La donna nell’antica Cina. Quando femminilità fa rima con inferiorità

La condizione della donna nella Cina di una volta cambia a seconda del periodo storico. Anteriormente a Confucio, prima del VI secolo avanti Cristo, gode di un certo rispetto, prestigio e autorità. La madre rappresenta l’asse attorno al quale ruotano tutti i membri del nucleo familiare. Ogni persona porta il nome della stirpe materna (matrilinea) e non paterna (patrilinea). Nell’ideogramma, per indicare il cognome viene rappresentata la donna. 
Con l’avvento del regime feudale la condizione della donna subisce un drastico peggioramento. Il confucianesimo declassa le donne, considerandole esseri inferiori quanto a intelligenza e capacità, e assegna loro l’unico compito di badare alla famiglia, fare ed educare i figli, essere rispettose verso il marito. Considerata decisamente inferiore all’uomo, la donna viene umiliata e trattata con disprezzo, a guisa di una merce da vendere o da acquistare. È una creatura debole, fragile, vulnerabile, incapace e impossibilitata a far sentire la sua voce. Secondo lo storico Will Durant «probabilmente il regime feudale cinese abbassa la donna e riduce il suo rango politico ed economico perché il regime feudale stesso è fondato su un sistema di vita rigorosamente patriarcale».
Il marito capofamiglia esercita la sua autorità assoluta su moglie, figli e tutti i beni. La donna non ha voce in capitolo, non comanda un bel niente ed è tenuta a osservare scrupolosamente le tre obbedienze canoniche (al padre, al marito e al fratello maggiore, in assenza del genitore, o anche del proprio figlio se rimane vedova) e le quattro virtù (conoscere il proprio posto nel mondo, curare il proprio aspetto in modo da piacere al marito, parlare poco e con discrezione, svolgere alacremente le faccende di casa). 
Avere una figlia femmina e nascere donna è considerata una sciagura per la famiglia. I padri implorano nelle loro preghiere di avere figli maschi, e una delle peggiori umiliazioni per una madre è quella di mettere al mondo solo femmine, “inutili” bocche da sfamare, perché i maschi servono alla famiglia per il lavoro nei campi e per la guerra. Quando cresce, la donna si nasconde nella sua camera e nessuno la piange se sparisce dalla sua casa. 
In più, le figlie rappresentano un peso per il padre poiché, dopo aver speso soldi e fatica per allevarle, lasciano i genitori e vanno ad abitare nella casa del marito. Secondo una barbara e disumana consuetudine, non si esita a eliminarle fisicamente quando il loro numero supera quello del bisogno, in modo particolare se la famiglia non ha i mezzi economici per mantenerle tutte. Mentre ai bambini piccoli è permesso di giocare insieme, le bambine a partire dai quattro anni vengono segregate in una parte apposita della casa e, in vista del matrimonio (che può aver luogo anche quando gli sposi hanno solo otto o nove anni), viene insegnato loro a non correre e a non parlare o ridere troppo rumorosamente. 

La vita di una cinese scorre nell’obbedienza cieca e incondizionata, e a ciò ci si abitua fin dalla più tenera età. Considerata un’eterna minorenne a vita, privata di tutti i diritti economici e sociali, la donna, come una schiava, non gode della benché minima indipendenza, dovendo dipendere in tutto e per tutto dall’uomo che la tutela e la mantiene. Non riceve nessuna istruzione, non sa leggere e scrivere dovendosi occupare esclusivamente dei lavori domestici. È obbligata a tagliarsi i capelli a quindici anni e a sposarsi a venti. 
Di matrimonio d’amore neanche a pensarci lontanamente. Innamorarsi è considerato quasi una vergogna, un disonore per la famiglia, sia perché incontrarsi è giudicato immorale, sia perché il matrimonio è considerato un contratto tra due famiglie. Il padre trova un marito per la propria figlia tramite un sensale. Dal Libro dei Riti sappiamo che allevare una bambina significa investire in una forza-lavoro che prima o poi se ne andrà di casa, e per questo buona parte delle bambine viene annegata nei pozzi dalle levatrici al momento della nascita oppure si soffocano nella terra sepolte vive, o nel migliore dei casi vengono vendute nelle grandi città come prostitute. Nelle classi sociali povere una moglie si compra come una qualsiasi merce, per le ricche, invece, si tratta di un accordo tra famiglie, e la sposa si presenta all’appuntamento con una sostanziosa dote. C’è anche un’altra forma di matrimonio, che consiste nell’adottare una nuora ancora bambina, spesso anzi da neonata, così la famiglia di origine ha una bocca in meno da sfamare e quella adottiva risparmia le spese della celebrazione del matrimonio e dell’acquisto di una nuora in età da marito, assicurandosi a un prezzo irrisorio una sposa per il figlio e un nuovo paio di braccia per i lavori di casa e nei campi. 

La donna, quando si sposa, lascia per sempre la casa paterna e, con essa, il proprio cognome da nubile, per assumere il cognome del marito. È tenuta, peraltro, a servire i propri suoceri senza riserve, come prima di maritarsi è stata, in effetti, la serva dei genitori. La vita matrimoniale non è delle più rosee. Le donne vivono recluse nel gineceo, lo spazio della casa a loro riservato, che finisce per diventare una prigione. Non hanno una vita sociale, fatta eccezione per le cantanti e le teologhe. Per indicare la donna sposata si usa il termine Fôu, cioè “sottomissione”, che bene esprime la totale obbedienza dovuta allo sposo che, lungi dall’amarla, la considera esclusivamente come una macchina per mettere al mondo gli eredi, la madre dei suoi figli. Ciò che più conta è la sua fertilità, la sua totale sottomissione e accondiscendenza ai voleri del coniuge. Il marito mangia da solo, senza la moglie e senza i figli, salvo in circostanze speciali. Alle vedove non è permesso risposarsi, o peggio ancora, in più di un’occasione sono obbligate a farsi cremare in onore del proprio marito defunto.

Ban Zhao come raffigurata
nel Wu Shuang Pu (1690)
di Jin Guliang

Nella Cina del I secolo dopo Cristo, Ban Zhao, donna dell’alta società, così descrive l’umile situazione della donna, il suo livello, la sua estrema debolezza e dedizione al marito: «Noi, le donne, occupiamo l’ultimo rango del genere umano. Siamo le più deboli creature dell’umanità ed è per questo che il nostro retaggio quotidiano è quello di compiere i lavori più vili… Valutate, con quale giustizia e verità, il codice familiare decide della nostra sorte, quando si esprime così: Se una donna è unita in matrimonio a un uomo che ama, dovrà dividere con lui tutta la sua vita, e se una donna è sposata con uno che non ama, dovrà ugualmente dividere tutta la sua vita con lui». Ancora peggiore, ovviamente, è la situazione delle donne appartenenti alle classi sociali più basse. 

Nella cultura cinese i due principi, opposti ma complementari, necessari l’uno all’altro, yin (quello femminile) e yang (quello maschile), sono considerati su un piano di assoluta parità e inseparabili. Il mondo è generato dall’unione tra yin e yang. Come si spiega allora la condizione di inferiorità in cui la donna cinese è stata tenuta per secoli? Il carattere che in cinese significa maschio è formato dall’unione di due caratteri, “campo” e “forza”. Il carattere che significa donna raffigura un tetto e una donna. Il che vuol dire che alla donna è destinata la casa, l’interno, all’uomo la terra, l’esterno. Se l’uomo è identificato con yang, il Sole, la forza creatrice, il principio attivo, la donna incarna, al contrario, lo yin, l’oscurità, il principio passivo: di conseguenza, l’uomo è ritenuto l’essere superiore e la donna una creatura inferiore, l’uomo, pertanto, comanda e alla donna non resta altro che obbedire ed eseguire passivamente gli ordini dell’uomo. Ai due concetti di yin e yang corrispondono parallelamente nei e wai, l’interno e l’esterno. Sulla base di questa concezione, la donna viene a essere sempre più segregata fino a diventare prigioniera nella sua casa. Di qui a considerarla un mero oggetto di proprietà del marito il passo è breve. Gli aspetti più aberranti dell’inferiorità in cui è tenuta la donna sono evidenti: la mutilazione fisica (piedi fasciati), l’infanticidio femminile, la ricerca spasmodica dell’erede maschio, la prostituzione e la poligamia (per i ceti benestanti).

Tutti conoscono la pratica disumana nota come “fasciatura dei piedi”, introdotta intorno al 900 dopo Cristo, a quanto si dice, da una concubina dell’imperatore per conquistarlo. Si tramanda che l’imperatore Li Yu, nel X secolo, poco prima della dinastia Song, creò un loto dorato alto 1,8 metri (6 piedi) decorato con pietre preziose e perle, e chiese alla sua concubina Yao Niang di fasciarsi i piedi con seta bianca a forma di falce di luna. La favorita avrebbe poi eseguito sulle punte dei piedi una danza così leggiadra che altre dame si sarebbero affrettate a imitarla. La pratica della legatura dei piedi si diffonde rapidamente tra le gentildonne di corte, e poi fra tutte le signore della nobiltà. La fasciatura dei piedi fa della donna un’invalida a vita: una moglie casta e virtuosa deve vivere relegata in casa come una carcerata, non può lavorare né uscire dalla propria dimora, perché con i piedi fasciati le riesce impossibile camminare. Avere piedi così piccoli e ridotti a moncherini, chiamati poeticamente “loti d’oro”, causa di dolori costanti, limita inevitabilmente la deambulazione, costringendo la donna a starsene chiusa all’interno delle mura domestiche. La fasciatura rivela non solo la docilità e la fedeltà di una donna al suo uomo ma anche la condizione economica di una famiglia: un uomo che ha una moglie con i piedi fasciati dimostra a tutti che è talmente ricco da mantenere una donna con i suoi guadagni. Conseguentemente chi ha i piedi grandi fa subito capire che è povera ed è costretta a uscire di casa a lavorare per vivere. Addirittura, chi non ha i piedi fasciati e deformati al massimo corre seriamente il rischio di restare zitella vita natural durante o, comunque, di non trovare il marito giusto per lei. Serve e contadine hanno i piedi a grandezza naturale, come le donne delle minoranze etniche (soprattutto della Mongolia), mentre sono bendati quelli delle signore delle classi sociali più elevate, incluse legittime consorti e concubine degli imperatori delle varie dinastie, a partire dagli Han (206 a.C.-220 d.C.), passando per la dinastia Tang, Song, Yuan e Ming, fino agli ultimi imperatori Qing (1644-1911). La pratica, triste icona di una società terribilmente patriarcale e maschilista, dopo centinaia di anni viene ufficialmente vietata solo con la nascita della Repubblica Popolare Cinese, nel 1949.

Scarpe con i piedi fasciati (Autore Daniel Schwen)

Una moglie degna di questo nome non può ribellarsi e finisce per accettare passivamente la sua condizione d’inferiorità rimanendo tagliata fuori dal mondo esterno. I futuri suoceri hanno il diritto di controllare prima del matrimonio la dimensione dei piedi.

Così scrive Lin Shu a cavallo tra Ottocento e Novecento: 
«Signora dai piedi piccoli, di chi sei figlia? 
Sotto le sue vesti, scarpe ricurve di otto centimetri. 
Ella vacilla al soffiar del vento, 
Perché salda è in alto, ma incerta in basso. 
Muovere un passo è per lei difficoltoso, 
Quasi come percorrere mille miglia. 
S’appoggia a sinistra alla balia, 
A destra s’aggrappa a una serva; 
Se per caso le calpesti un piede, 
Atroce è il dolore che prova. 
Quando hai iniziato la fasciatura? 
Perché mai tolleri questa pena senza fine? 
Non so il perché: è la sua risposta. 
A cinque anni, quando il tronco è ancora arbusto, 
La mamma preparò le scarpe. 
E m’ingiunse d’iniziare la pratica. 
Le mie dita vennero piegate, il collo del piede curvato; 
E per quanto io invocassi e Cielo e Terra, 
Mia madre m’ignorava, quasi fosse sorda. 
Le mie notti erano tutte un lamento, 
L’alba passava tra i pianti. 
Invocavo dal letto la mamma: 
Quanto ti preoccupi se io sto male, 
Come ti spaventa ogni mia caduta! 
Ora l’agonia è salita dai piedi 
E ne sono pregne le mie ossa; 
Sono caduta in disperazione, ma tu, 
Tu non ti curi di me. 
La madre si volgeva a consolare la fragile piccola: 
Quand’ero bambina anch’io soffrivo, come te, 
Ma voglio che i tuoi piedi siano così piccoli 
Da guadagnarti un posto in società. 
Ecco perché voglio dedicare 
Questo tempo alla fasciatura. 
E, fatto inaudito, per ridurre i piedi 
La carne e le ossa vengono così martoriate 
Ch’ella perde il desiderio del cibo. 
Tanta parte della sua profumata giovinezza 
Passa in lacrime, vicino ai fiori che muoiono; 
Ode il canto degli uccelli, 
Ma il suo piede ricurvo è come una piccola tomba». 
La storia cinese è ricca di esempi di donne tormentate dai loro aguzzini che impediscono loro di sedere o si divertono a farle camminare nonostante i dolori provocati dai piedi atrofizzati. Opporsi al Loto d’oro o Giglio d’oro è impensabile e impossibile. 

Andando indietro nel tempo, leggiamo in Cen Shen, poeta vissuto nell’VIII secolo dopo Cristo: 
«In balia della brezza gentile, 
Le sue vesti di seta s’increspano e ondeggiano. 
I fiori di loto son racchiusi in scarpette strettissime, 
Quasi ella potesse camminare su acque autunnali! 
Le punte delle scarpe non spuntano di sotto le vesti, 
Per paura che i leggiadri ricami siano visti». 

Illustrazione del XVIII secolo che mostra Yao Niang che si lega i piedi

È lodevole una donna che fin dalla prima infanzia, tra i due e gli otto anni, con stoica rassegnazione va incontro al suo inesorabile destino di farsi deformare artificialmente i piedi quando le ossa sono ancora duttili e malleabili: peraltro, deve sopportare dolori lancinanti senza poter né gridare né piangere per compiacere la madre che compie la crudele operazione di fasciatura. La fascia, larga cinque centimetri e lunga ben tre metri, si applica in questa maniera: se ne fissa un capo alla parte interna del collo del piede, viene quindi avvolta con forza intorno alle dita, a eccezione dell’alluce (non fasciato), in modo da ripiegarle sotto la pianta del piede. Si passa poi strettamente la benda intorno al calcagno in modo che tallone e dita siano avvicinati il più possibile. Si ripete quindi il procedimento finché sono avvolti tutti e tre i metri della fascia. Le dita del piede sono curvate e ripiegate sotto la pianta, la quale viene a trovarsi vicina al tallone fino al limite del possibile. Per ottenere un piede perfetto, si fa per dire, sono necessari almeno tre anni, a volte però si arriva fino a dieci anni perché il piede diventi estremamente piccolo e incurvato al massimo a forma di mezzaluna.  
«Quando avevo sette anni, mia madre mi lavò i piedi, li cosparse di allume e mi tagliò le unghie. Poi mi piegò le dita contro la pianta del piede, legandomele con una fascia lunga tre metri e larga cinque centimetri, cominciando dal piede destro e passando poi al sinistro. Mi ordinò di camminare, ma quando ci provai, il dolore fu insopportabile. Quella notte mi sentii i piedi in fiamme e non riuscii a dormire; mia madre mi picchiò perché piangevo. Nei giorni seguenti cercai di nascondermi, ma fui costretta a camminare sui miei piedi. Dopo alcuni mesi, tutte le dita, tranne l’alluce, erano schiacciate contro la superficie interna. Mia madre mi tolse le bende e lavò il sangue e il pus che mi colavano dai piedi. Mi disse che solo rimuovendo a poco a poco la carne, i miei piedi sarebbero diventati snelli. Ogni due settimane mi mettevo delle scarpe nuove: ogni nuovo paio era di qualche millimetro più piccolo del precedente. D’estate i piedi puzzavano tremendamente di pus e di sangue, d’inverno erano gelidi per la mancanza di circolazione. Le quattro dita arricciate all’indietro sembravano bruchi morti. Ci vollero tre anni perché potessi calzare le scarpe di otto centimetri, le mie caviglie erano sottili, i piedi erano diventati brutti e ricurvi» (Dal libro Fiore di neve e il ventaglio segreto di Lisa See, 2010). 
E tutto questo strazio unicamente per essere più seducenti agli occhi degli uomini: a tal punto le donne sono considerate un mero oggetto sessuale privo di volontà propria! 

Non solo gli uomini trovano erotica e incredibilmente eccitante l’andatura barcollante delle donne, simile al fior di loto che ondeggia al vento, ma godono un mondo a giocherellare con i piedi arcuati, sempre nascosti da artistiche scarpette di seta ricamata. Le donne non possono togliere le fasciature neanche da adulte, perché col tempo perderebbero il segreto del loro fascino e i piedi riprenderebbero a crescere. Possono solo allentare temporaneamente la fasciatura di notte. Raramente gli uomini vedono nudi i piedi fasciati, che di solito sono ricoperti da un lembo di pelle mezzo putrefatta e, a causa delle inevitabili infezioni, mandano cattivo odore, se si tolgono le bende. Solo il marito e nessun altro può accarezzare il piede o sfilare la scarpa alla moglie. Perfino ai parenti stretti non è dato guardare i piedi rimpiccioliti.  
Il piede bendato viene celebrato in molte poesie o saggi. Tra i più accaniti sostenitori del loto d’oro spicca un aristocratico di nome Fang Xun (probabilmente uno pseudonimo) che esalta poeticamente i piedini delle donne.  


Il poeta Su Shi (XI secolo) scrive: 
«Imbalsamando il profumo, abbozza passi di loto; 
E nonostante la tristezza, cammina con leggerezza. 
Balla come il vento, senza lasciare traccia fisica. 
Un altro cerca di nascosto di seguire lo stile del palazzo, 
Ma grande è il suo dolore non appena vuole camminare! 
Guardali nel palmo della tua mano, così incredibilmente piccoli 
Che non ci sono parole per descriverli».


Il “loto d’oro” non può superare gli otto centimetri di lunghezza, il “loto d’argento” è lungo tra gli otto e i dieci centimetri, il “loto di ferro” più di dieci. Le scarpine, di cotone per tutti i giorni, di seta ricamata per le ricorrenze, sono confezionate dalle donne stesse e lunghe tra i 7 e i 12 centimetri. Nel sec. XVII i Manciù, che conquistano la Cina, non gradiscono la fasciatura dei piedi, del tutto innaturale, e vanno orgogliosi dei piedi grandi e naturali delle loro donne. Verso la fine del sec. XVIII e l’inizio del XIX, molto prima che penetrino in Cina le idee occidentali di uguaglianza dei sessi, si comincia a combattere per i diritti femminili e per liberare le donne dalla crudele costrizione fino al 1902, quando un decreto imperiale l’abolisce ufficialmente dopo oltre mille anni.  

In conclusione, si può dire che le donne cinesi per secoli sono state considerate inferiori, semplici fattrici di una discendenza possibilmente maschile. Quando il coniuge passa a miglior vita e la moglie diventa vedova, la sua posizione familiare cambia perché inizia finalmente a presiedere agli affari di tutta la famiglia. Formalmente è il figlio primogenito il padrone della casa, dal momento che eredita il patrimonio paterno, ma in realtà è la madre a controllare la vita familiare, in qualità di padrona e capostipite della casa del marito. 

(continua) 

In copertina. Zhang Xuan, XII secolo, Dame che lavorano la seta, (particolare), Museum of Fine Arts, Boston. 

***

Articolo di Florindo Di Monaco

Florindo foto 200x200

Docente di Lettere nei licei, poeta, storico, conferenziere, incentra tutta la sua opera sulla Donna, esplorando l’universo femminile nei suoi molteplici aspetti con saggi e raccolte di poesie. Tra i suoi ultimi lavori, il libro La storia è donna e le collane audiovisive di Storia universale dell’arte al femminile e di Storia universale della musica al femminile.

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