Dal 13 al 21 maggio si terrà a Procida la mostra personale di Patrizia Bonardi , artista visiva e fondatrice dell’associazione Artists-Sociologists, che presenta un ciclo delle sue opere, ispirate alla violenza sulle donne .

Nel 2021 ha curato la pubblicazione di due volumi: Dialogo tra artisti e pensatori sociologici. Durante i giorni della mostra, nel dialogo costante, fondativo dell’associazione, si terranno delle dirette quotidiane con diverse sociologhe.

Come la rete, così finemente intrecciata nei due ritratti Identità, viviamo la costruzione e la narrazione della lunga storia della violenza sulle donne. La violenza viene raccontata troppo spesso in modo acritico, come fosse un fatto inevitabile della storia umana, e questo avviene anche nei percorsi formativi istituzionali, con il risultato di produrre disattenzione e anestetizzazione di massa, pure di fronte alla cronaca più spietata del nostro presente. Vediamo come…
Abbiamo storie conosciute e normalizzate: la leggenda, ispirata a un fatto storico, del Ratto delle Sabine, come tappa di un processo di sviluppo della città di Roma, tanto da “accettare” lo stupro in qualsiasi guerra, del passato e del presente, come di nuovo inevitabile, parte integrante della cultura che l’ha prodotto. Così come il mito di Apollo e Dafne, rappresentato nel marmo in modo così aulico, tanto da non sembrare un tentativo di stupro, dove Dafne, pur di sfuggire ad Apollo, si trasforma in un albero.
Abbiamo storie cancellate dalla memoria collettiva. Ancora oggi si fatica a trovare i nomi delle artiste nella manualistica e nei percorsi formativi istituzionali (Conservatori, Accademie, scuole di ogni grado) sembra che fino al Novecento le donne, tranne rarissime eccezioni (Artemisia Gentileschi oggi famosa) non siano esistite e se anche fossero esistite non siano state così geniali da passare alla grande Storia. Si tratta di un falso storico che spiega il faticoso percorso di identificazione e di emancipazione di entrambi i sessi, che convive con la rimozione dall’inconscio collettivo di essere state depapeurizzate di un’identità e creatività antichissime e presenti per millenni, fortemente simboliche nelle diverse forme di convivenza comunitaria.
È questa la violenza simbolica generata da false narrazioni, che creano dissonanza cognitiva tra forma e contenuto, tra storie narrate e taciute: emblema è il dipinto Susanna e i vecchioni di Artemisia Gentileschi, dove i grandi saggi chiedono a una giovane donna violata di restare in silenzio. Questa è la dinamica che “legittima” la violenza fisica, perché prima di legittimarla, è stata interiorizzata attraverso le abitudini di un universo simbolico condiviso. Rosso silenzio è la definizione di questo processo sociale, dove però anche chi non ha voce può comunicare, ricorrendo al linguaggio dei segni.
Già in tempi antichissimi la rappresentazione delle Dee fu smembrata, distrutta. In India, presso il popolo sumero e in Messico. La cancellazione materiale delle loro immagini rappresenta l’allontanamento da un mondo che ruotava intorno a una Dea, in cui l’atto della negazione è sempre attribuito a un dio maschio che in ogni cultura ne ha preso il posto. In India, Indra uccise la Dea e ne disperse le parti del corpo per tutta la campagna, esse divennero santuari dove ancora oggi è venerata; a Babilonia, l’eroe Gilgamesh uccise la Dea oscura Tiamat e ne sparpagliò le membra per creare un nuovo mondo. In Messico, il dio della guerra Huitzilipoltli uccise sua sorella, la dea della Luna Coyolxauqui, e ne gettò il corpo fatto a pezzi dalla cima di una montagna per dimostrare la vittoria su di lei. Fino al disconoscimento della Grande Dea dell’Europa antica, quella studiata dall’archeologa Marìa Gimbutas. Si trattava di una Dea rappresentata in segni, simboli e immagini, fonti primarie essenziali per una comprensione della religione e della mitologia occidentali, l’archeomitologia, utile alla visione del mondo pre-indoeuropeo.
Lo sterminio in Europa di nove milioni di streghe, le guaritrici, durante il periodo dei roghi, quattro secoli troppo spesso sottaciuti nei libri di storia, eppure di poco precedenti l’Illuminismo, ha contribuito all’amnesia collettiva e individuale, ma fa parte di una coscienza o inconscio collettivo, oggi risvegliato dai femminicidi che avvengono ogni giorno in ogni luogo del mondo.
Nelle opere di Patrizia Bonardi il colore rosso sangue, nelle diverse sfumature, è centrale soprattutto nel trittico Rispetto-Verità-Vita, quel sangue che nell’antichità era utilizzato per concimare il terreno ed era festeggiato dalle comunità con i cicli lunari, era il tramite di un vincolo spirituale della comunità, poi sostituito dalla circoncisione dei neonati. Le donne in menopausa erano le nonne sagge della tribù, il cui sangue magico si accumulava nel corpo così come la saggezza nella psiche. Al contrario, oggi le donne non più fertili sembrano solo logorarsi, trattate come vuoti a perdere…
Patrizia Bonardi descrive spesso il significato delle sue opere, la storia emotiva e la genesi sociale: un agire non frequente tra artiste/i contemporanei. A lei si può chiedere e trovare delle strade utili e potenti per il percorso di scoperta. Così come una Dea Madre contemporanea, a Procida ci guiderà nella performance ispirata al trittico. Così, nella danza delle grandi madri si diviene tutte co-madri: «nell’essere contemporaneamente l’una la madre dell’altra». (C.P. Estes).
La speranza è che si possa recuperare questa antica complicità femminile, soffocata dall’egemonia di un sistema culturale patriarcale, nel quale prevalgono i modelli maschili interiorizzati dalle donne.
Le opere identitarie e la Sfera di Patrizia Bonardi ben rappresentano i due poli della violenza simbolica: quella istituzionalizzata, che legittima e giustifica i traumi taciuti, e la violenza di prossimità (I. Bartholini, 2013) agita da uomini che indifferentemente provengono da diverse estrazioni sociali e culturali: gli ultimi dati ci dicono che in Italia una donna viene uccisa da un uomo ogni tre giorni. Uomini non abituati a considerare le donne autonome, libere di essere; quelle stesse donne che non hanno potuto interiorizzare la forza identitaria, sottratta nella Storia: quella consapevolezza che mai le avrebbe condotte a convivere o anche solo ad avvicinarsi a uomini abusanti e violenti. La cera d’api cura il sangue che attraversa le diverse opere di Bonardi, a partire dal trittico (Rispetto-Libertà-Vita), è la rinascita dalle ferite psichiche, sociali, fisiche. È ascensione. È riscatto e speranza. La promessa dell’artista al suo pubblico, la sua preghiera e la sua denuncia. È Itaca e terra promessa. Tra sogno e incubo.
Lo sguardo all’identità è il centro, nella fitta rete di bende, dove l’una sostiene e dà forma all’altra, è un centro da riempire, dove specchiarsi, dove non lasciarsi cadere. Da quel vuoto-buco si può far capolino sull’altra rete disegnata di nero su fondo bianco, quella di due persone: un uomo e una donna che si guardano frontalmente, allo stesso livello, sono rosso fuoco, sembrano a volte sospese nella leggerezza di falene notturne, e a volte annaspare nell’abisso. Ricordiamoci: «Come io ti guardo, io ti tratto». Lo sappiamo, l’identità è un lungo percorso che non finisce mai, è una continua scoperta, adattamento, compromesso, in atti di ribellione e di resa. L’identità nel suo farsi più autentico è sempre rivoluzionaria, rispetto a tradizioni e mondi dati per scontati. Io non sono uguale a te, ci dicono queste Opere, ma possiamo dialogare, possiamo avvicinarci, rispettarci, possiamo non ferirci. Questo è il grande messaggio di Patrizia Bonardi: il continuo dialogo, l’urlo e la carezza nella rappresentazione dell’essere hic et nunc. La sfida della trasformazione, della nascita e della rinascita: l’essenza umana sta nel confronto, nella rappresentazione dei tanti, piccoli mondi interiori capaci di comunicare tra loro, di resistere, lottare e vivere, nonostante tutto.
È la denuncia della violenza, e la sua cura.
***
Articolo di Milena Gammaitoni

Professoressa associata di Sociologia Generale presso l’Università di Roma Tre, Dipartimento di Scienze della Formazione e dal 2009 visiting professor in università francesi e polacche. Si occupa di questioni relative all’identità, storia e condizione sociale di artiste e artisti, la metodologia della ricerca. Cura e pubblica saggi in libri collettanei, riviste scientifiche e culturali ed è autrice di tre volumi monografici. Sito web: www.milenagammaitoni.it