Il titolo non tragga in inganno: l’autrice del libro, la finlandese Mia Kankimäki, lo spiega subito; la sua non è infatuazione e neppure la memoria di lontane amicizie, ma piuttosto il pensiero ricorrente di figure femminili emblematiche sulle cui tracce ha deciso di muoversi. Anche qui evitiamo fraintendimenti: muoversi significa davvero andare, fisicamente, là dove queste donne hanno vissuto (o vivono ancora). Non siamo dunque di fronte a un romanzo, ma al resoconto avvincente di una serie di viaggi in varie parti del mondo per capire, conoscere, studiare, ricostruire vite e, forse, comprendere meglio sé stessa. Ma chi è Mia Kankimäki? Nata a Helsinki nel 1971, ha un master in letteratura e ha lavorato nell’editoria, ma ha una passione particolare per il Giappone tanto da avere il diploma di insegnante di ikebana, la raffinata arte di comporre i fiori. Il suo primo, apprezzato libro, Cose che fanno battere più forte il cuore, è nato proprio da un viaggio a Kyoto, per indagare su una attrice e dama di corte di mille anni fa: Sei Shonagon.
Quelle di cui si occupa questa volta sono donne ugualmente non comuni, attive nei campi più diversi, «la cui vita non ha calcato la via della tradizione. Hanno abbattuto barriere e fatto cose che non ci si aspettava da loro», o perché sono nate e vissute troppo presto, o perché non si trovavano nel posto giusto, o ancora perché incomprese e senza alcuna protezione maschile. Come suggerisce in una bella recensione Michela Marzano (Robinson, 27 novembre 2021) viene da domandarsi cosa abbia spinto donne tanto diverse a «trovare la forza e il coraggio per seguire le proprie passioni, infischiandosene delle aspettative del loro tempo».
Il corposo volume, corredato da una utile bibliografia e da foto delle protagoniste, è suddiviso in tre parti: la prima, assai ampia, si occupa esclusivamente di Karen Blixen. La seconda ha per titolo Le esploratrici etratta di Isabella Bird, Ida Pfeiffer, Mary Kingsley, Alexandra David-Neal e Nellie Bly. La terza e ultima è dedicata alle artiste e riferisce di una serie di viaggi fra Italia, Giappone, Normandia e Germania.
A proposito di Blixen, era inevitabile partire per l’Africa: Mia va dunque in Tanzania, ospite della famiglia di un gentile naturalista, prima di allora a lei sconosciuto; desiderosa di immergersi nella natura, affronta un lungo, straordinario safari che la porta nei territori dei Masai, a contatto con la popolazione locale, fra mercatini, misere capanne e visioni fantastiche di animali, tramonti sui bordi del Ngorongoro, montagne imponenti come il Kilimangiaro, caldo opprimente nel Serengeti. Intanto ai suoi pensieri, ai suoi spostamenti, ai suoi incontri, alle sue difficoltà di adattamento si alternano passi delle lettere che Blixen spediva alla madre e ad altri membri della famiglia, come pure dettagli sulla vita, quando ancora non immaginava il futuro di scrittrice: e dunque si rivedono i suoi entusiasmi, i fallimenti economici, gli uomini a lei vicini, i rapporti con la gente del posto, le malattie, gli aborti spontanei e il coraggio nell’affrontare le avversità. Sia nel passato che nel presente un dato che emerge riguarda le marcate differenze sociali; da un lato ville principesche ben sorvegliate, dall’altro baracche fatiscenti senza luce né acqua né servizi; da un lato padroni/e più o meno accondiscendenti e vagamente generosi/e, dall’altro una servitù sterminata a cui si demanda ogni lavoro manuale (ma non la caccia, specie ai leoni, a cui Blixen per lunghi anni si dedicò con uno slancio francamente imbarazzante…). Certo è che alla nostra narratrice vengono dei dubbi sulla donna-Karen, che dal carteggio e dalle biografie non appare così sicura, forte, equilibrata come si dipinge, ad esempio, in La mia Africa; emergono invece la sua fragilità, la tendenza alla depressione, gli attacchi di panico, la dipendenza da Denys, insomma «una figura contraddittoria, assolutamente sgradevole, egocentrica, capricciosa e falsa», e pure snob; ma chi non lo sarebbe vivendo quasi 18 anni da sola in Africa, dal 1914 al 1931, partendo poi senza un soldo, con la sifilide, senza più sogni da esaudire? «Non è importante quali carte ti siano capitate, ma come le giochi» scrisse Karen, e alla fine lei le giocò bene.
Mia ritorna in Europa con un senso di rimpianto e di nostalgia; sei mesi dopo ne visita l’abitazione e la tomba a Rungstedlund, in Danimarca, e lì riflette ancora una volta sulla capacità di dare una svolta all’esistenza, di cui Blixen fu maestra, realizzandosi in età matura come straordinaria scrittrice.

La seconda parte del volume è più varia dal momento che Mia, quarantenne in crisi e costretta a vivere presso i genitori per difficoltà economiche, inizia a progettare nuovi viaggi sulle tracce di Isabella, Ida, Mary, donne normali, “rispettabili”, non più giovani, che a un certo punto partono da sole in pieno Ottocento per luoghi inospitali, scomodi, pericolosi, o almeno così venivano immaginati. L’inglese Isabella Bird viaggiò trovando come scusa efficace i motivi di salute: la schiena dolorante, le emicranie, la depressione, l’insonnia… Dopo i quaranta anni, senza vincoli di sorta, andò alla scoperta delle Hawaii, delle Montagne Rocciose, del deserto egiziano, dell’entroterra del Giappone dove mai era stata vista persona europea; cavalca da uomo e mette i pantaloni; sale sul vulcano più alto del mondo, guarisce dai tanti malanni e poi torna a casa, indossa il cappellino e la lunga gonna, e scrive libri di successo crescente. A cinquant’anni esplora l’Himalaya, attraversa Siria, Turchia, Armenia e diventa la prima donna invitata dalla Royal Geographical Society a tenere una conferenza.
Per tre anni, superata la sessantina, viaggiò in Cina, Corea e di nuovo in Giappone; quando morì era appena rientrata dal Massiccio dell’Atlante, in Marocco. L’austriaca Ida Pfeiffer parte quando ha sistemato i figli e ha già 45 anni, un’età che all’epoca, a metà Ottocento, voleva dire stare in casa a fare la calza; lei no, si tagliò i capelli, si imbarcò e percorse il Mediterraneo e le sue coste per 9 mesi. Poi fu la volta dei Paesi nordici, dell’Islanda, del Madagascar, due giri del mondo: Brasile, India, Cina, Borneo, Sumatra, luoghi isolati e selvaggi dove riusciva a vivere praticamente senza soldi, correva rischi di ogni genere, si ammalava di malaria e intanto raccoglieva oggetti di valore etnografico, come pure interessantissimi campioni botanici e animali, alcuni dei quali ne hanno preso il nome. Inglese era pure Mary Kingsley che non aveva certo le caratteristiche dell’esploratrice: poca istruzione, pochi mezzi, tanto lavoro domestico e accudimento della madre malata, ma era intelligente e curiosa e a trent’anni si trovò finalmente libera dagli impicci e poté fare della sua vita quello che voleva. Partì alla volta dell’Africa, il continente più affascinante e misterioso, ma anche pieno di insidie, a cominciare dalle terribili malattie. In molte località sperdute non avevano mai visto una persona bianca, talvolta la chiamavano “sir” perché la presenza di una donna non accompagnata era inconcepibile. Imparò a pescare e a pagaiare con destrezza, a muoversi a piedi nella foresta pluviale, ricoperta di sanguisughe, a rapportarsi con rispetto reciproco con gli indigeni (anche cannibali…), a salire ― prima donna al mondo ― sul vulcano Camerun. Rientrata in patria divenne un’oratrice vivace e brillante e scrisse due best seller; anche a lei sono intitolate delle specie ittiche riportate su incarico del British Museum. Morì a soli 37 anni di tifo, nella lontana Città del Capo. «Io non appartengo al mondo degli esseri umani. La mia gente sono le paludi di mangrovie, i fiumi e il mare», aveva scritto a un’amica.
Mia ora si occupa di Alexandra David-Neal, morta ultracentenaria nel 1969, la prima donna occidentale a entrare, cenciosa e affamata, dopo quattro mesi di peregrinazioni, nella città proibita di Lhasa travestita da mendicante, nel 1924. Quando partì per l’Asia, finanziata dal marito, invero assai paziente e comprensivo, stette via 14 anni! E lì fece di tutto insieme alle popolazioni locali, anche vivere in una grotta come una monaca buddista, ma al ritorno scrisse oltre trenta libri di successo e a 100 anni rinnovò il passaporto perché voleva viaggiare ancora. La quinta esploratrice, di cui scriviamo anche su Vv, è Nellie Bly, suffragista giramondo, capitana d’industria e pioniera del giornalismo d’inchiesta. Mia dichiara di esserne perdutamente innamorata e di ammirare senza riserve il suo modo di fare i bagagli: una sola valigia per fare il giro del mondo in 72 giorni. Molto divertenti le pagine dedicate alle donne che, invece, non sapevano fare i bagagli: esempi talmente assurdi come quello di Alexine Tinné che partì alla ricerca delle sorgenti del Nilo con 36 bauli e 150 tra servitù, guide, animali. Praticamente nel viaggio morirono quasi tutti e il carico finì in mare. Meno tragico il caso di May French Sheldon che fece sì grandi imprese, ma con l’ausilio di 150 portatori e masserizie in quantità folle, perfino una portantina, gioielli e parrucche.
Nella terza parte del volume Mia si reca a Firenze, ancora in casa di uno sconosciuto, verificando subito che la cosiddetta “sindrome di Stendhal” non è una leggenda (lei la prova persino in trattoria). Fa la turista nei luoghi più belli della città e nei musei più celebri e poi riflette su Battista Sforza, Beatrice d’Este, Plautilla Nelli, Artemisia Gentileschi, modelle le une, artiste le altre, capaci di capolavori senza tempo. Nel dettaglio si occupa con passione di due pittrici geniali, che la affascinano profondamente: Sofonisba Anguissola (ca. 1532-1625) e Lavinia Fontana (1552-1614), la prima artista di professione e a sua volta un modello per tutte le successive, la seconda donna in carriera che guadagnava come i colleghi maschi e manteneva la famiglia con il suo lavoro. Mia si sposta ancora: si reca come ospite a Mazzano, un delizioso borgo nel Lazio, poi rivede Firenze, Roma, Bologna, approda in Normandia, si reca a Parigi, infine raggiunge il Giappone.
Un personaggio che mi ha colpito molto arriva proprio nell’ultima sezione del libro: l’unica vivente, Yayoi Kusama, «artista d’avanguardia, brand milionario, lavoratrice esemplare e maniacale. Vive in un manicomio a Tokyo». Ero anche parecchio curiosa della sua vicenda umana e professionale su cui avevo notizie assai vaghe. Yayoi è nata nel 1929 in un famiglia agiata, ma scombinata, violenta, e da bambina ha frequenti allucinazioni per le quali viene punita e percossa. Comincia presto a dipingere in maniera forsennata, è evidentemente malata di mente ma è un genio. Ha una lunga corrispondenza con la stravagante artista Georgia O’Keeffe che la incoraggia, così a 28 anni Yayoi arriva negli Usa con 60 kimono e un migliaio di disegni. È povera, lavora in modo incessante, anche senza dormire né mangiare per giorni, finché assapora il successo con la prima mostra a New York. Si fa conoscere con la sua assurda parrucca rosa, gli occhi spalancati e per le sue creazioni assolutamente originali, per i falli di ogni foggia, materiale e dimensione, per gli arredi incredibili, per i dipinti con le reti infinite, per l’ossessione delle zucche e degli specchi, per i pois ripetuti ovunque, grandi, piccoli, colorati, per gli abiti con buchi strategici. Rientrata in patria, dal 1977 vive all’interno del reparto aperto di un ospedale psichiatrico, per trovare requie agli incubi, alle pulsioni suicide, agli attacchi di panico, mentre l’unico rimedio rimane il lavoro, velocissimo e intenso, che l’ha resa famosa.
Con una pausa rigenerante in Germania sulla Montagna incantata, i pellegrinaggi di Mia al momento si concludono, con altri utili consigli alle attente lettrici che hanno viaggiato insieme a lei e che sono in attesa di muoversi ancora.

Mia Kankimäki
trad. di Delfina Sessa
Le donne a cui penso di notte
Neri Pozza Editore, Vicenza, 2021
pp. 479
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Articolo di Laura Candiani

Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume Le Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.