Senza salutare nessuno

Questo libro è teatro.

È un romanzo familiare, è un resoconto di viaggio, è una ricerca storica precisa e approfondita. È tutto questo, però, reso con una scrittura visiva, densa, di cui si percepiscono le pause, i mutamenti di tono, i sospiri preparatori, il ritmo perfettamente costruito di quando non ci si può permettere che chi sta ascoltando chiuda gli occhi. O la pagina.

Il tema è spinoso; lo stile, fluido e affascinante. Come un testo teatrale che vuol raccontare e non svelare, ti accompagna con l’armonia di una pagina di narrativa e la precisione netta di un manuale di storia; ti spinge e trascina senza mai lasciarti la mano, senza far perdere un tassello.
Ogni cosa ha importanza; ogni dettaglio merita di essere annotato.

Forse perché tutto nasce dal silenzio, quello angosciato del non voler dire.

Niente. Nemmeno un saluto.

«Era l’estate del 1988: io avevo undici anni e mio padre presto ne avrebbe fatti trentasette. C’eravamo fermati qualche giorno ad Agordo, sulle Dolomiti venete, dove mio padre era nato e i miei nonni di Trento passavano le vacanze. Stavamo per partire per la Jugoslavia. […] «Ma dov’è andata la nonna?», chiese mio padre uscendo dal bagno, lavato, sbarbato e smanioso di nicotina. Alzai le spalle. Lui si precipitò fuori, a scrutare la strada per controllare se stava tornando. «Ma dov’è andata?», gridò infuriato: gli sembrava impossibile che proprio la nonna, che sempre ci stava addosso con le sue premure, quella mattina si fosse dimenticata della nostra partenza. […] Soltanto dopo aver finito di bere il latte col Nesquik mi accorsi di quel biglietto appoggiato sul tavolo della cucina. Era scritto nella grafia precisa, da ex maestra, della nonna. Diceva: Non mi salutate nessuno. Buon viaggio».

È così che prende animo la curiosità di una ragazzina e poi la sete di una donna che, a distanza di anni, proverà a dare un nome a quella fuga precipitosa.

Una fuga che, lungo l’intero arco di vita di «nonna Iole», ha assunto la forma dell’afasia, del tacere ostinato, delle foto mancanti, delle lettere inesistenti, del cognome italiano a tutti i costi e così rimasto per sempre.

E in quella fuga silenziosa, secca come una manciata di ghiaia che si prova a ingoiare, rimbomba una parola: foibe.

«Scoprii che esiste un’altra parola per definire una foiba, dolina, e provai a usarla per sostituire quel brutto termine nella mia testa — dolina portava con sé tutta una languida atmosfera ungarettiana, mi faceva sentire una docile fibra dell’universo. Ma non ce l’ho fatta: il termine dolina non ha attecchito. Non si può mettere in mezzo la poesia per attenuare il suono dei cadaveri che scricchiolano sotto le scarpe».

L’autrice, Silvia Dai Pra’, parte dunque da una vicenda familiare per declinare un aspetto della storia del Novecento che, ancora oggi, viene strumentalizzato e sporcato da chi confonde, per volontà o per ignoranza, la memoria con la propaganda. Non ci sono sconti o edulcorazioni. Ci sono i fatti, che Dai Pra’ scopre e racconta; c’è il suo viaggio in Istria, le sue indagini in archivio, le persone incontrate, i lontani parenti ritrovati.

C’è soprattutto, la voglia di capire. Perché il dolore, la violenza, non fanno riposare, mai. Nemmeno i morti, nemmeno i sopravvissuti, nemmeno i posteri che, con loro, dovranno fare i conti. A meno di non chiudersi in un’indifferenza tossica che, a cadenza fissa, giustificherà e permetterà altro dolore e altra violenza.

È per questo che bisogna sapere. Anche partendo da storie piccole, familiari, con la lettera minuscola.

Da qui, poi, ci si può spostare, si può allargare lo sguardo e ingrandire le vedute.
E la vicenda di Romeo Martincich, bisnonno dell’autrice, divenuto Martini con l’avvento in Istria del regime fascista e del decreto della fine del 1933, è il punto di partenza e quello di arrivo. Nel mezzo, la Storia grande, quella con la lettera maiuscola, quella scritta dagli uomini potenti, quella che mangia i poveracci e le poveracce, che li e le usa e poi, quando non servono più agli scopi, prova a farli sparire.

Nel mezzo, il Novecento, la dittatura, il fascismo di una terra di confine che è un fascismo muscolare più che ideologico, il disastro minerario di Arsia — il più grande della storia italiana – l’italianizzazione forzosa, l’8 settembre, la resistenza italiana e slava, i partigiani titini, i nazisti, le foibe.

Il viaggio di Dai Pra’, fisico e di ricerca, sarà tutt’altro che facile. La reticenza di chi sa, il dolore di chi c’era, gli ostacoli posti da chi non vuol conoscere, accompagneranno l’autrice lungo tutto il suo percorso.

Alla fine arriverà a conoscere la verità sulla sua famiglia; alla fine, riuscirà anche ad andare alla foiba di Vines, la foiba dei colombi.

Alla fine, però, i conti non tornano mai. Perché il dolore avanza sempre un credito quando sono gli uomini forti a dettare legge.

Ciò che da questo libro emerge, atroce, è l’uso abominevole e propagandistico della morte. Se serve, allora essa diventa tematica, spettacolo, voyeurismo. Se non serve, di essa si sussurra, non si parla, si nega. È una questione di potere. È una questione di cosa è utile al potere. Quello stesso potere che ha deciso a un certo punto che gruppi sociali devono per forza odiarsi tre di loro. E la gente poi inizia a odiarsi davvero.

«Partirono qualche giorno dopo […], mentre le foto dei cadaveri di Vines erano ancora affisse sui muri. Partirono dopo che le autorità ebbero sepolto le vittime delle foibe con grande pompa, quasi la loro morte contasse mille volte di più di quella che i tedeschi spargevano in ogni luogo».
Tra quei cadaveri, evidentemente, vi è anche quello del bisnonno Romeo. E poiché la Storia, pur non insegnando nulla, è comunque prodiga di esempi, quando i morti iniziano a essere estratti dalla cavità «a circa ottocento chilometri da lì, le truppe naziste entravano nel ghetto di Roma e deportavano ad Auschwitz milleventitré persone. Ne tornarono solo sedici: gli altri morirono per colpa dei tedeschi — o, come ho imparato a dire in Croazia, dei tedeschi e degli italiani»: era il 16 ottobre 1943.

A riconoscere il corpo di Romeo Martincich, la figlia Iole.

Ecco, allora, che forse quella fuga e quel mancato saluto assumono, se non un senso, almeno una dimensione: si scappa dall’orrore, dal suono sordo che ci batte dentro togliendoci la parola, per evitare che esso ci dilani.

Non vi sono banalizzazioni, in questo libro, né analisi superficiali.

Si cerca, anzi, di dare la giusta misura a eventi storici che troppo spesso sono stati usati invece di essere studiati e raccontati. I rimpalli temporali sono continui e assolutamente perfetti: presente e passato si alternano, quasi a incalzare chi legge che tutto ci riguarda, ciò che è stato e ciò che è, e non solo perché uno è causa dell’altro.

La linea che lega ieri e oggi ha a che fare con la responsabilità della memoria.
«È da quando sono rimasta incinta che ho cominciato a provare questo orrore fisico, non razionale, per la violenza; è come se qualcosa dentro di me si ribellasse a questa furia insensata che può travolgere la cura, la dedizione con cui ha preso forma un corpo; è come se il mio cervello si rifiutasse di accogliere la schizofrenia del mondo: come se mi sembrasse impossibile, illogico, che nello stesso universo possano coesistere la profondità dell’amore che provo e la violenza della storia».

Una responsabilità che ci riguarda, tutti e tutte. Perché la Storia dovrebbe appartenere solo alla verità.

Silvia Dai Pra’
Senza salutare nessuno, Un ritorno in Istria
LaTerza, Roma, 2019
pp. 180

***

Articolo di Sara Balzerano

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Laureata in Scienze Umanistiche e laureata in Filologia Moderna, ha collaborato con articoli, racconti e recensioni a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è quello di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché domandare e avere dubbi significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

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