dopo un frettoloso “buongiorno signora”, si richiudevano con te in una stanza a me proibita. 
Al quarto giorno, due camici immacolati, mi invitarono a entrare e con la maschera di circostanza (forse bianca anche quella) davanti a te, ma senza vederti, mi dissero: «Signora, sua figlia non è in grado di intendere e di volere, per lei non c’è niente da fare, non ci sono possibilità di miglioramento, resterà sempre un oggetto, una bambola di pezza. La chiuda in un istituto e la dimentichi o la sua vita sarà una continua inutile sofferenza. È giovane, può sempre fare un altro figlio». 
Sai, sento ancora il suono di quelle parole, erano così orrende che neanche i muri le accoglievano e continuavano a rimbalzare nella stanza colpendo in continuazione la mia mente che non le voleva sentire. 
Ti guardavo, ma tu sembravi indifferente a quanto stava accadendo, all’etichetta che ti stavano imprimendo a fuoco sulla fronte e ti avrebbe accompagnato per tutta la vita: eri un’handicappata. 
Non guardavi nessuno, sembravi estranea a tutto… forse non capivi o forse dentro di te sorridevi davanti alla presunzione, ai limiti, di noi povere ottuse persone normali, convinte di “sapere tutto”. 
Non ricordo come uscii da quel posto, con te rannicchiata fra le mie braccia che mi stringevi forte, forse per chiedermi protezione o forse per proteggermi… non so e non so neanche come tornammo a casa. 
Ricordo però che quelle parole mi rincorrevano, mi braccavano, erano sui muri, sui cartelloni, scivolavano in mezzo a mille volti indifferenti alla nostra angoscia. Il mondo andava avanti anche senza di noi, noi camminavamo in una bolla di sapone che rendeva tutto ovattato, ma nonostante tutto, quelle parole non riuscivano a entrarmi dentro, la mia mente le rifiutava. 
Cosa volevano dire?  
Dovevo scegliere se strapparti dalle mie braccia, dal mio cuore e rinchiuderti in un istituto dimenticandomi di te, del tuo viso, dei tuoi occhi che a me comunque comunicavano un mondo, lasciandoti sola… lasciandomi sola?  
Oppure in alternativa affrontare una vita sconosciuta, cercando di trasmetterti tutto, di insegnarti persino a sorridere – neanche quello ti veniva spontaneo (ma forse già avevi le tue ragioni) – continuare a crescere, a vivere a lottare insieme a te, per te… e per me? 
Era questa la domanda?  
Era questo il bivio? 
Assurdo. 
Non esisteva nessun bivio, nessuna alternativa, nessuna scelta da fare. Tu eri mia figlia, vita della mia vita e nessuno ci avrebbe separato, avremmo continuato a camminare insieme a qualunque costo. 
Il finto bivio era superato. 
La finta scelta era già stata fatta, prima ancora che si presentasse. 
Quante volte pensiamo di essere a un bivio. Pensiamo di essere davanti a una grande decisione da prendere, a una grande scelta da fare, e ci arrovelliamo la mente, ci roviniamo la vita e invece se guardassimo bene, scopriremmo che non c’è proprio niente da scegliere, niente da decidere. Siamo chiamate semplicemente a vivere, nella realtà che ci appartiene, nell’eroismo del quotidiano, in quella che può sembrare una banale routine ma che in fondo è la nostra vita ed è l’unica che abbiamo, figlia mia, l’unica che siamo chiamate a vivere affrontando le sofferenze, ridendo al sole, sorridendo alla luna, piccole stelle fra milioni di stelle, stelle uniche e per questo meravigliose, chiamate solo a “essere”. 
Sono felice ogni giorno, nonostante tutto, di non aver mai preso neanche in considerazione quella tremenda possibilità, la piccola grande donna che sei diventata mi riempie di gioia e quello che tu hai donato alla mia vita, il senso che le hai dato è così immenso che le parole non possono contenerlo, non possono descriverlo, sono troppo limitate. 
Grazie, figlia mia. 
E poi ti ricordi quell’altra volta, quando abbiamo dovuto affrontare il problema della tua schiena? Tu hai sempre avuto le spalle molto curve, quasi chiuse a proteggere il tuo piccolo grande cuore dal mondo. La tua spina dorsale non è una bella autostrada diritta, assomiglia di più a un sentiero di montagna pieno di curve. Un giorno un luminare ortopedico, dopo aver visto una tua radiografia, mi vomitò in faccia, senza nessun pudore né per me né per te lì presente, ma come sempre invisibile agli occhi dei medici incapaci di qualunque delicatezza, un’altra perla di verità. 
Mi disse: «Signora, sua figlia deve essere subito operata alla spina dorsale o entro un anno non potrà più respirare e finirà in un polmone d’acciaio. Non posso negarle che l’intervento è molto pericoloso e il rischio che finisca paralizzata su una sedia a rotelle è veramente molto alto». 
Tu avevi circa tredici anni ed eri in grado di capire… cosa avrai pensato in quel momento?  
Devo confessarti che davanti a quel bivio spaventoso: “paralisi/sedia a rotelle” o “polmone d’acciaio”, mi sono sentita morire.  
Ormai mi conosci, sai che quando succede qualcosa di grave per qualche minuto crollo, ma fortunatamente questo crollo dura poco, mi rialzo quasi subito e ricomincio a lottare, a cercare una soluzione, un’alternativa. 
Così ti ho abbracciata forte e ti ho detto: «Ce la faremo, ce la faremo anche questa volta». 
E così è stato. 
Il pronostico catastrofico del medico è stato smentito da altri medici da noi consultati e indubbiamente più umani ma, soprattutto, dalla realtà dei fatti. 
Sai cosa ho imparato da queste esperienze?  
Ho imparato che quando ti sembra di essere al bivio fra due scelte, bisogna avere il coraggio di alzare la testa e guardare bene, perché spesso si scopre che un bivio non è sempre fra due sole vie, ma ce ne può essere una terza e magari una quarta ed è solo la nostra paura che ci impedisce di vedere tutte le altre possibilità che ci vengono offerte. 
Questo è il mio augurio per te, figlia mia, non disperare mai, non smettere mai di amare, abbi sempre il coraggio di alzare lo sguardo oltre la presunzione, oltre i limiti, oltre la cattiveria di chi ti giudica, ti etichetta.  
Sono orgogliosa di te ogni volta che mi dici: «Mamma dobbiamo trovare una soluzione», così come sono sicura che non ti arrenderai mai, ogni volta che sussurri: «Ci provo mamma? Ci provo?» 
Continua ad avanzare nella vita a testa alta, guarda davanti a te, non abbassare mai lo sguardo, c’è sempre qualcosa che va “oltre” ciò che è la “normalità” e ti assicuro che troverai sempre un’altra via da percorrere, magari nuova, da scoprire… hai già dimostrato di avere coraggio, non c’è bisogno che te lo dica io… vai… troverai un sorriso, un cuore capace di amarti al di sopra di tutto e soprattutto troverai sempre te stessa, grande meraviglioso miracolo testimone di amore per la vita. 
Ti voglio bene. 
Mamma 

Il gruppo classe. Terza da sinistra la docente di Scienze dell’educazione Danila Baldo
e quinta la docente di filosofia Elena Cernuschi

Tiziana Robbiani è stata insignita, il 18 settembre 2021, della Benemerenza civica dalla Città di San Donato Milanese e ha ringraziato dicendo: «Spero di aver fatto la mia piccola parte nel mondo, non solo con la mia arte, ma anche come persona». 

In copertina. Poesia e fotografia dal libro Colori e pensieri di Tiziana Robbiani Trevisiol. 

***

Articolo di Danila Baldo

Laureata in filosofia teoretica e perfezionata in epistemologia, tiene corsi di aggiornamento per docenti, in particolare sui temi delle politiche di genere. È referente provinciale per Lodi e vicepresidente dell’associazione Toponomastica femminile. Collabora con con Se non ora quando? SNOQ Lodi e con IFE Iniziativa femminista europea. È stata Consigliera di Parità provinciale dal 2001 al 2009 e docente di filosofia e scienze umane fino al settembre 2020.

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