Nel 1992, per la prima volta dalla sua istituzione avvenuta nel 1989, il Premio Urania è assegnato a una donna, Nicoletta Vallorani, autrice del romanzo Il cuore finto di DR, poi pubblicato sul n. 1215 della celebre rivista il 3 ottobre 1993, ovvero l’anno successivo rispetto a quello di attribuzione, come prevede la regola di questo importante riconoscimento in ambito della fantascienza italiana.
Nicoletta è la prima di tre: sarà seguita a non breve distanza di tempo da Francesca Cavallero (Le ombre di Morjegrad), nel 2018, e da Elena Di Fazio (Resurrezione), nel 2020, a dimostrazione che, per quanto la fantascienza sia un genere femminile, non è stato facile per le donne trovarvi spazio e visibilità.
Il cuore finto di DR è l’opera di esordio di Vallorani, nata il 7 febbraio 1959 a Offida, Ascoli Piceno, ma solidamente milanese dai primi anni Ottanta; il suo incontro con il genere data, tuttavia, a oltre un decennio prima, quando nel 1981 si laurea all’Università di Pescara, sotto la guida di Carlo Pagetti, con una tesi in letteratura americana contemporanea che la accosta a tre grandi scrittrici di science fiction attive negli Stati Uniti in quel periodo: Joanna Russ, Alice Sheldon (alias James Tiptree jr.) e Vonda McIntyre. «La scrittura per me è sempre stata un canale espressivo. […] A un certo punto della mia vita decido, verso gli anni Ottanta, di provare ad essere pubblicabile. − dichiara in un’intervista del 9 aprile 2021 − Il mio primo romanzo è stato un romanzo di fantascienza, che era il genere che conoscevo meglio. Questo genere mi dà una cornice, una gabbia, l’intreccio soprattutto. […] La scrittura è sempre stata un rifugio, una consolazione. Non c’è stata una decisione. La decisione è stata ad un certo punto quella di rendere pubblicabile quello che scrivevo».

Al primo romanzo ne seguono altri (e si accompagnano racconti), che attraversano i generi science fiction, noir, thriller e vari ancora: «Ho sempre pensato che la scrittura sia scrittura, in qualunque genere essa scelga di declinarsi», afferma in un’altra intervista del 22 marzo 2020 Nicoletta Vallorani, che − come Pat Cadigan, autrice con la quale spesso consuona − rifiuta, a ragione, di essere ascritta a categorie vincolanti, di per sé stesse instabili, per quanto nella sua opera sia ben percepibile una sensibilità cyberpunk nella capacità di disegnare paesaggi urbani e personaggi borderline, che rinviano (anche) alla cinematografia: Blade Runner di Ridley Scott (1982), Strange Days di Kathryn Bigelow (1995) e Nirvana di Gabriele Salvatores (1997), per citare soltanto alcuni titoli.
DR è Penelope De Rossi, protagonista dell’opera prima, donna dal «cuore finto» perché sintetica (in altre parole, androide o replicante), concepita non in un grembo materno ma in un laboratorio genetico, modificata e trasformata da «modello extralusso da diporto» in «sintetico da difesa» per mano di Willy, «lo svitato», e poi abbandonata a sé stessa, a seguito della repentina uscita di scena del (per così dire) padre putativo. È un personaggio anticonvenzionale e riuscitissimo: «difettata, incompleta, imperfetta», DR si sente «uno scarto di fabbrica, un’esercitazione riuscita male, una specie di prova vivente della fallibilità delle intenzioni umane»; alta due metri, grassa, con un paio di orecchie per ciascun lato del viso, è una detective privata, sorta di Sam Spade o Philip Marlowe al femminile, volutamente priva, però, del fascino dei colleghi maschi degli anni Trenta e Quaranta. Presenza ingombrante, ritenuta non pericolosa − dopo la fuga non è «ritirata» dalla circolazione, come accade invece ai replicanti di dickiana memoria – DR ha una profondità interiore, una complessità di sentimenti, una vena di humor corrosivo che la rendono umana, più che umana, pur nutrendo in sé il dubbio di non esserlo, di non poterlo essere mai abbastanza. L’antagonista, come conviene a un noir hard boiled (non solo Dashiell Hammett o Raymond Chandler, ma anche il Roman Polanski di Chinatown, 1974), è una dark lady bella e malvagia, Elsa Bayern, erede di una famiglia di antica ricchezza e potenza, che grazie all’ironia e al disincanto che percorrono la vicenda assume talvolta i tratti grotteschi di una Crudelia De Mon milanese, fulminea nelle sue apparizioni (è comunque la metropoli post-apocalittica, come si vedrà, memorabile protagonista del romanzo). Nello svolgimento dell’indagine che le è affidata, De Rossi si avvale di comprimari, uomini e donne, convincenti per quanto improbabili e bizzarri: la bimba randagia Pilar, la telepate disabile Mariposa, il migrante cinese “spaghetti di riso” e la folla di reietti, malviventi, tossici di sintar (droga sintetica in voga nel tardo XXIV secolo) di cui pullulano i quartieri malfamati di Brera, Porta Ticinese e Rogoredo. Nel pregresso, che ritorna per poi ricomporsi, il viaggio su Entierres di Samuel Bayern, padre di Elsa, e dei due gemelli Angel e Nicole, scomparso il primo, irreperibile la seconda.
L’esito del testo è diseguale: folgorante l’inizio, pienamente riuscite le parti che vedono DR in azione, risentono invece di una certa lentezza i diari in prima persona di Samuel e di Nicole, intervallati alla vicenda, nei quali vengono meno ritmo e umorismo (qualità della scrittura di Nicoletta Vallorani); il romanzo, però, riprende accelerazione e vigore nell’ultima parte, in cui si intersecano con efficacia le prospettive e le narrazioni dei diversi personaggi, destinate a ricongiungersi e a trovare senso nel finale. Oltre all’ambientazione milanese (per chi conosce la città individuarne e ripercorrerne i luoghi mutati è un esercizio gradevole), punto di forza dell’autrice è la scrittura, personalissima e coerente con lo scenario metropolitano, con lessico connotativo e sintassi sincopata: «un linguaggio cattivo, pieno di lacerazioni e incongruenze, – lo definisce Vallorani in un’intervista rilasciata a Giuseppe Lippi nel febbraio 1997 – ma anche molto diretto, senza troppe metafore gentili e con nomi precisi per definire la sopraffazione, la peste, la morte, la corruzione, l’imbroglio e le distrazioni colpose».

La sintetica DR ritorna nel secondo romanzo DReam box, pure stampato in Urania nel 1997: in copertina, appare il lancio «una detective replicante a Milano»; in quarta, l’etichetta «un’avventura pulp del XXI secolo», con ammiccamenti, peraltro legittimi, a Philip Dick e Quentin Tarantino. Il testo (definito di genere «cyber-suspence») è preceduto da una introduzione a firma dell’autrice, A proposito di DR. La prima storia e quello che è successo nel frattempo, una sorta di riassunto della puntata, ovvero del romanzo, precedente.
Anche in questo testo, l’ambientazione milanese è riuscitissima ed efficace, tra Brera e Rogoredo, Conchetta e Niguarda, e soprattutto all’interno della torre Velasca, sventrata eppure eretta, divenuta rifugio di mutanti acquatici («né carne né pesce, come si diceva una volta»), che assumono un ruolo determinante nel coadiuvare Penelope De Rossi in una nuova, complessa indagine sulle morti di gusto grand guignol di giovani consumatori di dream box, pacchetti di sogni artificiali. La vicenda si svolge quindici anni dopo la precedente: Milano si è ulteriormente degradata (ciò che resta del Duomo è «incatramato dalla pioggia» e sulla «madonnina sbrecciata» qualcuno ha collocato «una parrucca cyberpunk»); il tessuto sociale è ancora più labile («in Festa del Perdono, i morelos fanno festa, per di più pattinando in cerchio ed esibendosi in giravolte acrobatiche dentro e fuori dal vecchio ospedale. […] Nessuno si volta a guardare gli altri, nessuno sorride»); la presenza umana si è fatta «imbarazzante», cyborg e ibrida («Siamo tutti meticci, macchine e persone»). La protagonista è senza dubbio DR, ripresentata come «una donna grande e grossa con un’aria da travestito, grossolanamente infagottata in vestiti fuori moda e con i capelli biondi e tagliati male ben fissati dietro due paia di orecchie. Due per lato, cioè», tuttavia la detective sintetica ha accanto a sé altri personaggi, già conosciuti e new entry: Pilar, ora giovane donna; Detme, originario di Entierres; l’amico poliziotto ispanico José; la fotografa analogica Tapìs; la bambina psichedelica Ariel, «leggera e pericolosa», ancor più di Pilar emblema di un’infanzia violata eppure capace di trovare in sé le risorse di intelligenza e consapevolezza per sopravvivere nel peggiore dei mondi possibili. E i mutanti, che vivono la propria esistenza tra vie metropolitane e vasche acquatiche: il leader del gruppo Ruben, ambiguo e maltrattante, le gemelle per istinto ed elezione Yesus e Jude, l’ingenua Tess, il taciturno Nero, efficacissimi sia nella descrizione della loro fisicità, sia nel pensiero e nell’azione («Ho la fortuna che i personaggi si scrivono da soli», dichiara Vallorani nell’intervista del 9 aprile 2021).
Questo secondo romanzo ha molti punti di contatto con il primo: oltre alla continuità narrativa e all’ambientazione milanese (ma con incursioni anche in altre città), risultano evidenti la tendenza della scrittrice al citazionismo, ora esplicito ora no, in un gioco costante che crea complicità con chi legge, soprattutto se questi ha qualche familiarità con la letteratura e la cinematografia in ambito science fiction; il gusto cyberpunk, mediato soprattutto da Pat Cadigan, l’autrice delle realtà alternative di Mindplayers, Synners e Fools; la presenza di una antagonista cattivissima, Medusa (Shambleau?), che si svela a poco a poco nel corso della vicenda ma che risulta meno riuscita di Elsa Bayern, per quanto capace di dar vita a «un Inferno di Bosch in dimensioni naturali». E, soprattutto, ritorna il discorso sull’essenza inafferrabile dell’umanità, che corre sotterraneo, riemergendo a tratti, per tutta l’opera; alla domanda «E io cosa sono?» che DR rivolge a Tapìs, l’amica risponde: «Non lo so. Una persona, direi. Una persona. […] Certo, una persona. Anche se non sei nata da una donna, ma da una serie di procedimenti chimici». Ogni vita (e DR è stata «consegnata alla vita») è degna di essere vissuta, ogni vita ha dunque uguale valore.

DReam box ha un andamento per così dire inverso rispetto a Il cuore finto di DR: se questo accelera il ritmo nella parte conclusiva, quello, invece, lo rallenta, perdendo di compattezza e risolvendosi in un finale piuttosto sbrigativo e poco convincente. Ancora una volta, la prosa di Vallorani è impeccabile nella sua asprezza spigolosa e raggiunge i risultati migliori quando esprime ironia e disincanto, come l’autrice stessa sottolinea nella bella intervista a cura di Giuseppe Lippi in appendice al volume, ove efficacemente definisce il proprio romanzo «una storia di fantascienza urbana, vagamente cyberpunk e comunque molto vicina ai toni del noir». Nella medesima intervista, l’autrice declina i propri modelli di riferimento, «i migliori scrittori di fantascienza, i più ironici, i più capaci di giocare con le convenzioni del genere per renderle straordinariamente flessibili e capaci di produrre mondi, immaginari e no»: Samuel Delany, Joanna Russ, Ursula Le Guin, Kurt Vonnegut, Philip Dick, Pat Cadigan e William Gibson.
Al di là del rifiuto delle categorie, il noir si addice a Nicoletta Vallorani: noir vagamente fantascientifico è il romanzo Eva (2002) e noir pure vagamente fantascientifico è Avrai i miei occhi (2020), non un vero e proprio sequel del precedente, ma uno sviluppo che ne riprende personaggi e tematiche, oltre che ambientazione. Tra le due opere, Vallorani − nei suoi ruoli di «professoressa, ricercatrice, scrittrice e traduttrice (esattamente in quest’ordine)» − ha scritto e pubblicato molto, in ambito narrativo anche discostandosi dalla science fiction, in ambito saggistico – è docente di Letteratura inglese e angloamericana all’Università degli Studi di Milano − imponendosi come voce di riferimento nella stessa science fiction, in particolare scritta da donne, nonché negli spazi culturali relativi a «migrazione e traduzione, studi di genere e geografie urbane».

E, tra le due opere, ha scritto molteplici racconti, anche di fantascienza, tra i quali ne sono qui presentati soltanto alcuni, pubblicati o ripubblicati in anni recenti.
Céline è un racconto splendido, stampato all’interno della bella antologia di fantascienza al femminile Materia oscura edita da Delos Digital nel 2017: la protagonista è una giovane recluta, narrata attraverso lo sguardo e la parola di un istruttore, che le è superiore di grado, che da lei apprende una lezione dolorosissima di pacifismo e libertà, cambiando la propria visione del mondo e la scelta di vita. L’efficacia narrativa del testo risiede nel cogliere il frammento isolato, ma compatto, di una vicenda i cui contorni si delineano con il procedere della stessa; lo scenario è distopico e post-apocalittico, ma la memoria degli orrori del Novecento è vigile, a partire dall’immagine degli internati crocifissi ai reticolati dei lager nazisti. L’apologo rimanda alla concezione di scrittura come «atto di libertà» dichiarata dall’autrice: è grazie a Céline che la voce narrante riconquista la possibilità di scegliere, di trasformarsi attraverso una mutazione fortemente voluta, di trovare asilo in una nuova patria. Céline, la recluta con «il cuore di un pesce rosso», dall’indole di «vittima elettiva», incapace di «dominare la sua paura», è giunta a compiere un atto di ribellione estremo ed esemplare, che apre con forza «il varco tra fare e dover fare», con cui insegna che la libertà «richiede dignità, e consapevolezza di sé».
Tranne la pelle data al 2020: il personaggio principale è quello di una donna, che è anche voce narrante della vicenda, ambientata sul pianeta Eclisse, colonizzato da Terra per rapinarne le risorse, popolato da «alieni, paramorfi, sintetici, armiletali, guerrieri nebbiosi, smate e fantaspettri». Il testo rappresenta un forte j’accuse nei confronti del genere umano: «veniamo a portarvi la civiltà, a voi bestie» (così nei confronti dei nativi, di tutti i nativi); a importare in quel mondo straniero lavoratrici e lavoratori opportunamente modificati per estrarre il prezioso ribantrax, cervelli e braccia «tutto sommato sacrificabili» (come avviene in Fireflood di Vonda McIntyre), in una società dalle fortissime disuguaglianze, ormai date e immutabili. Solitaria, già distaccata dalla vita, la protagonista proviene da una «famiglia di guerriere», coltiva un dialogo interiore con la nonna, figura di riferimento affettivo e ideale («“Ci hanno truffate, nonna”. “E che vuoi farci, bambina. In un modo o nell’altro a noi donne succede sempre”.»), compie un gesto di ribellione fino al sacrificio di sé in nome della giustizia, per medicare i torti inflitti dalla propria specie all’altro incolpevole. Il nome di lei, Lilith, è svelato alla penultima riga del testo: e nel nome risiedono il destino, la vita, la memoria.
Le imperfette, pure del 2020, si posiziona tra science fiction, noir e splatter (sono minuziosamente descritte, quasi assumendo un punto di vista maschile, la vestizione della vittima designata e la sorta di stupro rituale che ne violerà il corpo e l’anima), con forte sensibilità per il tema della discriminazione, in particolare nei confronti delle donne. Una discriminazione di genere agìta in una società distopica e totalitaria che ha l’obiettivo di uccidere le differenze, nella quale le donne albine, appositamente create in laboratorio, scelgono una «resistenza senza armi e senza sangue» per opporsi ai maschi autorizzati a dar loro la caccia e danno inizio alla «Rivolta Medusa», dal nome della strega più amata, che «aveva serpenti per capelli e uno sguardo capace di trasformare in pietra» e che «per certo era capace di procurarsi la sua libertà».

Avrai i miei occhi, il romanzo più recente di Nicoletta Vallorani, si aggiudica il Premio Italia 2021 (assegnato dalla comunità delle/gli appassionate/i di fantascienza e fantastico per la produzione italiana dell’anno precedente), dopo essere stato selezionato per il Campiello 2020. La cifra più significativa e innovativa del testo è la prosa, che porta alle estreme conseguenze il carattere asciutto e spigoloso (nella sintassi), eppure studiatissimo ed evocativo (nel lessico) delle opere prime dell’autrice: una prosa dal «tratto immaginifico» (così Giovanna Repetto in una bella recensione), che possiede ritmo e compattezza, e grazie alla quale la vicenda scivola in secondo piano, a dispetto dei canoni della scrittura science fiction, intenzionalmente destrutturati. Rappresenta un elemento originale (e riuscito) l’utilizzo della seconda persona singolare, il ‘tu’ con il quale la voce narrante, Olivia, si rivolge al protagonista maschile, Nigredo, non attraverso il dialogo in presenza ma mediante la percezione empatica (o telepatica) del suo agire: dopo l’iniziale, inevitabile disorientamento, chi legge impara a seguire pensieri e movimenti dei due personaggi – solitarie creature della vita e del dolore − assumendo lo sguardo di lei, la sua modalità di leggere il mondo e la metropoli, di intuire le donne e gli uomini che popolano ancora una volta Milano, più cupa e distopica che mai, ben più vicina nel tempo rispetto alla città di DR (l’azione si svolge infatti a partire dal 2030). Nigredo viene da lontano, dal romanzo Eva, nel quale era pure protagonista maschile: un detective ambivalente, dal passato doloroso, allora chiamato a investigare su assassinii di particolare efferatezza, nei quali i corpi delle vittime erano trasformati in macabre installazioni, in primo piano rispetto a un fondale ancora più tragico, quello delle guerre balcaniche di fine Novecento. Olivia, invece, che in quel romanzo era presenza secondaria, è ora sviluppata e assurta a voce narrante: taxista indipendente, che quasi miracolosamente mantiene in efficienza e rifornisce di carburante il suo mezzo, percorre a proprio agio ma non senza pericolo le vie della «città frantumata» e labirintica (memorabile la corsa lungo l’itinerario Santo Stefano, Festa del Perdono, Velasca, Missori, Carrobbio), scompare e riappare inattesa e provvidenziale come Ernest Borgnine in 1997. Fuga da New York.

Molteplici gli elementi thriller, a partire dall’intreccio: «un mucchio di cadaveri di donne abbandonato come spazzatura alla periferia dei campi industriali − recita efficacemente il risvolto di copertina – Donne? Persone? O piuttosto cavie, cloni, cose?». L’affermazione che percorre ossessiva il libro è infatti: «Non sappiamo niente della vita delle cose». Vallorani riprende e rielabora la riflessione sull’identità umana, su ciò che nello specifico rende l’umanità tale, differenziandola da sintetici e cloni: «Le cavie non sono persone, solo corpi. Oggetti funzionali a uno scopo, che in teoria dovrebbero essere solo oggetti sacrificabili alla ricerca» afferma, dubbioso, il medico legale Yuri. In teoria, appunto, perché se ciò che rende umani è il dolore, allora anche le cavie femmine prodotte per il piacere perverso di potenti maschi sono umane, perché provano un dolore senza remissione né fine: del resto, si sa, «l’assenza di dolore della vittima priva di soddisfazione il carnefice». Sulla via del dolore e sul «linguaggio segreto della tortura», che marca il corpo delle vittime – giovanissime o bambine − la scrittrice indugia a lungo, in una discesa nella camera di sangue (il riferimento alla fiaba Barbablù è esplicito) tesa a svelare i meccanismi della violenza che colpisce le donne, da sempre; una violenza che alle vittime spesso non dà altra via di fuga che la morte per propria mano (lo testimoniano le intellettuali e artiste suicide Sylvia Plath, Sarah Kane, Francesca Woodman, Virginia Woolf).

L’opera è esplicitamente menzionata nel romanzo Avrai i miei occhi
La scelta di Vallorani è forte e consapevole, ma non sempre efficace: il romanzo fa riflettere, e tanto, ma non emoziona. Efficacissima, invece, è l’ambientazione: Milano prigione a cielo aperto, Milano Città Murata, ove una triplice cerchia di fortificazioni separa i ricchi dai miserabili, i privilegiati dagli ultimi; ove sopravvivono clandestini o dismessi luoghi della memoria, dallo storage anarchico della Ghisolfa all’archivio storico di via Romagnosi; ove la valenza di alcuni edifici è trasformata e risignificata, poiché San Vittore è un ostello informale per senza dimora e il Palazzo dei Leoni (ovvero la Casa degli Omenoni) la sede del male assoluto. Riusciti anche i personaggi che affiancano e accompagnano i protagonisti Olivia e Nigredo: la bambina Ariel (già presente in DReam box), con un ruolo determinante nella vicenda, il mutante Raoul, il fotografo Nikon, il medico legale Yuri, l’informatore Laszlo, le apparizioni inquietanti e fulminee che attraversano l’aria spessa di polveri sottili e agenti inquinanti, che hanno pure funzione importantissima nello scioglimento dell’intreccio, intessuto di citazioni dirette e indirette, a partire dal titolo.

di Charles Perrault (1862)
«Le donne muoiono, tante, anche nel mondo reale, e in modo insensato e spesso solo perché il nostro è un mondo di uomini − dichiara Nicoletta Vallorani a Romina Braggion nell’intervista del 23 gennaio 2020, che precede di pochi giorni l’uscita di Avrai i miei occhi − Quello che volevo fare era ed è un ragionamento su come sia facile trasformare il corpo di una donna in un oggetto, e dunque derubricare uno stupro, una violenza, un omicidio a qualcosa di meno (o molto di meno) della distruzione di una cosa». E aggiunge, a proposito del rifiuto di Einaudi e della pubblicazione per Zona42: «quando ho mandato la prima versione del romanzo, qualche anno fa e per correttezza visto che Eva era uscito con loro, mi è stato risposto via sms (alla mia agenzia, cioè) che Stile Libero non è interessato alle distopie. Dunque il romanzo non è stato letto. Però secondo me Nigredo e Milano si meritavano un’altra vita. E Olivia, che compariva in Eva come personaggio secondario, si meritava un ruolo più importante. Poi sono aumentati i femminicidi. Poi ho pensato che potevo passare a una stesura successiva e a un’altra dopo ancora. Poi mi sono innamorata di Zona42, e loro hanno preso il romanzo. […] Insomma, è un bel finale».
Un bel finale, certo, ma il pregiudizio sulla fantascienza (ancora) non muore…
In copertina. Gino Andrea Carosini, Nicoletta Vallorani.
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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.