Riconoscersi partigiani/e: un progetto da sostenere!

Daniela Brogi nel suo Lo spazio delle donne (Einaudi, 2022) scrive: «Per tanto tempo le donne sono state abituate a sentirsi incapaci e senza talento. La memoria delle loro opere non ha contato. Per illuminare uno spazio così fuori campo non basta aggiungere nomi, né la soluzione è cancellare il passato. Piuttosto, servono altre parole e nuove inquadrature».
La necessità di trovare “altre parole e nuove inquadrature” per raccontare la presenza delle donne è ciò che spinge ormai da anni studiosi e studiose a cercare vie e percorsi che sappiano restituire la complessità e illuminare gli spazi.
Il progetto di cui vi vogliamo parlare oggi va esattamente in questa direzione e se possibile si spinge oltre.

Riconoscersi partigiani/e è un libro che cerca di raccontare quella che per ragazzi e ragazze sui vent’anni nati sul finire della Grande Guerra fu l’esperienza per eccellenza di un’intera generazione e cioè la Resistenza, o meglio la lotta al nazifascismo. Il racconto però prende due forme: da una parte c’è la ricostruzione storica di Chiara Donati, che assume un orizzonte nazionale, e dall’altra il lavoro fotografico di Marco Biancucci, calato invece nella dimensione regionale delle Marche che accende i riflettori sui volti di chi visse la straordinarietà di quei fatti, sui luoghi che un tempo furono teatro di scontri, di fughe ed eccidi, sugli oggetti sopravvissuti all’inesorabile fluire dei giorni e degli anni.
Un lavoro accurato, puntuale e scientificamente rigoroso ma che grazie allo scavo fotografico diventa anche intimo. «Potrei parlare di intimità – ha affermato la partigiana Marisa Ombra – se non fosse che questa parola ha, nel senso comune, un significato del tutto diverso. Parlo di un legame che prende una profondità non comparabile con altri, irripetibile, di altra qualità. Fu come se quei mesi fra noi avessero prodotto un innamoramento collettivo, che prescindeva dalle qualità dell’uno o dell’altro. Che prescindeva dai singoli. Non era mai stato così. Mai più avremmo provato quell’intensità di vita».

Chiara Donati in modo efficace scrive che la partecipazione alla lotta di Liberazione diventa un vero e proprio «marcatore di una appartenenza, di un vissuto che diveniva plurale», che ha permesso al singolo individuo di sentirsi parte di un disegno più grande e soprattutto di potersi riconoscere nei gesti, nel sentire, nel vissuto dell’altro e dell’altra dando «a quell’esperienza così estrema dello stare insieme, un ethos collettivo e condiviso». Ma c’è di più in questo lavoro a metà fra la ricerca storica e il reportage fotografico: il volume è capace di tenere insieme la storia e le storie di uomini e soprattutto di donne che fecero della lotta di Liberazione al nazifascismo la propria cifra esistenziale rivendicando proprio a partire da quell’esperienza il proprio diritto ad esserci.

Antonia Bianchi – partigiana. Foto di Marco Biancucci in Riconoscersi partigiani/e

È per questo che l’Osservatorio di Genere ha deciso di appoggiare e sostenere Riconoscersi partigiani e partigiane pubblicando il volume con il proprio marchio editoriale, ODG Edizioni, un marchio nato per poter valorizzare le ricerche e i progetti realizzati dall’associazione ma anche per promuovere e valorizzare memorie e saperi. E in questa decisione c’è stata la richiesta fatta e accolta subito da Chiara Donati e da Marco Biancucci di fare in modo che nel libro emergesse e trovasse il giusto posto la figura delle partigiane e delle donne resistenti cominciando proprio dal linguaggio. Convinte, infatti, che l’uso generalizzato del maschile, in particolare quando si vuole parlare di donne o si vuole raccontare una storia plurale in cui le donne hanno avuto o hanno un ruolo al pari degli uomini, non solo non consenta di rappresentare correttamente la realtà ma che addirittura contribuisca a rendere meno visibili – più spesso “invisibili” – le donne, l’Osservatorio di Genere ha chiesto che fosse sempre esplicitato chi avesse concorso alla costruzione di quell’appartenenza: così accanto ai partigiani nel titolo hanno trovato posto anche le partigiane protagoniste a tutti gli effetti di quella storia, quelle partigiane che riempiono con i loro volti e le loro storie le pagine del libro ma che rischiavano di essere schiacciate, risucchiate e appiattite in quel maschile plurale utilizzato normalmente nella definizione dell’immaginario collettivo dominante.

«Le donne studiano, sono brave, persino più degli uomini, finché vanno a scuola e all’università». Scrive Paola Brogi ne Lo spazio delle donne (pp. 54-55). «Il talento per lo studio è un obiettivo effettivamente raggiunto, in parte e in certi luoghi. Ma quando si tratta di trasformare in opportunità di prestigio sociale e lavorativo questa bravura di base, di fare spazio, ecco che più si sale e meno si incontrano donne, soprattutto donne non anziane, vale a dire a uno stadio della carriera in cui possano ancora avere la forza di dare vita a una genealogia e a una prosecuzione di sé, anziché a un culto isolato di sé. Come se la fiducia sociale nei confronti della bravura e dei meriti delle donne non fosse ancora sentimento pensiero e discorso comune. Anche questo si chiama, in certi casi, violenza».
Un immaginario che, anche per quanto riguarda la Resistenza, si è costruito a partire dal racconto eroico di uomini che combattono, che ricoprono incarichi apicali, che muoiono lottando, di uomini cioè che fanno la Storia – quella con la S maiuscola – e di donne che, bene che vada, hanno avuto il merito di averli affiancati – supporto logistico, ruoli di staffette, vivandiere, infermiere, infine custodi memoriali delle imprese maschili – e per le quali nel dopoguerra non ci sono state né medaglie né riconoscimenti.
«La diffidenza verso le donne delle prime organizzazioni partigiane e la loro organizzazione fragile vanno però valutati con gli occhi di allora – afferma la storica Margherita Becchetti in una intervista al Fatto quotidiano – il pregiudizio degli uomini che la guerra fosse un affare da maschi era fortissimo. Nel ’43 la mentalità dell’uomo medio non necessariamente fascista, era comunque quello del figlio della lupa: le donne non sanno sparare […]. Negli anni ’50 in Italia nascere uomo o donna non era la stessa cosa, rapporti sociali e codice penale mutano decine d’anni dopo».

Federica Salvatori – partigiana. Foto di Marco Biancucci in Riconoscersi partigiani/e
Maria Cavatassi – partigiana. Foto di Marco Biancucci in Riconoscersi partigiani/e

In Riconoscersi partigiani/e queste contraddizioni emergono e lo rendono un lavoro prezioso poiché riesce a restituire la complessità di quell’esperienza che, come scrive efficacemente Chiara Donati, fu per i suoi protagonisti e le sue protagoniste soggettiva, di verità, straordinaria e suggestiva. Soggettiva perché, afferma ancora Donati, sono state infinite le relazioni e differenziati i percorsi che hanno portano gli uomini e le donne a partecipare alla Resistenza: per molti fu una scelta personale mentre per altri una scelta fatta in gruppo (intere famiglie di partigiani, coppie ecc.). Per tutti fu una “seconda nascita”, la costruzione di una propria identità e di un nuovo modo di stare nelle cose. Fu quindi anche e soprattutto una esperienza “di verità” perché «la condizione partigiana rimetteva in dubbio molte delle certezze acquisite e poneva domande in modo categorico, esponendo alla paura, alla sofferenza e alla morte inflitta (dei “nemici”) e subìta» da se stessi e dai propri compagni e dalle proprie compagne.
«Perché accettare tutto questo? – scrive ancora Donati – Perché si attribuiva a tale condizione un significato più che politico, di carattere etico: nel corso del tempo maturava nel partigiano la consapevolezza che il rischio tanto più valesse la pena d’essere affrontato, quanto più la posta in gioco coinvolgeva la sorte degli uomini e delle donne italiane nel rapporto con la società, con lo Stato, con gli altri popoli, e perciò l’uomo [e la donna] come singolo e come membro d’un collettivo».

Ed è proprio in quel collettivo in cui confluisce la soggettività riscritta e riedificata che emerge la straordinarietà di quell’esperienza che portò i suoi protagonisti e le sue protagoniste a dover necessariamente inventare, costruire un mondo nuovo a livello di relazioni umane. La Resistenza, e questo emerge prepotente dalle memorie delle donne che vi parteciparono, fu un’esperienza «creativa e liberatoria, al tempo stesso intima e rivoluzionaria» e aggiungiamo noi, emancipatoria. Rosina Frulla così come Maria Rossini, Leda Serracchiani, Egidia Coccia e tante altre lì in montagna o nelle celle fasciste iniziarono il loro percorso di emancipazione dalla marginalità: per queste donne, più che per i loro coetanei maschi, la lotta partigiana fu un’esperienza esaltante e suggestiva proprio in quanto donne, giovani, proletarie e spesso scarsamente istruite. Una maturazione umana e politica, così come culturale e sociale, che, anche dopo il 25 aprile del ’45, le porterà a non tirarsi mai indietro nelle proprie scelte di vita, a contribuire al rinnovamento sociale e politico del proprio Paese, pur non ricoprendo quasi mai incarichi apicali. Questo agire collettivo ci restituisce un elemento tipico dell’agire delle donne nel Secondo Novecento: pur non comparendo individualmente – se non in pochissimi casi – queste donne non hanno mai rinunciato all’impegno politico e civile, partecipando senza se e senza ma alla vita dei propri territori e lasciando dei segni profondi della propria azione.

Egidia Coccia – partigiana. Foto di Marco Biancucci in Riconoscersi partigiani/e
Nunzia Caravischia – partigiana. Foto di Marco Biancucci in Riconoscersi partigiani/e

Torna alla mente l’idea del fuori campo di cui Daniela Brogi parla nel libro citato all’inizio di questo contributo, un fuori campo in cui risiede «ciò che non viene mostrato ma che tuttavia esiste, perché vive nello spazio di cui l’inquadratura è solo una minima parte. Lo spazio delle donne costruito insieme può funzionare come fuori campo attivo, vale a dire come tipo di messa a fuoco dinamica che genera dubbi e domande intorno a ciò che si vede, creando una dialettica tra ciò che è visibile e riconoscibile e ciò che invece è invisibile, ma tuttavia è implicato» (p. 104).

Si potrebbe dire ancora molto di questo lavoro ma per farlo aspettiamo di vederlo stampato e vi invitiamo, tutti e tutte, a contribuire alla realizzazione di questo importante progetto partecipando alla campagna di crowdfunding che Chiara Donati e Marco Biancucci hanno lanciato sulla piattaforma Produzioni Dal Basso: c’è tempo fino al 12 marzo… poi ci troveremo tutti e tutte a parlarne insieme perché no il 25 aprile!

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Articolo di Silvia Casilio

OFNSIrlf

Silvia Casilio ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia contemporanea presso l’Università di Macerata e attualmente collabora con l’Università di Teramo. È autrice di saggi sull’Italia repubblicana e dal 2009 collabora con l’associazione culturale Osservatorio di genere

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