Pavia. Via suor Luigia Grassi, o sul viaggio per combattere l’illanguidimento

Nata a Milano il 7 settembre 1811, Luigia Grassi frequentò la scuola delle Figlie della Carità in via della Chiusa, un’esperienza che la segnò nel profondo. Assai colpita dallo spirito caritatevole che le suore avevano nei confronti delle persone povere, sentì la vocazione e il desiderio di seguire le loro orme. In questo senso, l’incontro con la fondatrice, santa Maddalena di Canossa, fu determinante, così entrò definitivamente nell’Istituto delle Figlie della Carità il 31 dicembre 1833. La sua vita iniziò a intrecciarsi con la città di Pavia nel 1852, quando a madre Grassi venne affidato l’incarico di superiora della nuova casa canossiana aperta in città per volontà del Vescovo mons. Angelo Ramazzotti. Nel Pavese, dunque, suor Luigia portò la sua determinazione e le sue opere di carità, cercando di essere un fulgido esempio per quelle sorelle della cui guida era responsabile. Assieme a mons. Ramazzotti, nel frattempo nominato Patriarca di Venezia, suor Luigia Grassi trasformò la casa canossiana di Pavia in un centro missionario internazionale, tanto che viene attualmente considerata come una pioniera delle missioni canossiane. In questo senso, infatti, dopo che mons. Ramazzotti riuscì a convincere papa Pio XII ad apportare le opportune modifiche per poter permettere alle suore di intraprendere l’attività missionaria (cosa che in precedenza non era riconosciuta nelle Costituzioni Canossiane), Luigia scortò di persona le prime missionarie da Pavia verso Hong Kong.

Da quel momento in poi, «organizzò ben sedici spedizioni per le missioni sobbarcandosi una mole di lavoro» non indifferente «sia per gli adempimenti burocratici sia per la difficoltosa ricerca di mezzi» (“Serva di Dio Luigia Grassi Canossiana”, santiebeati.it, 17 febbraio 2015). In realtà, probabilmente il compito più impegnativo era «la scelta e la formazione delle Sorelle da inviare in missione», attività per cui «ottenne… nel 1879 l’erezione di un noviziato missionario nella casa di Pavia» (ibidem). Più volte rieletta superiora, morì l’11 novembre 1888, comportando il lutto dell’intera comunità pavese.

Nel corso degli ultimi tempi leggo e sento sempre più parlare di “illanguidimento”. L’illanguidimento (traduzione del concetto inglese languishing) consiste in una «condizione di vuotezza, immobilità e perdita di interesse… apparentemente molto diffusa e comune tra le persone durante la pandemia», ma che «non ricade nella definizione di depressione, né di burn-out» o di disturbo da stress post-traumatico (“La parola che state cercando è ‘illanguidimento’”, ilpost.it, 29 aprile 2021). In un certo senso, quindi, i languidi si trovano in una situazione in cui non stanno psicologicamente né bene né male, ma si trovano in un immaginario mezzo caratterizzato da un «senso di stagnazione e di fatica» (Anna Maria Testa, “La gran voglia di tirare i remi in barca”, internazionale.it, 18 novembre 2021). Secondo gli esperti, questa condizione mentale potrebbe essere dovuta al venir meno delle capacità «di perseguire obiettivi quotidiani e di interagire proficuamente nel contesto sociale in cui» la persona «si trova» (ibidem), causata dalla grande riduzione di occasioni e stimoli, a coltivare queste capacità dovuta alle restrizioni anti-covid sia esterne (legali) che interne (psicologiche). Segnali di tale condizione sono molteplici e, alle volte, possono esserci anche familiari: «gli amici che lamentano di avere difficoltà a concentrarsi, i colleghi che non riescono a entusiasmarsi nemmeno di fronte alle prospettive aperte dal vaccino, il familiare che tira tardi la notte riguardando per l’ennesima volta un film che conosce a memoria». (ibidem, “La gran voglia di tirare i remi in barca”)

Questi esempi sono molto utili perché riescono a dare una visione “concreta” degli effetti dell’illanguidimento sull’individuo: perdita o attenuazione di motivazioni; mancanza di iniziativa e interessi; difficoltà di concentrazione; probabilità di rendere meno al lavoro; possibilità di sviluppare in futuro disturbi d’ansia o di depressione. Il languishing non è però un concetto isolato come si potrebbe pensare; infatti, anch’esso ha un suo opposto: il flourishing o “floridezza”. Il flourishing può essere inteso «come pieno benessere psicologico», cioè come «uno stato in cui l’individuo prova emozioni positive rispetto alla vita» (ibidem, “La parola che state cercando è ‘illanguidimento’”), o ancora come «quella sensazione che le cose girino… nel modo giusto,… che stiamo avendo successo e progredendo in diversi settori della nostra vita» (Ilaria Betti, “L’opposto del ‘languishing’ è il ‘flourishing’: come rifiorire dopo la pandemia”, huffingtonpost.it, 7 maggio 2021). Per far capire meglio, a condizione che nell’individuo vi sia «una combinazione di assenza di patologie psichiatriche e presenza di alti livelli di floridezza» (ibidem, “La parola che state cercando è ‘illanguidimento’”), il benessere psicologico di una persona potrebbe essere idealmente inserito all’interno di uno spettro continuo i cui estremi opposti sono la floridezza e l’illanguidimento. In quest’ottica, dunque, l’obiettivo di chiunque dovrebbe essere quello di tendere ad avvicinarsi al “polo positivo” anziché al “polo negativo”.

Tuttavia, ritengo molto difficile riuscire a raggiungere il pieno livello di flourishing; sarà perché sono pessimista di mio, o perché tendo a vedere l’essere umano solo come sfumature di grigio e mai come un totale bianco o nero. Fermo restando che invito chi legge a informarsi sull’illanguidimento e sui possibili rimedi, io vorrei qui fornire un approccio per tentare di combattere questa sensazione. Il suono della parola inglese flourishng ricorda il titolo di un album di Franco Battiato: Fleurs. Esempi affini di scritture (d’altronde il vocabolo vuol dire “fiore” in francese), pubblicato nel 1999, «il cui titolo si ispira chiaramente ai Fiori del male di Baudelaire, anche se in senso un po’ più obliquo: sono “fiori”… le collezioni che raccolgono il meglio di qualcosa, le parti eccellenti di un percorso poetico e musicale» (Laura Ingallinella, “Battiato e Sgalambro riscrivono Baudelaire: ‘Invito al viaggio’ (Fleurs, 1999)”, criticaletteraria.org, 23 gennaio 2016). In questo senso, coerentemente «Fleurs raccoglie cover della grande stagione della canzone d’autore italiana e francese», a cui si aggiungono solo pochi brani originali del cantautore, tra i quali il brano Invito al viaggio, fanalino di coda dell’album. Il testo consiste in una traduzione e in un «adattamento originale» eseguito dal filosofo Manlio Sgalambro nei confronti dell’omonima poesia di Baudelaire (ibidem).

Per Baudelaire, l’essere umano si trova in un «continuo disequilibrio tra spleen (l’inquietudine esistenziale, mai repressa) e idéal (l’assoluto, l’infinito, perpetuamente da ricercare), che… bisogna raggiungere» in qualunque modo» (“Battiato e Baudelaire, un invito al viaggio”, battiatolacura.it). Più precisamente, lo spleen «definisce quel complesso sentimento di noia, disgusto e malinconia di qualcosa di indefinito e indefinibile che costituisce una “malattia” esistenziale di molti poeti romantici prima e decadenti poi» (Matilde Quarti, “’I fiori del male’ di Baudelaire: le poesie ‘Corrispondenze’ e ‘Albatros’”, library.weschool.com). Al contrario, l’idéal consiste in quell’«aspirazione a un mondo puro e incontaminato dalla corruzione e dalle meschinità» e «che, attraverso le risorse dell’immaginazione, supera la superficie delle cose per elevarsi verso una realtà superiore, sconosciuta alla maggior parte degli uomini» (ibidem). Nel nostro caso specifico di persone viventi nell’era del Covid-19, dal mio punto di vista possiamo considerare il languishing come il nostro spleen; il flourishing come il nostro idéal. Come lo spleen, difatti, anche il languishing è una sensazione difficilmente definibile di inquietudine esistenziale che cerchiamo di combattere sognando di raggiungere quello stato di pieno benessere psicologico o di flourishing (corrispondente all’idéal) che siamo incapacitati a raggiungere a causa della pandemia. Non potendo fare molto a causa delle restrizioni, infatti, non ci resta altro che immaginare o sognare un mondo e una condizione migliore. Ecco che, pertanto, seguiamo inconsciamente l’invito di Baudelaire al viaggio, da intendere non come viaggio fisico, bensì come viaggio interiore, cioè come un viaggio immaginario verso il proprio idéal (o il proprio flourishing, nel nostro caso).

Tuttavia, mentre in I fiori del male «manca totalmente la prospettiva di una salvezza» (aspettando di fatto la morte consolatrice), al contrario le canzoni Invito al viaggio e La cura sono «per l’appunto un invito al viaggio, un invito a rinviare il suicidio, a superare una condizione esistenziale senza scampo» (Jachia e Pareyson, Franco Battiato. La cura 27 canzoni commentate 1971-2015, Milano, Fabio D’Ambrosio Editore, 2016, p. 20). Quello che dobbiamo fare, in sostanza, è seguire l’esempio di Battiato piuttosto che quello di Baudelaire, ossia dobbiamo diventare colui o colei che «si occupa del mistero della vita ed è capace di offrire una positiva soluzione» (op. cit., p. 19), cioè una cura o, più precisamente, «un positivo cambio di prospettiva esistenziale…» (op. cit., p. 18). Come ben scrive Paolo Jachia, «la cura è l’attenzione che una parte di noi illuminata deve avere per un’altra parte di noi, della nostra anima, in sofferenza» (ibidem). Questa cura dovrà essere per forza di cose «l’inizio di un viaggio terapeutico terreno, ma al tempo stesso ultraterreno…» (op. cit., p. 19) nel senso di intimo e spirituale (non per forza religioso).

Non potendo fare terapeutici viaggi terreni in tempo di pandemia, non ci resta che focalizzare i nostri sforzi sui viaggi interiori, i quali dovranno però essere il più possibile sgombri da qualsiasi desiderio unicamente rivolto verso beni materiali dal dubbio valore. Dal punto di vista contenutistico, difatti, vi è una differenza fondamentale tra i viaggi di Sgalambro/Battiato e quelli originali di Baudelaire, o meglio una mancanza. Ciò che viene a mancare, cioè, è «ogni traccia di sfarzo esotico» e di lusso, sacrificati dal duo in favore di un potenziamento di tutti i restanti «elementi che definiscono il luogo ideale» baudelairiano, ossia: ordine, bellezza, calma e piacere dei sensi (ibidem, “Battiato e Sgalambro riscrivono Baudelaire: ‘Invito al viaggio’”).

Lungi da me sminuire l’importanza del denaro e del successo personale per la felicità di una persona; tuttavia, il punto che voglio affermare è che in questa attuale situazione pandemica bisognerebbe approfittare del tempo che si ha a disposizione anche per cercare di conoscere meglio sé stessi, la propria umanità e la propria mortalità, oltre che gli oggetti e gli affetti che si hanno, magari anche per rivalutarli vedendoli da un’altra prospettiva e per imparare a goderseli di più. In tal senso, c’è solo un modo per fare questo viaggio interiore: attraverso la lettura di grandi filosofi e filosofe, romanziere/i e fumettiste/i che sulla riflessione sulla condizione dell’essere umano e sulla propria sensibilità hanno fondato i propri lavori. Soprattutto, non vergogniamoci se capiamo poco o nulla a una prima lettura! Non importa, non è una gara a chi è più intelligente o a chi ha la libreria domestica più grossa. Usiamo Internet, andiamo a cercare articoli, podcast o altro che ce li spieghi o che almeno ci dia una visione dell’opera diversa dalla nostra. In poche parole, incuriosiamoci e facciamo, perché il primo modo per arrendersi all’illanguidimento è il non fare nulla.

***

Articolo di Giovanni Trinco

Nasce a Padova nel 1997. Laureato in Scienze Politiche, attualmente è laureando in Comunicazione Digitale presso l’Università di Pavia. Appassionato di giornalismo e saggistica, riguardante la sociologia e la filosofia, spera che un giorno il progressive rock possa tornare di moda.

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