I primati di Margaret Bourke-White

È dedicata a Margaret Bourke-White, una tra le figure più rappresentative ed emblematiche del fotogiornalismo, la mostra Prima, donna. Margaret Bourke-White, al Museo di Roma in Trastevere dal 21 settembre 2021 al 30 aprile 2022, che documenta la visione e la vita controcorrente della fotografa statunitense. Oltre cento immagini, provenienti dall’archivio Life di New York e divise in undici gruppi tematici, in ordine cronologico, rintracciano il filo del percorso esistenziale di Margaret Bourke-White e mostrano la sua capacità narrativa, in grado di comporre intense “storie” fotografiche.
Alla Bourke-White spettano diversi primati: la prima ad arrampicarsi sulle colate di ferro  delle fonderie e ad affrontare il calore delle fornaci , la prima a sperimentare la fotografia aerea, la prima a documentare la Russia del piano quinquennale, la prima fotoreporter di guerra accredita, per cui viene disegnata la divisa di corrispondente di guerra, la prima a riprendere gli orrori dei campi di concentramento; la prima a testimoniare l’India nella separazione dal Pakistan, la prima a scendere sottoterra con i minatori in Sud Africa e la prima ancora a documentare la segregazione razziale in USA; ma anche l’ultima a fotografare Gandhi, in India, prima del suo assassinio.

Margaret Bourke-White al lavoro in cima al grattacielo Chrysler, New York City, 1934 (a sinistra)
– DC-4 Over Manhattan, 1939 (a destra)
Play Street, New York, 1930

Margaret Bourke-White nasce nel Bronx, a New York, il 14 giugno 1904. Studia biologia alla Columbia University e contemporaneamente frequenta le lezioni di fotografia di Clarence H. White. Si trasferisce poi all’università di New York continuando a seguire la passione per la fotografia e interessandosi in particolar modo alla fotografia pubblicitaria e industriale, sollecitata dal padre Joseph che, inventore e naturalista, le trasmise l’amore per le macchine e la tecnologia. Apre il suo primo studio fotografico a Cleveland, in Ohio, nel 1928. Un lavoro che fino ad allora era stato in prevalenza maschile, ma Margaret non si faceva problemi, ostinata e ambiziosa, aveva fiducia nelle sue capacità.

Cavi arrotolati (sinistra) – Rocchetti di rayon (destra), 1939

Ritratto di Stalin, 1930

La nota Henry Luce, caporedattore di Time, e la invita a prendere parte a una nuova realtà: la rivista illustrata Fortune, nata nel 1929, e più tardi, nel 1935, alla rivista Life. Con Fortune Margaret inizia a viaggiare, nel 1930 in Germania e poi in Russia, prima ad andare in Unione Sovietica: da quando il piano quinquennale sovietico era iniziato, nessun fotografo o fotografa straniera era stata ammessa entro i confini della nazione. La Russia era una porta blindata. «Niente mi attraeva di più di una porta blindata: non mi sarei data pace se non dopo aver cercato di aprirla. Sentivo che la storia di una nazione che cercava di industrializzarsi, praticamente da un giorno all’altro, era disegnata su misura per me… Era un’occasione unica per osservare un Paese nel passaggio da un passato medievale a un futuro industriale». Riesce a realizzare uno scoop eccezionale, il ritratto di Stalin in esclusiva per Life. Tornerà in Russia altre volte e a questa esperienza dedicherà il suo primo libro Eyes on Russia.

Ospedale psichiatrico, Russia, 1931 (a sinistra) – Russia, 1931 (a destra)
Donne che lavorano nei campi in Unione Sovietica, 1941

Dal 1936 comincia a dedicarsi a una documentazione di tipo sociale. Con il suo secondo marito percorrerà il Sud americano segnato da siccità e povertà. «Un reportage per Fortune mi catapultò in una realtà che non conoscevo e che mi colpì profondamente: la grande siccità del 1934. Non avevo mai visto un paesaggio simile. Un sole accecante picchiava impietoso sulla terra arsa e dura». Sulle tragiche condizioni di vita dell’America rurale nasce il suo secondo libro You Have seeen their faces sugli anni della depressione, scritto insieme al marito, Erskine Caldwell. «Il titolo del libro era esattamente quel che avevo in mente. I volti esprimevano ciò che volevamo dire. Non volti inusuali o che colpiscono, ma ritratti dignitosi e profondi, in grado di dare senso alla pagina scritta».

Copertina del n.1 di Life- La Diga di Fort Peck, Montana, 1936

Sulla copertina del primo numero della rivista Life, del 23 novembre 1936, viene pubblicata una sua foto della diga di Fort Peck, nel Montana: un’immagine che rappresenta in pieno la ricostruzione, nell’epoca del New Deal rooseveltiano, il periodo delle riforme economiche e sociali promosse dal presidente Roosevelt, allo scopo di risollevare il Paese dalla Grande Depressione che lo aveva colpito sul finire degli anni Venti.

La fiumana di Louisville, 1937

Sua anche la celebre fotografia scattata dopo la tragedia della grande alluvione del 1937 e dell’esondazione del fiume Ohio, che provocò più di quattrocento vittime e mise in ginocchio migliaia di famiglie: una fila di persone di colore, in attesa della distribuzione di un pasto, è sovrastata dalla pubblicità di un’automobile con a bordo la tipica famiglia americana e la frase: World’s highest standard of living.
Con l’inizio della Seconda guerra mondiale, per Life è corrispondente di guerra, sulla prima linea del fronte, prima donna in assoluto a farlo. Al seguito dell’aviazione americana è in Inghilterra e in Nord Africa e poi con l’esercito in Italia e in Germania. Resterà per cinque mesi sul fronte italiano, da Napoli a Cassino fino a Roma liberata. Presente alla liberazione di Buchenwald, ne ha raccontato le atrocità: le immagini dei volti increduli oltre il filo spinato, dei forni crematori, delle baracche dei lager, sono documenti storici di enorme valore. Lei stessa davanti allo strazio della realtà ha dichiarato di aver scattato senza guardare l’orrore che aveva di fronte.

Prigionieri ebrei nel campo di sterminio di Buchenwald, 1945

Finita la guerra, è in India a fotografare il paese nel passaggio dall’impero britannico alla libertà e alla divisione dal Pakistan. «Avevo sempre pensato all’India come a un paese vecchio e invece scoprii quanto potesse essere giovane… Ci misi due anni a comprendere la grandezza di Ghandi. Davanti a me avevo uno degli uomini più santi mai esistiti». Nel 1946 realizza la famosa fotografia di Gandhi che legge mentre siede a gambe incrociate sul pavimento accanto a un filatoio, simbolo della lotta per l’indipendenza dell’India; nel 195o esce il suo libro Interview with India.

Ritratto di Gandhi, 1946

Fu poi in Sud Africa per documentare l’apartheid, scendendo nelle profondità della terra per narrare la terribile vita dei minatori d’oro neri.

Minatori di Johannesburg, 1950
Aparthaid-Soweta 1950

Arrivata sul fronte della guerra in Corea, testimonia il difficile momento della divisione di un popolo in due stati. Seguono ancora molti viaggi nel suo stesso paese a conoscere con un reportage a colori la segregazione nel Sud e tante vedute aeree.

Greensville, Carolina del Sud, 1956

Dal 1952 si trova a combattere contro il morbo di Parkinson una battaglia lunga e complessa durante la quale si ostina a continuare a lavorare e a scrivere. Così completa la sua autobiografia Portait of myself, che esce nel 1963. Muore il 27 agosto del 1971 a Stamford, nel Connecticut dopo venti anni di lotta estenuante contro la malattia.
Le sue immagini riflettono un’influenza della pittura cubista, per la sovrapposizione dei piani, le geometrie astratte, la bidimensionalità. Le sue inquadrature, il suo utilizzo delle luci sono magistrali; per scattare saliva sui cornicioni dei grattacieli più alti, sorvolava città, si spingeva nelle zone più pericolose. «Maggie, quando cominci a raccontare una storia con le tue foto, qual è la prima cosa che cerchi?» «Credo la verità, Ed. Per prima cosa cerco la verità e il modo per raccontarla», da un’intervista rilasciata a Edward R. Murrow il 2 settembre 1955.
La prima sezione della mostra, L’incanto delle acciaierie, mostra i primi lavori industriali di Margaret; la seconda, Conca di polvere, documenta il lavoro sociale realizzato dalla fotografa negli anni della Grande Depressione nel Sud degli Usa; la terza sezione, Life, è dedicata alla lunga collaborazione con la leggendaria rivista americana Life; la quarta sezione, Sguardi sulla Russia, inquadra il periodo in cui Margaret Bourke-White documentò le fasi del piano quinquennale in Unione Sovietica; la quinta, Sul fronte dimenticato: gli anni della guerra, racconta quando per lei fu disegnata la prima divisa militare per una donna corrispondente di guerra; nella sesta, Nei Campi, è testimoniato l’orrore al momento della liberazione del Campo di concentramento di Buchenwald (1945); la settima sezione, L’India, raccoglie il lungo reportage compiuto dalla fotografa al momento dell’indipendenza dell’India e della sua separazione dal Pakistan; l’ottava, Sud Africa, offre una documentazione del grande paese africano durante l’Apartheid; nella nona sezione, Voci del Sud bianco, si trova il lavoro a colori del 1956 dedicato al tema del segregazionismo del Sud degli Usa; la decima, In alto e a casa, raccoglie alcune tra le più significative immagini aeree realizzate dalla fotografa nel corso della sua vita; nell’ultima e undicesima sezione, La mia misteriosa malattia, una serie di immagini documenta la sua ultima, strenua lotta, quello contro il morbo di Parkinson.

In copertina. Manifesto della mostra al Museo di Roma in Trastevere, dedicata a Margaret Bourke-White.

***

Articolo di Livia Capasso

foto livia

Laureata in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ha insegnato Storia dell’arte nei licei fino al pensionamento. Accostatasi a tematiche femministe, è tra le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile.

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