Giuseppe Tomasi era figlio del Duca di Palma, Don Giulio, e nipote del Principe di Lampedusa, titolo che risale al lontano 1563 e che si estinse con lui, seguendo la parabola discendente di quei casati nobiliari di antica tradizione alle prese con grosse difficoltà finanziarie dopo l’abolizione del feudalesimo e con problemi di successione, spesso legati alla mancanza di eredi o al contrario, all’eccessivo frazionamento delle proprietà.
Giuseppe nacque a Palermo, il 23 dicembre 1896. Trascorse l’infanzia e la prima giovinezza felicemente circondato dagli affetti domestici nelle tenute di famiglia a Palermo e a Santa Margherita, nella valle del Belice, tanto da definire successivamente quegli anni un «Paradiso terrestre e perduto». Ci fu naturalmente anche il risvolto negativo: tra i ricordi peggiori, il giovane Tomasi annotò i numerosi eventi mondani cui fu costretto a partecipare con la sua famiglia, nel clima effervescente della Palermo del primo decennio del ‘900. Il fascino esotico della città in quegli anni attirava gran parte dei sovrani europei, tra i quali Vittorio Emanuele, il Kaiser, i reali balcanici, e il rango della famiglia Tomasi di Lampedusa imponeva l’assidua partecipazione agli sfarzosi ricevimenti organizzati in tali occasioni. Ciò che condizionò in modo significativo la sua crescita e la sua futura vita adulta fu il legame esclusivo con la madre, Beatrice Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò, a cui corrispose la freddezza nei rapporti con il padre, e in generale con la componente maschile della famiglia. Tomasi disapprovava lo stile di vita dispendioso e aristocraticamente incurante della irreversibile perdita di risorse finanziarie tanto che la famiglia viveva ormai grazie al patrimonio della madre e alla generosità di alcuni amici di famiglia.

Il rapporto madre-figlio con il passar del tempo divenne sempre più soffocante, probabilmente condizionato dal fatto che la nascita di Giuseppe aveva coinciso con la morte della sorella Stefania all’età di due anni e la donna aveva riversato sull’unico figlio tutte le sue attenzioni. Anche quando il giovane andò in guerra nelle lettere materne emergeva, oltre alla comprensibile preoccupazione per la vita del figlio, l’utilizzo di quei vezzeggiativi spesso coniugati al femminile, che Beatrice utilizzava quando il figlio era ancora un bambino di pochi anni. Nel 1915 la carriera universitaria di Giuseppe fu interrotta dalla chiamata alle armi e i cinque lunghi anni che seguirono, fino al congedo del 1920, gli lasciarono in eredità un esaurimento nervoso che lo costrinse parecchi mesi a letto, accompagnato da incubi e insonnia di cui non si liberò per tutta la vita.
Nel periodo tra le due guerre Tomasi, stanco del clima familiare sempre più teso per questioni di finanziarie e annoiato dal grigiore della vita siciliana di quegli anni, soggiornò a lungo in diverse città del Centro-Nord, Genova, Torino, Bologna, Firenze, Roma, spesso accompagnato dalla madre. In quel periodo si dedicò assiduamente alla storia, all’arte, all’architettura e soprattutto alla letteratura, studiando con passione anche gli autori minori necessari, sosteneva, per possedere un quadro completo dell’epoca. Inoltre egli leggeva la maggior parte dei testi in lingua originale, acquisendo in tal modo un bagaglio culturale impressionante.
Viaggiò pure in Europa, e, tra le mete preferite, c’era l’Inghilterra dove nel 1925 conobbe la sua futura moglie Licy, (Alexandra Wolff Stomersee) una cittadina lettone figliastra di uno zio paterno, donna indipendente, studiosa di psicanalisi e di letteratura europea. I due giovani si sposarono segretamente a Riga nel 1932, perché Tomasi era convinto che la sua famiglia non avrebbe mai approvato il matrimonio. Egli però non intendeva staccarsi definitivamente dalla madre e la sua decisione di tornare a vivere a Palermo fece sì che il rapporto tra i coniugi restasse per molti anni di natura epistolare poiché Licy, dopo un anno di convivenza piuttosto faticosa con la suocera, si trasferì nuovamente a Riga.

Si ricongiunsero a Palermo solo dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia, quando le proprietà di entrambi erano state distrutte dai bombardamenti ed essi, come tutti, iniziarono a ricostruire le proprie esistenze. Affittarono un appartamento ammobiliato e Licy, unica donna in Italia, iniziò ad esercitare la psicanalisi freudiana mentre Giuseppe divenne Presidente del comitato di Palermo della Croce Rossa Italiana. Ma la sua indole riservata, timida e malinconica, acuita dalla perdita dei palazzi della sua giovinezza e, soprattutto, da quella della madre Beatrice nel 1946, lo condussero ad un isolamento sempre maggiore. Trascorreva la maggior parte del tempo leggendo tanto che a 55 anni rimpiangeva di aver letto quasi tutto! Iniziava le sue giornate recandosi di buon mattino alla pasticceria di via Ruggero Settimo dove consumava la prima colazione leggendo uno dietro l’altro i libri che spesso acquistava come antidoto contro la depressione che lo affliggeva e, successivamente, passeggiava per le vie cittadine ritrovandosi talvolta con un gruppo di intellettuali, tra cui il giovane Gioacchino Lanza che in seguito la coppia adottò.

Da tempo il pensiero di scrivere un romanzo aveva preso forma nella sua mente ma gli era sempre mancato lo stimolo per iniziare, nonostante l’incoraggiamento della moglie. Alla fine del 1954, presagendo una fine prematura (aveva difficoltà respiratorie e i medici gli avevano diagnosticato un enfisema), si dedicò alla stesura del Gattopardo, romanzo che lo rese celebre e che nel 1963 Luchino Visconti portò nelle sale cinematografiche.
Tomasi lavorò incessantemente durante gli ultimi due anni di vita componendo anche i racconti Lighea, La Gioia e la Legge e il primo capitolo di un romanzo che voleva intitolare I gattini ciechi.
Morì a Roma, il 23 luglio 1957, a 60 anni, senza la soddisfazione di veder pubblicato il suo Il Gattopardo, rifiutato prima da Mondadori nella persona di Elio Vittorini, (il testo mancava di unità e completezza) poi dall’editore Flaccovio (non pubblicava opere di narrativa) e, ancora, dalla figlia di Benedetto Croce, di professione agente letteraria, che non rispose nemmeno al mittente.

Il 3 marzo 1958 la moglie Licy ricevette una lettera dal romanziere Giorgio Bassani, direttore della collana I contemporanei della Feltrinelli che comunicava l’intenzione di pubblicare Il Gattopardo; il romanzo uscì nel novembre 1958 a Milano e l’anno successivo vinse il premio Strega. Il fatto inaspettato fu la nascita di una controversia letteraria come poche altre, centrata soprattutto sull’immagine della Sicilia che l’autore aveva restituito nella sua opera, in buona parte autobiografica. Tra i detrattori, un cardinale palermitano aveva sostenuto che il romanzo aveva contribuito al disonore dell’isola insieme con la mafia, perché era stata descritta come il luogo più arretrato d’Italia e senza speranza di riscatto anche a causa del carattere dei siciliani, i cui difetti furono effettivamente bersaglio del sarcasmo e dell’ironia dello scrittore.

La frase di don Fabrizio, il Principe di Salina, personaggio centrale del romanzo, riassume efficacemente tale giudizio: «I siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria». Le amare riflessioni del protagonista finivano per attribuire il fatalismo e l’inerzia dei siciliani al clima impietoso, dominato da un sole capace di annullare la volontà dei singoli tanto da ridurli facili prede dei tanti dominatori stranieri che nei secoli avevano assoggettato politicamente l’isola. Anche Leonardo Sciascia aveva liquidato l’opera di Tomasi di Lampedusa come priva di qualsiasi idea della storia.
Ma anche se nel Gattopardo le opinioni sulla politica locale e nazionale di Don Fabrizio riflettevano in buona parte quelle dell’autore, altri critici sostennero che si stava pur sempre discutendo di un romanzo e, in quanto tale, non poteva essere giudicato alla stregua di un saggio storico: nonostante poche pagine spiegassero più cose sui problemi della Sicilia di voluminosi trattati storici, il fulcro era costituito dalle problematiche del protagonista don Fabrizio, ben inserite nel quadro storico contemporaneo. Al di là delle polemiche, in un sondaggio del 1985 il romanzo si rivelò il più amato del Novecento: dopo vent’anni dalla pubblicazione furono vendute più di un milione di copie e stampate 121 edizioni; un grande successo che aveva riavvicinato alla lettura persone che, secondo Eugenio Montale, «avevano giurato di non aprire più un romanzo italiano».

degli anni Cinquanta

Riconoscimenti
1959 – Premio Strega.
2003 – Istituzione del Premio Letterario Internazionale Giuseppe Tomasi di Lampedusa promosso dall’omonima Istituzione presieduta dal figlio adottivo Gioacchino Lanza Tomasi. Il premio è destinato ad opere di narrativa che trattano i temi della pacifica convivenza tra culture diverse.
2006 – Apertura del museo del Gattopardo a Santa Margherita di Belice, nel palazzo Filangeri Cutò.
2009 – Posizionamento di targa commemorativa a Roma in Piazza dell’Indipendenza 5, dove Tomasi morì.
2014 – Inaugurazione di cippo commemorativo intitolato a Tomasi di Lampedusa posizionato nel giardino di fronte alla villa a mare di Palermo, in via Alloro, dove l’autore visse i suoi ultimi anni e ora abitata dal figlio. La villa è inserita nel percorso delle dimore storiche di Palermo.
***
Articolo di Marina Antonelli

Laureata in Lettere, appassionata di ricerca storica, satira politica e tematiche di genere ma anche letteratura e questioni linguistiche e sociali, da anni si dedica al volontariato a favore di persone in difficoltà ed è profondamente convinta dell’utilità dell’associarsi per sostenere i propri ideali e cercare, per quanto possibile, di trasformarli in realtà. È autrice del volume Satira politica e Risorgimento. I giornali italiani 1848-1849.