«Woman’s Worst Enemy: Woman»

Beatrice Hastings è una sorpresa. Come il vento che ti sbatte in faccia all’uscita dalla cambusa su un mare in completa bonaccia.
È inaspettata, nel teatro di ieri e in quello di oggi. Un femminile singolare declinato a una pluralità che può solo accogliere e liberare. Ed è praticamente impossibile definirla, soprattutto nelle limitazioni e nelle esclusioni che il tracciare il senso di un’esistenza porta inevitabilmente con sé.
Ma se proprio volessimo provare a spiegare il grande spirito di Hastings, così da avere un punto di partenza che possa, in una qualche maniera, aiutarci a comprenderla, allora dovremmo sicuramente usare la parola “femminista”.
Beatrice Hasting è stata, è, una femminista. Una femminista radicale, una femminista progressista, una femminista storica, una femminista poeta. Una femminista dell’epoca vittoriana che strappa le linee cronologiche, insediandosi prepotentemente nella contingente attualità.
Una femminista contemporanea.
È una femminista fuori tempo e fuori asse, allora e soprattutto adesso, in quest’oggi che, nella superficialità dell’indifferenza, si immagina essere il punto di arrivo. Hastings, invece, ci mostra esattamente quanto ancora lungo sia il cammino che la società deve intraprendere, quanto sia difficile e tutt’altro che scontato. Si pone, con i suoi pensieri e le sue opere, come transizione tra l’età vittoriana ed edoardiana e la contemporaneità che sta arrivando; una transizione che vede le donne provare a muoversi in avanti, ma ancora trattenute dal peso delle convenzioni sociali che, come vestiti inzuppati di acqua, le trascinano sul fondo.

In questa lotta all’ultimo respiro, il pamphlet dal titolo Woman’s worst enemy: woman è una cima di molo lanciata tra i moti burrascosi delle onde. Uscito sulla rivista New Age, sulla quale Beatrice Hastings ha scritto quasi quattrocento articoli, esso sembra, apparentemente e già dal titolo, un manifesto contro le donne, vittime consapevoli del patriarcato. Nello scorrere le prime pagine, infatti, tutto il livore dell’autrice verso la maternità, che ella legge come una complicità del servilismo al maschio, risalta come uno spuntone di parete accarezzato dal palmo nudo di una mano:
«Questo libro è stato scritto per il piacere di denunciare quel tipo di femmina la cui modestia impone un silenzio tombale su questioni così importanti come il sesso e la maternità. Quella che racconta alle proprie figlie che sono nate sotto a un cavolo o che sono state portate dalla cicogna, occultando così la propria sessualità. Quando le figlie si preparano all’altare ha già pronto un altro repertorio di menzogne, insieme al velo e ai fiori d’arancio, e ai suoi auguri fasulli, così che possano giungere mansuete all’altare, come la madre prima di loro, prima di scoprire l’inganno. Sicuramente non andrebbero così serenamente di fronte al prete, se sapessero ciò che le attende».
Eppure, non appena si lascia la superficie per il livello appena sottostante, il messaggio di sorellanza appare chiaro e rivoluzionario:
«Non basta liberare le donne dal dominio sessuale degli uomini: devono essere liberate dal terrore della fame qualora diventino madri. La vita del bambino comincia nove mesi prima di nascere. La madre, essendo il tramite indispensabile, deve disporre dei mezzi per prepararsi alla maternità così da poter produrre un figlio che giustifichi i suoi sforzi e degno dell’attenzione della comunità».

Questo scritto di Hastings, dunque, si pone come uno dei più fini manifesti femministi del XX secolo e, forse, anche dei periodi a venire. Perché in esso l’autrice analizza con precisione orefice lo status della donna — nella società vittoriana e non solo — che ella si porta dietro come eredità imposta e non voluta . E lo fa senza filtri, abbellimenti, o falsi toni moraleggianti. È l’ironia, la satira, è soprattutto la contrefision la chiave di lettura e insieme l’arma che Beatrice Hastings sfodera, con assoluta competenza. Come nella migliore tradizione classica, questo suo pamphlet ha una pars destruens e una pars costruens, che guida la lettrice e il lettore attraverso un ragionamento puntuale e articolato, un vero e proprio paradigma dell’essere donna nella società patriarcale e capitalistica. E in essa l’autrice si pone come grimaldello per scardinarla e annullarla, per quanto possibile.
Hasting grida alla libertà dell’eros, alla libertà di poter godere del proprio corpo, in un atto di rinaturalizzazione che è un vero e proprio manifesto politico: la donna è un soggetto e, in quanto tale, ha il diritto e il dovere di essere attiva e indipendente; in quanto tale, ancora, ella è portatrice fisiologica del potere di voto, senza che questo le venga concesso dall’uomo. Ma grida anche contro lo Stato — Hastings — che reputata la maternità solo come funzionale e strumentale ai suoi bisogni di potenza e di egemonia, rendendo il diventare madre non una scelta ma un obbligo sociale, limitando a questo ciò che potrebbe rendere degna una donna. Un condizionale necessario, perché la gravidanza, il parto e la crescita dei figli e delle figlie devono essere vissuti con una completa soddisfazione, senza tentennamenti, dubbi o paura. Altrimenti vi è lo stigma sociale, il giudizio, la condanna ferma e l’esclusione.

E quindi — dice Hastings — poiché è solo nel ruolo di madri che lo Stato riconosce le donne, allora che esso garantisca loro un salario per il servizio offerto, diritti in quanto lavoratrici e — soprattutto — un’assistenza sanitaria che sia adeguata e all’avanguardia, fatta da donne per le donne, che le accompagni dal concepimento fino all’educazione dei figli e delle figlie. Beatrice Hastings, a seguito di questo suo scritto, è stata additata antifemminista: troppo profonda la sua libertà, troppo fine la sua intelligenza, troppo lontana la sua visione affinché potesse essere compresa, allora come oggi. Precorritrice di Virginia Woolf e di Carla Lonzi, è stata, come tutte le personalità che danno le spalle al futuro, giudicata e denigrata. E quindi grazie, mille volte grazie, a chi ha deciso di regalare a questa scrittrice una nuova luce. Per lei una rinascita e per noi, donne e femministe di oggi, una meravigliosa opportunità di leggerci nell’intimo per conoscerci, comprenderci, liberarci e amarci.
Senza pentimenti o abominevoli sensi di colpa.

Beatrice Hastings
Woman’s Worst Enemy Woman
Astarte editore, Pisa, 2022
pp. 142

***

Articolo di Sara Balzerano

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Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

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