Mx. Annalee Newitz: né Mr. né Mrs., né Signore né Signora. Annalee Newitz declina la propria identità non binaria (gender fluid), marcandola grazie all’uso del “singular they”, cioè del pronome plurale ambigenere they (e delle forme correlate) con la funzione di pronome singolare non connotato, che costituisce una possibilità coerente e documentata all’interno del sistema linguistico inglese.
Che c’entra una questione grammaticale qual è l’occultamento del genere con la fantascienza? C’entra eccome, anche perché – nello specifico del passaggio dall’angloamericano all’italiano – chi traduce si trova ad affrontare il dilemma tra il rispetto della volontà di chi ha redatto il testo e l’osservanza non tanto di una norma codificata e immobile quanto della corrispondenza tra grafema e fonema (scritto e parlato), della comprensibilità della comunicazione, della tutela di chi, per esempio, ha difficoltà nella lettura. Nella nostra lingua, poi (a differenza che in altre, e qui entra in gioco la diversa tipologia delle lingue romanze rispetto a quelle germaniche), risulta indubbiamente oneroso evitare articoli, aggettivi della prima classe, participi passati (come chi scrive ha fatto fin qui) che marcano inesorabilmente maschile e femminile.
Il dibattito è aperto (la stessa Accademia della Crusca ha prodotto interessanti contributi a riguardo): se in inglese l’uso di he/she/they (a seconda che ci si riconosca nel genere maschile, femminile, o non binario) non crea problemi, le soluzioni adottate per l’italiano destano, a ragione, perplessità: l’asterisco è impronunciabile e il cosiddetto schwa [ə], il simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue e di vari dialetti, oltre a lasciare irrisolto il problema della declinazione al plurale, nell’italiano parlato standard non esiste e proprio nella comunicazione orale rischia di smarrirsi, di non essere pronunciato. Fermo restando che nella nostra lingua non esiste il neutro (che, per altro, anche in latino e in inglese, non designa un “non genere”, ma distingue ciò che è inanimato da ciò che lo è) e che il genere naturale e il genere grammaticale non coincidono, come si deve comportare a riguardo la sventurata (she/her) che ha scelto di scrivere di Annalee Newitz? La risposta, my friends − né amiche, né amici, evvai! – al momento non c’è (rinvio al bel contributo di Cristiana De Santis, L’emancipazione grammaticale non passa per una e rovesciata, per treccani.it, facilmente reperibile in rete): occorre dunque saggiamente mediare nella tutela dei diritti di ogni persona e appartenenza, con la consapevolezza che includerne una potrebbe significare escluderne un’altra: ma la lingua ha una sua vitalità capricciosa e ribelle, la comunità che la parla e la scrive troverà la via.

«Per lo più scrivo libri di saggistica e narrativa − così Annalee Newitz sul proprio sito techsploitation.com − Il mio ultimo libro di saggistica, Four Lost Cities: A Secret History of the Urban Age, è un bestseller nazionale ed è stato elogiato dal New York Times, dal San Francisco Chronicle e dal New Yorker. Il mio secondo romanzo The Future of Another Timeline, ha ricevuto recensioni stellate da Publisher’s Weekly, Kirkus, Library Journal e Booklist. Il mio primo romanzo, Autonomous, ha vinto il Lambda Literary Award ed è stato nominato per Nebula e Locus Awards. Il mio racconto When Robot and Crow Saved East St. Louis è stato vincitore dello Sturgeon Award 2019. […] Attualmente sono giornalista freelance in ambito scientifico, opinionista che collabora con il New York Times ed editorialista del New Scientist. Conduco, con Charlie Jane Anders, il podcast vincitore del premio Hugo Our Opinions Are Correct. In precedenza, ho fondato io9 e ho guidato la redazione di Gizmodo» (fino a qui tutto bene: nella traduzione dall’inglese sono riuscita a non marcare il genere, meglio di Google!).
Annalee Newizt nasce il 7 maggio 1969 a Irvine, California, ove frequenta la scuola superiore; si trasferisce poi a Berkeley, California, e nel 1998 conclude il dottorato di ricerca con la discussione di un saggio pubblicato nel 2006 da Duke University Press, Pretend We’re Dead: Capitalist Monsters in American Pop Culture (Far finta di essere morti. Mostri capitalisti nella cultura pop americana), nel quale sostiene che gli zombie putrescenti e gli assassini assetati di sangue tanto diffusi nella cultura di massa statunitense incarnino «le violente contraddizioni del capitalismo. Devastati dal superlavoro, alienati dal conformismo aziendale e mutilati dalla sfrenata brama di profitto, i mostri immaginari rappresentano i problemi con un sistema economico che sembra creato per divorare l’intera popolazione». A partire dal 1999 si dedica all’attività giornalistica, anche sul web: nel 2002 fonda la rivista Other − «magazine di cultura pop e politica per nuove emarginazioni»; nel 2008 è la volta di io9, blog di scienza e fantascienza che nel 2015 confluisce in Gizmodo, altro blog di tecnologia elettronica, di cui Newitz è pure alla guida redazionale, fino al podcast Our Opinions Are Correct (Le nostre opinioni sono corrette), nel 2018, nel quale è esplorato «il significato della fantascienza e come essa sia rilevante per la scienza e la società della vita reale».

(https://www.ouropinionsarecorrect.com/who-we-are)
Al suo fianco, a far data dal 2000, la compagna di sempre, Charlie Jane Anders, autrice che ha scelto di declinarsi al femminile (she/her), che scrive di «science fiction and inspirational weirdness», ovvero trova nella bizzarria la propria musa ispiratrice, e che si è aggiudicata l’Hugo Award nel 2012 con la raccolta di racconti Six Months, Three Days (Sei mesi, tre giorni), il Nebula Award nel 2017 con il romanzo All the Birds in the Sky (Tutti gli uccelli nel cielo), il Locus Award nel 2020 per il miglior romanzo con The City in the Middle of the Night (La città nel cuore della notte) e per il miglior racconto con The Bookstore at the End of America (La libreria dove l’America finisce), di cui soltanto il primo parzialmente tradotto in italiano.
Annalee Newitz giunge alla fantascienza in età matura, nel 2017, con Autonomous, romanzo tradotto da Annarita Guarnieri per Fanucci nello stesso anno, a testimoniare l’interesse immediato che il testo suscita. L’idea di partenza è bella e, sotto il profilo etico, ineccepibile: in una società futura, che segue al «collasso della fine del XXI secolo», in cui generi, umani e robot si ibridano fino a divenire indistinguibili, opera Judith Chen, energica donna di mezza età che «si fa chiamare Jack», «biologa sintetica addestrata» e «terrorista antibrevetti», sospettata di collaborare «con una delle più grosse operazioni di pirataggio farmacologico» a livello mondiale, attraverso la produzione di medicinali la cui composizione è sottratta alle multinazionali attraverso un «procedimento di ingegneria inversa» da lei messo a punto per permetterne la distribuzione a basso costo.
Nessun problema finché – ed è l’inizio della narrazione – Jack non sintetizza lo Zacuity, «la nuova pillola della produttività che aveva così grande successo e che tutti volevano», in primis le aziende per i propri dipendenti, perché il farmaco aiuta chi lo assume «a fare il proprio lavoro più in fretta e meglio». Non senza allarmanti effetti collaterali, però: sono questi a muovere la scienziata pirata dall’Artico al Sahara, dal Canada al Marocco, da Vancouver a Casablanca, lungo una rotta di navigazione percorsa all’interno di un sottomarino tecnologico; la protagonista è inseguita da un’improbabile coppia di agenti sotto copertura, l’umano Eliasz e il (ro)bot Paladin, al servizio della mega-società farmaceutica Zaxy e di conseguenza della droga che induce a reiterare fino all’ossessione − o a alla morte, propria o altrui − l’attività che dà piacere e provoca dipendenza (come nel bellissimo racconto di Primo Levi Versamina, nona delle Storie naturali, 1966).
Accanto a Jack, in progressione, il poco più che adolescente Trizeta, già schiavizzato al pari di tanti giovani umani indigenti con un contratto di apprendistato che ne rende legale il possesso; Med, bot medico coraggiosa e capace; e ancora, tra passato e presente, il primo compagno di lotta Krish e l’antica amata rivoluzionaria Lyle. Figure connotate da luci e ombre: per quanto goods e villains siano ben riconoscibili, i primi non sono del tutto buoni e i secondi non sono del tutto cattivi (e, nello spirito disneyano, Everybody Wants a Happy Ending). Ecco, dunque, che Jack, pur con l’intenzione di operare per il bene, contribuisce involontariamente ai danni provocati dallo Zacuity; e allo stesso modo Trizeta, pur coadiuvando Jack, con il proprio atteggiamento seduttivo e ambivalente rischia di tradirla e consegnarla a chi le è nemico.
D’altra parte Eliasz, che opera senza scrupoli per un potere economico ingiusto e corrotto, è vittima di una sottocultura militare e machista (la sua battuta chiave all’interno del romanzo è «Non sono un finocchio!»), mentre Paladin, bot dal robusto carapace che sa leggere l’altro captandone le variazioni emotive-sensoriali-neurali, compie gustose riflessioni sulla necessità umana di antropomorfizzare il prossimo e sull’incapacità altrettanto umana di comprendere che l’appartenenza a un genere non ha carattere di necessità; poco importa che Eliasz, l’uomo che Paladin ha per istinto il dovere di difendere a ogni costo, «forse non avrebbe mai capito che le sue categorie umane – finocchio, femmina, transessuale – non si applicavano ai bot»: sarà infatti l’androide a compiere una scelta determinante, e soltanto per amore.
Autonomous presenta tutti i caratteri di un’opera science fiction pubblicata nel XXI secolo negli Stati Uniti, secondo i canoni delle scuole di scrittura che ormai producono in serie testi standardizzati: sistema dei personaggi (che procedono per divergenze e opposizioni) con frequenti cambi di punti di vista; struttura spazio-temporale intervallata da ritorni al passato (l’azione si svolge negli anni 2144-2145, con incursioni tra il 2114 e il 2120); riferimenti alla realtà virtuale, particolari di gusto splatter, ambientazioni in laboratori asettici o in scenari esotici, citazioni di film cult, ibridazione tra umano e non umano… Peccato, perché l’idea centrale del romanzo è indovinata e innovativa: «Le chiavi per una buona vita sono […] nelle mani avide di poche società per azioni, i cui brevetti hanno una durata di validità più lunga della vita umana – questa la riflessione del movimento per l’abolizione dei brevetti − È tempo di combattere questo sistema che definisce la salute un privilegio!». Dopo due anni di pandemia e di profitti fuori controllo per Big Pharma, è impossibile non dare ragione al profetico J’accuse di Annalee Newitz.

La salute pubblica è anche al centro del racconto When Robot and Crow Saved East St. Louis (Quando Robot e Corvo salvarono East St. Louis), del 2018, pubblicato nella traduzione italiana di Marco Crosa su Robot 89 della primavera 2020. Come noto − anche grazie alla composizione di Duke Ellington East St. Louis Toodle-Oo, del 1926 – la parte orientale della città statunitense è degradata e poverissima: «Alcuni umani vivevano in posti che non erano classificati come spazi abitativi. Alcuni umani non usavano identificativi assegnati dal governo. Ma tutti si potevano ammalare». Compito del piccolo, «adorabile» Robot, che volando basso sorvola la città, è di effettuare la «sorveglianza sanitaria»: un compito che il non umano ha assunto con serietà e che continua ad assolvere anche quando il Centro Controllo Malattie chiude in seguito al taglio dei finanziamenti e l’admin di Robot trova lavoro presso Amazon Health.
Il racconto è garbato nei toni, profondo nei contenuti: sono i non umani, ancora una volta, a salvare gli umani, grazie all’amicizia e alla collaborazione, alla capacità di ascoltare e alla volontà di comprendere. La gentilezza attenta e altruista di Robot si unisce alla vivacità di un corvo femmina e all’intelligenza di una giovanissima: in questo apologo sull’importanza della medicina di prevenzione e sulla necessità di un sistema sanitario pubblico e gratuito nessuno si salva da solo, sia robot, animale o umano. Altro tema caro a Newitz, ben presente nel testo e dal valore quasi didascalico, è quello relativo alle identità non binarie e al diritto di scegliere attraverso quale nome e genere presentarsi, se maschile (he/him), femminile (she/her) o fluido (they/them).
Un progetto politico di destrutturazione dei generi che Annalee condivide con la compagna Charlie Jane: di questa è leggibile in lingua italiana il racconto Love Might Be Too Strong a Word (Forse amore è una parola grossa), del 2008, compreso nell’antologia tematica DiverGender, a cura di Silvia Treves e M. Caterina Mortillaro, edita da Delos Digital nel 2019, che qui giova menzionare. Le persone che popolano il futuro creato da Anders presentano sesso e genere non codificati e non riconducibili al sistema binario, si uniscono scegliendo di volta in volta se estendersi in estroflessioni o ritrarsi in introflessioni; e tuttavia «I Piloti fanno sempre l’uomo, le Inservienti fanno sempre la donna. È così che funziona», almeno fino a che Mabirelle, protagonista e io narrante, non sceglie altrimenti. Al di là della vicenda, la traduzione di M. Caterina Mortillaro − che sceglie l’asterisco finale e L con asterisco per l’articolo determinativo e UN con asterisco per l’indeterminativo – risulta di lettura difficile e dimostra che la via da seguire, rispettando la libertà di genere ma anche l’intellegibilità della comunicazione in lingua italiana, non è questa.

Il futuro di un altro tempo è il secondo romanzo di Annalee Newitz, pubblicato negli Stati Uniti nel 2019 e in Italia, nella traduzione di Giorgia De Santis per Fanucci, nel 2021: a parere di chi scrive, costituisce un positivo salto di qualità rispetto al precedente e presenta caratteri di maggiore originalità. Consueta (è ormai un cliché) la narrazione alternata di due protagoniste: Tess vive a Los Angeles, California, nel 2022 d.C. (a brevissima distanza cronologica dalla stesura del romanzo), Beth a Irvine, California, nel 1992 d.C.: la prima è una viaggiatrice, che attraversa epoche e geografie differenti, dall’Ordoviciano (periodo dell’era Paleozoica datato tra 485 e 443 milioni di anni or sono), al Regno nabateo del 13 a.C., alla Chicago del 1893, alla fine di quel secolo XIX che fu determinante per i diritti delle donne; la seconda un’adolescente ribelle, che trova senso alla propria esistenza nella trasgressione della cultura punk e post-punk, in sodalizio con le amiche Lizzy, Heather e Soojin. Consueta, dunque, anche l’alternanza temporale.
Ma è l’idea portante che fa la differenza: Newitz immagina una guerra revisionistica accesa dai sostenitori del suprematismo maschile bianco per azzerare i diritti conquistati al prezzo di lotte e sacrifici dalle donne, che dia vita a una nuova linea temporale.
Alla testa di quelli, l’orribile Anthony Comstock (ahimè, personaggio storico), «il famoso crociato della morale», agente del servizio postale degli Stati Uniti, il cui lavoro «consisteva nell’aprire le lettere spedite in cerca di materiali osceni»; convinto antiabortista, riuscì a far dichiarare illegali le informazioni sulla contraccezione e si vantò (a ragione, purtroppo) di aver spinto al suicidio molte donne, tra le quali, nel 1902, la spiritualista Ida Craddock. A lei il romanzo rende omaggio attraverso la figura di Sophronia (Soph), che è affiancata da un secondo personaggio della storia femminile di fine Ottocento, Lady Asenath (Aseel), ovvero Little Egypt, leggendaria danzatrice del ventre del Midway: con entrambe interagisce Tess, affiliata alle Figlie di Harriet, che rivendicano la filiazione da Harrietb Tubman, già schiava fuggita e attivista nella Guerra civile americana.
Con la protagonista, a opporsi al progetto dei comstockiani, altre donne e persone non binarie che hanno a cuore la libertà di scelta: Anita, Enid, Berenice, C.L., unite da un patto di sorellanza fortissimo, e ancora Morehshin, giunta dalla linea temporale di un futuro distopico nel quale le donne sono ridotte (ancora una volta) alla funzione di fattrici, api regine di tristi alveari. Se i viaggi nel tempo della tradizione fantascientifica hanno per chi li compie la regola generale di osservare e non intervenire mutando il corso delle cose, anche per la salvaguardia della propria esistenza, Il futuro di un altro tempo rivendica invece la necessità dell’azione, riguardo sia ai grandi eventi sia alle vicende di piccole persone, in una riscrittura della storia che renda giustizia a chi è ultimo e oppresso.
Nel romanzo, viaggiare attraverso i tempi e gli spazi è possibile non grazie a macchine tecnologiche (altro elemento di novità), bensì mediante cinque portali che fungono naturalmente da luoghi di interscambio, collocati in India, Giordania, Australia, Canada e Mali: Anthony Comstock e i suoi seguaci hanno l’obiettivo di sabotarli, bloccando la linea temporale in essere, per apportarvi «una modifica irreversibile, un cambiamento permanente impossibile da annullare», creando la peggiore realtà possibile per le donne, per quanto, osserva Anita, «sarebbe già un incubo rimanere in questa, dove le donne non possono abortire e i bambini di colore vengono uccisi dai poliziotti». No, «il viaggio nel tempo non serve a osservare la storia, ma a cambiarla»: ne è consapevole Tess, che non esita a rischiare sé stessa per riparare a un’ingiustizia, per offrire un futuro alternativo a un’amica del passato.

Altrettanto forte sotto il profilo narrativo la vicenda di Beth e del sodalizio di adolescenti arrabbiate, che, in un crescendo di insensatezza e crudeltà, nichilismo e abuso, assistono ai concerti del gruppo punk femminista Grape Ape con altre giovanissime: «indossavano anfibi malconci, jeans strappati e vestiti sgualciti. Con i tatuaggi e lo smalto nero assomigliavano a delle regine guerriere di un altro pianeta, e spiccavano per le chiome selvagge di ogni colore immaginabile». Fino a che le due storie, di Tess e di Beth, si uniranno «spontaneamente in un’unica versione», con la consapevolezza – è Soph a parlare – che «non c’è mai fine alla guerra revisionista, e non possiamo mai cantare vittoria». Meglio non abbassare la guardia: non si sa mai.
(Operazione Annalee Newitz conclusa con successo! In questo contributo non è stato utilizzato nessun articolo, nessun aggettivo della prima classe, nessun participio passato connotato né al maschile né al femminile [faccina che esprime sollievo]. Bene, anche se a costo di un impoverimento della lingua e con un surplus di fatica per chi scrive. La questione è aperta: parliamone per trovare soluzioni condivise).
In copertina: Annalee Newitz, Gino Andrea Carosini.
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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.