Il pane rom

«Mia cara gagé, il mio nome è Donka e sono una donna rom del gruppo dei Kalderash, originario della Serbia.
Ti scrivo con il rumore del fuoco nelle orecchie, quel suono basso, pieno e spezzato, che ha lo strano potere di inchiodarmi le gambe e lo sguardo, mentre la mente si fa fumo, divenendo libera, leggera e dispettosa verso chiunque voglia intrufolarsi nelle volute dei pensieri.
Non so se conosci il popolo di cui faccio parte, se anche lì dove vivi ti è capitato di vedere gonne lunghe e colorate chiedere l’elemosina o vene celesti contratte in polsi scuri e impegnati in qualche attività manuale.

Mio padre lavora il rame, l’ottone e il ferro, fabbricando soprattutto pentole o utensili che vende poi nelle fiere e nei mercati. In quelle stesse fiere, mia madre legge le carte. Lì, almeno lì, pare che non diano fastidio a nessuno, come fossero un’attrazione del baraccone colorato che vi sciama e respira. Con le luci spente, però, con le bancarelle svuotate, con la malinconia che stagna nelle impronte lasciate dalla folla sulla terra battuta, anche loro devono tornare a ritirarsi nell’ombra, come quella merce invenduta che viene dimenticata in un angolo, così da permettere a voi gagé di riprendere a calpestarli ed emarginarli. Così da permettervi di incontrarli e passare oltre.

Nei secoli, noi rom siamo stati accusati di essere stregoni, briganti, spie, traditori, untori di pestilenze, malfattori, ladri, addirittura cannibali.
Tutte cose che, all’evidenza dei fatti, potrebbero unirci in fratellanza e sorellanza ad almeno metà della popolazione mondiale, di ieri e di oggi, dell’est e dell’ovest, senza distinzione di nascita o di pelle.

Eppure, nelle chiacchiere che ci riguardano, sembra che solo noi abbiamo questi primati.

Nell’originalità invidiabile dell’odio, siamo stati accusati persino di aver forgiato i chiodi con i quali Cristo venne messo in croce.

Questa cosa mi ha sempre fatta sorridere: un popolo lo ha condannato, un altro lo ha crocefisso ma la colpa è nostra e dei nostri chiodi. Ci imputano di aver ucciso un uomo pur non avendo mai avuto nemmeno uno straccio di esercito. Che sia questo il problema?
Siamo senza patria, ma ci sono luoghi che ci hanno dato i natali: per noi la terra sembrerebbe essere donna, madre e non padre. Ed è cosa risaputa che le donne devono essere costantemente umiliate e ferite e denigrate se si vuole che l’uomo rimanga convinto della propria superiorità. Una convinzione, questa, che nonostante tutto va per la maggiore anche presso di noi.

Se mio padre, ad esempio, venisse accolto in un qualunque salotto o taverna, se anche solo venisse invitato a condividere un pasto o una bevuta, sono certa che si guadagnerebbe strette di mano e pacche sulle spalle al racconto di come riesca a gestire le intemperanze della moglie a suon di pugni e cinghiate; sono sicura che verrebbe preso come esempio e consiglio l’idea che ha avuto di vendere sua figlia per tre monete d’oro.
Purtroppo per lui, però, in quanto rom, egli non sarà mai invitato a nessun tavolo di gagé. E così, il suo agire, per via della pelle scurita dal sole, delle vene azzurre e di quei famosi chiodi di Giudea, gli porterà solo il biasimo degli uomini bianchi e civili che, nel chiuso delle loro belle case fisse, avranno il buon gusto di sbarrare bene la porta e serrare le tende delle finestre prima di tirare il primo schiaffo.
E se da un carrozzone di legno e stoffa le urla passano quasi senza barriera, è altrettanto facile che a poter scappare sia pure una ragazza disperata che non ha alcuna intenzione di entrare in un matrimonio da merce venduta e comprata.

Continuo a scrivere questa lettera mentre il fuoco ghiotto mangia un altro ciocco di legno. Non mi sono dimenticata della tua richiesta. Il fatto è che sono sola da ormai tanti mesi e mi piace approfittare di questa lettera — approfittare di te — per sentire meno il peso della fuga. Non che patisca troppo la mancanza della mia famiglia. In fondo, il bello di essere una rom è proprio il riuscire a percepire gli echi dei boschi, le chiacchere dei venti e i sussurri delle acque: parole che sono cresciute con noi, che riconosciamo in ogni loro racconto pur non avendole mai messe per iscritto. La nostra è una memoria di voci e non di caratteri.

E se ti stai chiedendo com’è che io, invece, abbia scelto di impugnare una penna, è presto detto: non potendo raggiungerti di persona, preferisco affidare a questa vostra “tecnica” l’abbraccio che vorrei ti arrivasse, così per farti capire come le nostre braccia, le braccia rom, pure se costrette a un eterno peregrinare, abbiano la stessa vostra forza per stringere al cuore. E che il cielo benedica quel missionario che mi ha insegnato la tua lingua e i segni per trasferirla su un foglio.
Come avrai capito, mia cara gagé, noi rom non abbiamo ricette per il pane che siano scritte: questa che ti sto annotando qui è forse la prima e l’unica che ti capiterà di vedere.

La bokolí è una focaccia fatta di farina, acqua e lievito, sulla cui crosta vengono create delle incisioni, così da far apparire una rosa durante la cottura. Solitamente, e quando i tempi lo permettono, viene riempita con carni, verdure, pancetta o formaggio.
Per preparare nel modo più semplice una bokolí, si parte dal ripieno. Si prende la pancetta e la si taglia a dadini, la si cuoce in padella cospargendola di sale e pepe. Dopodiché, si versano due mestoli di acqua e si aggiunge la farina, fino a ottenere un impasto duro, che va cotto nella brace del fuoco.
Quando la pancetta non è disponibile, si possono mischiare grasso, miele e foglie o radici tagliuzzate di aglio ursino, oppure fiori di sambuco, tanaceto, primule immersi nella farina e fritti nel grasso.

Credimi, questa nostra bokolí è una vera specialità, soprattutto se gustata davanti al fuoco, accompagnando ogni boccone con il suono dei violini e della fisarmonica.
Forse non è il tipo di ricetta che avresti voluto leggere, ma di certo è, per me, la più cara, eredità di mia madre, e di sua madre, e di sua madre ancora. A risalire indietro, mi piace pensare a un tempo in cui le donne, che danno la vita e cuociono il pane, avevano un potere tale da potersi permettere di non fare né l’una né l’altro.

Ho scelto questa ricetta per ragioni di affetto, ma avrei potuto raccontarti di tanti altri pani. Il kolako, ad esempio, è una grande focaccia rotonda, fatta con farina, tuorlo d’uovo e basilico con cui si celebra il rituale della slava. Poi, c’è la pogacia, un grosso pane rotondo fatto di farina senza lievito con bicarbonato e acqua calda, cotto nella cenere o sotto la brace, voluminoso e croccante. Simile alla pogacia, ma con il lievito e cotto nel forno, è la melía, che risulta essere più soffice e morbida. Infine vi è un pane azzimo, detto savjako, fatto di farina di frumento, latte e sale.
Hai visto che varietà? Sono sicura che anche lì dove vivi tu esistono così tanti tipi di impasto. Esattamente come esistono tanti diversi tipi di uomini e di donne. E, proprio come ciascun individuo è chiamato per senso di appartenenza essere umano, così con la parola pane si indicano mille e mille incontri di acqua e farina.

Che strano che questo valga per un cibo, ma non per noi.

Per quel che ci riguarda, comunque, la mia gente usa il termine marno.
Il marno è quella cosa che, se fosse sufficiente per tutti e tutte, sia le chiese che i tribunali sarebbero sempre vuoti: «Kana bi ovela ne phuo marno savorenghe, ciuce bi ovena vi e khanghira vi e krisa». Quella cosa che, se fosse abbastanza, farebbe diventare tutti i popoli come il popolo rom: senza patria ma con una casa da poter liberamente abitare.

Un giorno, una giovane, allattando il proprio bimbo al seno, recitò fuori dal carrozzone una breve canzone. La voglio dedicare a te e a tutte le donne che, come me, hanno risposto alla tua richiesta: «Voghi e iag giuvdarel,/i pani o arko bairarel./O humer i dai longiarel/thai peske ilesa gudgliarel,/gudlo thai baro te ovel,/pire c’havoren te ciagliarel» (Il soffio ravviva il fuoco,/con l’acqua si gonfia la farina. La mamma versa il sale nella pasta,/la insapora con l’anima sua/perché il pane sia dolce ed abbondante/e nutra i suoi bambini».

Ora, mia sorella gagé, è il momento per me di salutarti.
Il fuoco è ormai solo un basso sguardo di luce e io devo rimettermi in viaggio. Verso dove? Non lo so. Non ho ancora scelto il luogo al quale appartenere. Il luogo che mi apparterrà. Spero di trovarlo presto e di potermi fermare a riposare. Almeno fino al prossimo pezzo di cielo che vorrò cambiare.
Un saluto caldo e libero.
Latcho drom».

***

Articolo di Sara Balzerano

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Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice

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